Alziator, il tempo e la morte, la poesia (4), di Gianfranco Murtas

«Sento le bianche torri

stupenda ricchezza

di una Pisa lontana

assorto cercavo

di penetrare i segreti

tutti di una città

languida e misteriosa

come bellezza distratta di donna.

Più aprivo

più rimaneva chiusa.

Volevo averti penetrarti

per capirti tutta e raccontarti

ai frettolosi abitanti tuoi.

Riuscito ci sono

in parte.

Ho iniziato il messaggio.

Ma tu ingrata

il nome di una strada hai negata

a me che tante ne ho percorse.

Una strada che

dire facesse ai posteri

Chi era costui?

Qui mi è fiorita

la destra mano

che scavava

per strada

e sulla cattedra

da strano ritmo ripetitivo

/ presa».

\

Come un libro di preghiere laiche, universali cioè, onoro la memoria di Francesco Alziator, ora che siamo nel 40° della sua scomparsa, aprendo qualche libro suo e qualche altro di chi lo ha ricordato nel tempo.

Nell’autunno 1951 fissò lui sulla carta una riflessione sull’essere, sulla vita e sulla morte, come un pittore capace di tutto con due sole pennellate: «Cimitero di paese / sotto un vasto cielo / di luna e nubi. / Pochi cipressi / e pochi morti / che chiedono / gli stessi perché / di mille anni / di filosofia». Così nella raccolta I versi di Francesco Alziator, a cura di Cenza Thermes, Trois Editore, 1996.

Le spoglie del professore riposano – accanto a quelle della moglie carissima (e prezioso, provvidenziale dono alla sua vita e ai suoi studi) Dolores Ghiani – nel camposanto civico di San Michele, in un quadrato di monumenti a terra, sul fianco destro e mediano della solenne scalinata. In un primo tempo erano state inumate, quelle spoglie, a terra, nella parte opposta del cimitero. Giustamente poi la vedova volle definire per sé “con lui”, nel domani che sarebbe venuto, il luogo terrestre del sempre, del loro sempre.

San Michele: il nome assegnato al camposanto, quando venne inaugurato nel 1940 – l’anno tremendo e sciagurato della entrata in guerra dell’Italia fascista – fu quello stesso della vasta area che lo inglobava, a valle del colle recante i resti del quasi millenario castello che era stato forse giudicale, certamente pisano e poi aragonese e spagnolo… Era allora, San Michele, uno dei nuovi quartieri cagliaritani di cui Alziator aveva tratteggiato, con la solita maestria, natura, storia passata ed umanità presente, per L’Unione Sarda. Lo aveva fatto, anzi, ripetutamente, per diverse annate; altri, poi, avrebbe materializzato quelle sue immagini e quei suoi colori narrativi nelle pagine toccanti e gustose di L’Elefante sulla Torre.

Ecco, del tanto fissato sulla carta, appunto per il giornale, alcuni stralci dell’articolo pubblicato il 23 ottobre 1958 (titolo: “Rotto dopo secoli il silenzio di San Michele”): «Per dodici secoli la morbida piana intorno al vecchio castello di San Michele si è ombreggiata di fichi, fiorita di cardi e macchiata di fichi d’India: i conigli selvatici popolavano i fianchi del colle e plumbei elimi salivano, a stento, verso la rocca pisana, contendendo alle vigne l’avara terra argillosa. Ora la città ha vinto i silenzi, ha diroccato a pezzo a pezzo quell’antica solitudine di campagna triste e le case a mandrie hanno invaso pianura e collina… San Michele, il più recente dei rioni cittadini, ha poche eredità del passato. La prima è il nome e la seconda qualche diecina di case del decrepito villaggio Carboni.

«Il nome gli viene dalla cappella che stava presso il castello, eretta in onore dell’arcangelo, e nella quale, ai tempi di Giovanni Spano, alla domenica, si diceva messa ed una volta all’anno c’era sagra campestre con danze e carapigna. Da quella cappella prese il nome di castello che, però, era anche detto “della Contessa”… Quando, dopo il 1822, il nuovo tracciato della via per Sassari abbandonò le orme dell’antica strada romana, nacque un incrocio con la via per Iglesias, proprio là dove l’ardito progetto dell’ingegnere Carbonazzi fece sorgere la prima grossa cantoniera così ben costruita e così confortevole che ancora oggi si mantiene in ottima salute. Intorno a quella casa cantoniera, sorsero gli stallaggi per i cavalli da posta, rimesse e ricoveri per viaggiatori.

«Un nobile dell’interno, che aveva l’appalto di un buon numero dei servizi di posta, era il proprietario di gran parte delle terre tra il Castello di San Michele e la prima cantoniera della Via Feliciana; scomparse le diligenze ed i cavalli da posta, intorno agli stallaggi e alle rimesse, tra orti e cespugli, nacque un misero aggruppato di casupole che si appoggiò quasi a protezione alla villa, sorta nei luoghi di un antico noviziato, dove oggi un nutrito Nettuno in marmo, nel giardino, e le patite figure di un bassorilievo sacro, tra i merli del muro di cinta, sono le sole testimonianze di un sontuoso passato aristocratico e villereccio.

