Missili, portaerei e strategia: così Pechino ora sfida gli Stati Uniti, di Antonio Maria Costa

La permuta delle parti è straordinaria. Oggi la Cina propone la politica dell’America di un tempo: co-esistenza e globalizzazione. L’America fa il discorso della Cina di anni fa: nazionalismo e protezionismo. Un drammatico ribaltamento, foriero di altri ancora.

 

Infatti i vincitori di ieri non accettano la sconfitta odierna: «Restituiamo grandezza all’America», strilla Washington. Dal canto loro, i vincitori di oggi aspirano al riscatto dal passato: «Non dimentichiamo secoli di umiliazione», risponde Pechino. Lo scontro tra le due potenze, e la retorica che l’accompagna, si avvicinano al punto del non-ritorno. Nulla è escluso, neppure il conflitto. L’Europa, che ora mostra maggiore simpatia verso Pechino che Washington, rimane passiva. Come si è arrivati a tanto?

 

Dapprima l’avvicendamento delle relazioni di forza nel Pacifico è frutto di avidità. Negli Anni 90, l’America capitalista finanzia la trasformazione della Cina comunista, de-localizzando l’industria per beneficiare di salari bassi, sindacati inesistenti, noncuranza per l’ambiente. Gli imprenditori americani, imitatati presto dagli europei, massimizzano i ritorni immediati e non badano al futuro: credono di trattare con una razza inferiore, capace al massimo di clonare i prodotti (come fece il Giappone, a suo tempo).

 

Non è così. In un quarto di secolo la globalizzazione aiuta un miliardo di orientali a uscire dalla povertà, e crea un mezzo miliardo di nuovi poveri in Occidente. Al contempo, la Cina diventa la maggiore potenza economica al mondo in termini di produzione industriale ed esportazione. Nel 2015 raggiunge il primato del reddito nazionale in termini di potere d’acquisto, il secondo al mondo in termini di Pil nominale (11.400 miliardi di dollari, dopo i 18.500 degli Usa). Le conseguenze finanziarie sono senza precedenti. La Cina accumula le maggiori riserve valutarie mai esistite: 3 mila miliardi, sufficienti a creare un festone di biglietti da 100 dollari dalla Terra alla Luna e ritorno. In altre parole, la cultura cinese del risparmio e accumulazione sostiene ed è sostenuta dalla condotta degli americani, spendaccioni e indebitati (500 miliardi di dollari di disavanzo commerciale annuo).

 

Non può continuare. Infatti, dopo la crisi finanziaria degli ultimi anni, la Cina alza la posta: mira a de-americanizzare l’economia globale. Inizia con l’appello al passato. La propaganda spiega al popolo che all’alba della civilizzazione, prima ancora della nascita della civiltà occidentale, una cultura d’ispirazione divina è sbocciata in quella che oggi è loro terra. Poi, per mobilitare l’opinione pubblica sempre più borghese e sempre meno comunista, il regime velatamente rivaluta Confucio e le sue virtù di compassione, tolleranza e integrità – importante, in un Paese corroso dalla corruzione.

 

Al contempo, il regime sfida la superiorità industriale/militare americana. Anche l’imperativo di recuperare il ritardo tecnologico è promosso con richiami al passato. «Abbiamo sviluppato l’alta fusione e gli altoforni duemila anni prima dell’uomo bianco», dice la propaganda, che celebra le altre scoperte scientifiche dell’Impero celeste: la carta, la polvere da sparo, i razzi multi-stadio, la bussola (e gli spaghetti). Dopo secoli di sfruttamento interno (che il comunismo stronca) e di umiliazione internazionale (che il regime intende vendicare), la Cina non esce solo dalla povertà rurale. In un terzo di secolo, passa dalla manifattura de-localizzata dall’Occidente allo sviluppo di prodotti concepiti, progettati e lavorati localmente: uno sforzo facilitato dal fatto che un regime totalitario programma il futuro meglio di un Paese democratico. Il regime conta sull’impegno scolastico (oggi la Cina laurea il maggiore numero di ingegneri al mondo: due volte la Russia, quattro volte l’America) e sul dovere in fabbrica (che nel 2014 causa 600 mila morti per lavoro eccessivo: “gualaosi”, in gergo locale). Il risultato? Oggi Pechino produce più mezzi di trasporto aereo-navali, missili, satelliti, treni ad alta velocità, centrali nucleari, robot e tecnologie di comunicazione del resto del mondo (la sola Foxconn produce 500 mila iPhone al giorno). Conta sul passato anche per agevolare l’esportazione di manufatti e l’approvvigionamento di risorse. Prima ripristina la storica Via della Seta verso l’Europa, poi riapre porti e rotte intorno all’Africa, ormai suo possedimento neo-coloniale. Quindi crea punti strategici in America Latina, ora avversa agli Usa. Al contempo trasforma le comunità cinesi nel mondo, 50 milioni di persone, in baluardi strategici che mescolano commercio, finanza, politica e informazioni segrete.

