Norcia e la provincia umbra, adesso Penne e l’Abruzzo. Nei nomi di Ottorino Alberti e Raffaele Piras le memorie della fraternità sarda, di Gianfranco Murtas

 

Rimbalzano dalle cronache dolorose del terremoto e delle slavine di roccia e ghiaccio, che tanti lutti e rovinosi danni materiali hanno provocato, nomi di località che mi sono care perché legate agli studi delle vicende di quei sardi illustri che in terre lontane dalla loro isola hanno operato in tempi forse remoti ma pure presenti, in modo vario e comunque effettivo, nella memoria delle generazioni che s’affacciano alla scena della tragedia d’oggi.

Soltanto per questo, per l’eco di una fraternità che fu sperimentata dalla nostra terra verso quelle terre di mezzo del continente italiano, mi pare bello e giusto richiamare, quasi soltanto sussurrare, come una eco di sentimento, l’operato di due vescovi che proprio a Norcia (con Spoleto) ed a Penne (con Atri) ebbero per diversi anni la sede della loro missione apostolica. Don Ottorino Pietro Alberti, nuorese, già professore di filosofia della natura (e decano) alla Lateranense prima che rettore del seminario regionale sardo, fu  presule in Umbria dal 1973 al 1987, quando ci raggiunse nuovamente a Cagliari. Don Raffaele Piras, quartucciaio, docente di dogmatica e prorettore al collegio teologico di Cagliari, capitolare e vicario generale nella stessa maggior archidiocesi isolana (al tempo degli episcopati Serci-Serra e Balestra), fu vescovo delle diocesi unite di Penne ed Atri nel 1906 e qui rimase (mentre pareva imminente per lui l’avvicendamento alla metropolia di L’Aquila) fino alla immatura morte sopraggiunta nel 1911.

Altre volte e altrove mi sono soffermato a dire di don Ottorino e della sua azione apostolica nel cuore dell’Umbria, e specialmente nella diocesi unita di Norcia, con le infinite occasioni delle visite alle comunità locali e dei documenti via via pubblicati come espressione della sua cura pastorale; qui vorrei richiamare di monsignor Piras – il quale, pur in un periodo più contratto, fu anch’egli prolifico di lettere indirizzate ai suoi diocesani (cinque, una per la quaresima di ogni anno) – qualche riga che rimanda, associandole, alle regioni sorelle della Sardegna e dell’Abruzzo.

«Non dubitate: – scrisse nell’appendice “Parole di commiato ai miei conterranei” a complemento della prima lettera pastorale indirizzata “al clero e al popolo delle diocesi unite di Penne ed Atri” – se nel mio Abruzzo certo troverò anime belle, spiriti gentili, menti elette, mi sarà caro là, per le valli e monti ove Dio mi destinò, narrare ai miei nuovi figli di Penne ed Atri anche della vostra indole amabile, del vostro squisito sentire, del vostro ferace ingegno, della vostra patriarcale ospitalità, e soprattutto di quella romanità e pietà verso l’Eucaristico Sacramento di cui siete come ripieni, coperti e corazzati…». E rivolgendosi personalmente a fra Pietro Balestra del quale era, a Cagliari, il vicario: «mi riconforta non poco un pensiero, o Monsignore, ed è che in ogni istante del mio pastoral governo le vostre doti episcopali mi staranno dinanzi agli occhi ad infondermi per Gesù Cristo e per la sua gloria sempre novella lena e coraggio. Tu, il Paolo dell’Isola nostra; ed io, se pur mi è lecito dirlo, ed oso appena appana pronunciarlo, io, il piccolo Timoteo della mia sposa novella, la Diocesi di Penne ed Atri…».

Visitò ripetutamente, don Raffaele Piras, la ventina, forse meno, di paesi delle campagne, tutte in montagna, giungendo ovunque, ora per le feste patronali ora per le cresime o i conforti parrocchiali, montando muli e cavalli; dette corso ad una compiuta visita diocesana e ne impostò una seconda: ottocento anni di storia, partendo dal V secolo, come chiesa locale autonoma, altri settecento anni in associazione con Atri città-diocesi, storia antica e onorata era quella di Penne, oggi incanalata nella nuova aggregazione con Pescara (mentre Atri è associata a Teramo). Fu un vescovo certamente datato, monsignor Piras: interno alle coordinate antimoderniste di papa Sarto, essenzialmente religioso e catechetico, timoroso di impegnarsi sulle questioni temporali, d’ordine amministrativo e civile, in una stagione che ancora risentiva della retorica (fortunatamente svelenita) del papa prigioniero e dell’insoluta questione romana. Ma fu umanamente, per quanto se ne conosca, vicino, anzi vicinissimo, ai poveri, ad un popolo che per tanti aspetti somigliava, socialmente, a quello isolano, del capoluogo e del suo hinterland, che aveva lasciato e al quale sarebbe stato restituito molti anni dopo la sua morte.

Appartiene a questo medesimo sentimento di prossimità ecclesiale, suscitato anch’esso dal terremoto dello scorso anno, e in particolare dalle scosse di ottobre (che danneggiarono la monumentale chiesa dell’Annunziata), anche la comunità di Sulmona (in provincia de L’Aquila) che ebbe le cure pastorali di un altro dotto vescovo sardo – don Salvatore Delogu (già ausiliare a Cagliari e poi ordinario in Ogliastra) – per un decennio abbondante, fra anni  ’70 e anni ’80.

E’ ben chiaro che le ragioni sulle quali possa oggi poggiare la solidarietà della Sardegna all’Umbria di San Benedetto (e degli altri e quanti santi! San Francesco e Santa Chiara…) e all’Abruzzo della Madonna del Carmine o di Santa Reparata (pensando adesso ai patroni di Penne ed Atri) sono quelle dei bisogni, e dunque del soccorso comunque offerto, ben più che quelle della memoria evocativa di personalità onorevoli e di trascorse, seppure esemplari, testimonianze di vita. Ma certo ripensare ai “ponti” d’umanità che affratellarono le terre più povere dell’Italia, di qua e di là del Tirreno, aiuta anche, io penso, a dare consapevolezza e responsabilità davanti ai doveri dell’oggi. Che sono doveri insieme morali e civili, patriottici, politici ed umanitari, senza scissioni fra le categorie.

 

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