«Quando la bella villa decadde, le casupole, invece, crebbero e la zona fu male abitata, mal tenuta e malfamata, tanto che quella sorta di barrio chino di estrema periferia fu battezzato Shangai. Poi, fui proprio là che cominciò la rinascita: le casette del Villaggio Carboni si fecero più pulite e le stradicciole tra l’una e l’altra furono sgombrate dalle montagne di immondizie che generazioni di pigrizia, di denutrizione e di indifferenza avevano lasciato accumulare.

«Quando s’aprì il nuovo Cimitero, il villaggio era già mutato di volto. Fu come se i morti ridessero un po’ di fiducia ai vivi. Negli spiazzetti e nel giardino della villa la zappa tornò al lavoro e nacque, con la pietà dei defunti, il primo commercio della vecchia Shangai. “Si vendono grisantemi”: così era scritto sul cancello della villa. Intorno a quei grisantemi è ricominciata la speranza. Col secondo dopoguerra, vennero i casermoni di Bingia Matta e le strade ampie. Quando non c’erano che le poche case del Villaggio Carboni, oltre la via di Sant’Avendrace, solo due lunghi tratturi, da Is Mirrionis, calando uno a oriente e l’altro a occidente della vecchia Piazza d’Armi, congiungevano quel remoto appuntamento di umanità diseredata al resto del mondo…

«San Michele è ancora un rione che cerca un volto. Non è più quello dello scomparso barrio chino e neppure del tutto quello dei palazzoni pretenziosi che tendono verso la collina. San Michele è ancora in certo senso Far West: nelle strade che ad un tratto si rifanno collina dirupata, nei cespugli d’erbe selvatiche che sbucano tra le architetture di avanguardia. Chi o cosa darà il suo tono definitivo al quartiere? «L’imponente mole del nuovo Cimitero o le officine sparse ai margini estremi del nuovo rione? Resterà sempre un po’ rurale, come ancora è oggi, nella bella piazza che proprio ha il nome del quartiere, dove, accanto alle alte sagome dei lampioni fluorescenti, è sempre possibile scorgere una mandria di mucche che, del tutto indifferente al traffico, bruca su bei prati di trifoglio… San Michele è rione giovane, giovanissimo e dai giovani c’è tutto da attendersi, il bene e il male. Per ora, il vecchio castello e le stelle stanno a guardare».

Ne visitano il sepolcro familiari ed amici, al San Michele. Dovrebbero farlo anche gli amministratori. I poeti, pure loro, chiamano a sé l’Alziator di sempre, ne immaginano la lezione che continua, evocano anche le delusioni che il tempo, fortunatamente, sanerà, creandone altre.

Scrive Cenza Thermes in Parlano i morti (Capriccio di primavera): «Picaro? / Ma perché? / Era forse la maschera, / divertente, se non proprio bella. / Ma un vero picaro / io non fui mai. / Io fui piuttosto / un hidalgo senza terra, / fuori tempo e fuori luogo. / Straordinario scrittore / mi dicono i saggi. / Certo lo fui, / piacevole, scherzoso, / e dotto sempre. / Ma lunghe ore trascorsi / su vecchie carte / e libri polverosi / per studiar la mia gente / e la sua vita. / Vi prego, / non dimenticatelo».

E’ vero. Giuseppina Cossu Pinna, che avrebbe negli anni successivi diretto la nostra Biblioteca universitaria (e più tardi avrebbe anche presieduto gli Amici del libro), lo accoglieva e accudiva, il professore, nelle sue necessità di approvvigionamento dei libri antichi e rari, e dei faldoni di documenti manoscritti secenteschi, su a Castello. Gli aveva destinato un tavolo speciale, tutto per sé. Gli spazi erano allora, e così ancora per molti anni, fino a quel fatidico e doloroso 1977, assai minori di quelli di oggi, fra la sala settecentesca e gli ambienti dell’ex Tridentino, ma una riserva esclusiva, alla Consultazione, la meritava e non la pretendeva, però, il professore. Studiava per noi, per riversare a noi l’esito delle sue fatiche, filtrato e ricreato dal suo genio e dal suo talento in combinazione creativa.

Anche Beppe Fanni, nella sua silloge E subito fu… la quiete di Bonaria, include fra le ideali tappe del famedio cagliaritano (per questo va bene il riferimento a Bonaria) l’autore di La città del sole e di tante pagine d’oro: «Sento le bianche torri / stupenda ricchezza / di una Pisa lontana / assorto cercavo / di penetrare i segreti / tutti di una città / languida e misteriosa / come bellezza distratta di donna / Più aprivo / più rimaneva chiusa. / Volevo averti penetrarti / per capirti tutta e raccontarti / ai frettolosi abitanti tuoi. / Riuscito ci sono / in parte. / Ho iniziato il messaggio. / Ma tu ingrata / il nome di una strada hai negata / a me che tante ne ho percorse. / Una strada che / dire facesse ai posteri / Chi era costui? / Qui mi è fiorita / la destra mano / che scavava / per strada / e sulla cattedra / da strano ritmo ripetitivo / presa».

 

Condividi su:

    Comments are closed.