 

L’ultima mossa di Pechino, in corso, mira a trasformare il potere economico in potenza strategica. Insieme alla de-americanizzazione dell’economia mondiale, la Cina intende sottrarre agli Usa il monopolio della tecnologia d’avanguardia: l’intelligenza artificiale, che forgia la guerra del futuro. I recenti sviluppi nel Mare della Cina, dove annualmente transita un terzo del traffico marittimo mondiale, simboleggiano questo sforzo. Per gli Usa la politica di Pechino nel Sud Est asiatico è imperialismo regionale, da contrastare. Per la Cina è sovranità delle acque territoriali, strategiche quanto mai. Sotto di esse, si stima, giacciono 130 miliardi barili di petrolio e 25.000 miliardi di metri cubi di gas, per un valore di 12 mila miliardi di dollari – risorse ambite anche dai Paesi costieri: Vietnam, Malesia, Indonesia, Filippine e Taiwan. Il Giappone, che non nasconde i timori di conflitto, pensa l’impensabile: il riarmo nucleare.

 

In reazione, per proteggere sovranità nazionale e risorse naturali, Pechino trasforma un atollo roccioso, il Fiery Cross Reef, in un avamposto protetto da una nuova categoria di missili ipersonici: i Df-21D progettati per distruggere non solo la marina giapponese: anche l’orgoglio del Pentagono, le navi portaerei. Pechino chiama i suoi missili «sha shou jian», affonda portaerei. Veloci dieci volte il suono, Mach 10, sono oggi imbattibili: la marina americana può proteggersi solo da razzi sotto Mach 6. Secondo la Cia la Cina possiede un numero di Df-21D sufficiente a distruggere la flotta Usa nel Pacifico, a partire dalla portaerei Reagan di base a Yokosuka – malgrado le sue 97 mila tonnellate di potenza aereo-navale, costate 5,4 miliardi di dollari.

 

Traumatizzata dal drammatico attacco a Pearl Harbor, l’America non è passiva. Tra le armi progettate in funzione anti-Df-21D si distingue l’artiglieria intelligente M-7. Spara proiettili sette volte la velocità del suono, con forza cinetica di 31 megajule, pari a 250 metri cubi di esplosivo. Di mole modesta (12 kg), gli M-7 sono ingegnosi tanto quanto i massicci Df-21D: l’intelligenza artificiale dei loro micro-chip valuta l’obiettivo, modifica la traiettoria ed evade ogni contro-vettore. Armata di M-7 la flotta Usa potrà solcare il Pacifico indisturbata.

 

Pur riconoscendo che la Cina sta diventando un avversario anti-Usa più pericoloso dell’Urss di un tempo, non tutti concordano sull’inevitabilità della supremazia cinese nel mondo. Gli argomenti contrari sono parecchi e ben fondati: il rallentamento della crescita (dal 9 al 6% annuo), l’invecchiamento demografico (risultato della politica del «figlio unico»), la bassa produttività (controparte di bassi salari e lunghe ore lavorative) e soprattutto le sofferenze bancarie, dovute a sprechi e corruzione nel settore immobiliare, aziende pubbliche e infrastrutture inutili. Secondo molti osservatori sono vincoli letali: per loro la Cina, che nell’ultimo biennio ha bruciato 800 miliardi di valuta per stabilizzare il sistema finanziario nazionale, non è in grado di reggere la sfida con gli Usa. Personalmente, ne dubito. Per il quadriennio 2017-’20 entrambi i Paesi hanno programmato investimenti industriali-militari pari a un triliardo di dollari: una spesa che i parsimoniosi cinesi possono permettersi, mentre gli sciuponi americani languiscono sotto il maggiore debito nella storia dell’umanità.

 

Per noi europei, la preoccupazione dominante non deve essere il destino individuale dei contendenti, quanto il nostro futuro – che dipende da, e condiziona, quello dell’umanità. Una superpotenza con le spalle al muro, la Cina oppure l’America, può essere tentata di salvarsi anche a rischio di distruggere il pianeta. Non possiamo rimanere passivi, né tanto meno neutrali.

la stampa  02/03/2017

 

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