Usa, in strada per i diritti come negli anni ’70: il cortocircuito della nuova America, di Roberto Saviano

La protesta delle donne ha un sapore di antico: al capo della Casa Bianca quei valori non interessano. Lui promette di cambiare tutto

LE MANIFESTAZIONI contro Trump in molte città d’America e del mondo hanno avuto una cifra di allegria e multiculturalità. Non solo, era evidente la presenza di ragazzi e ragazze accanto ai militanti maturi che avevano organizzato la marcia. Un clima di festa della democrazia rara in un Paese che non si mobilita facilmente. La cerimonia d’insediamento di Trump è stata invece lugubre: tutti bianchi, pochissima musica. La metà della metà delle persone che ci furono per Obama. Ma questo non è stato sufficiente per giudicare il suo insediamento come fallimentare. Tutt’altro. Le manifestazioni contro Trump hanno avuto un sapore antico, d’archivio. Sembravano le stesse proteste contro la guerra in Vietnam, le marce pacifiste degli anni ’70. Slogan del passato compressi nella versione Tweet. Anche il discorso di insediamento di Donald Trump ha avuto toni che credevamo superati, ma a differenza della marcia di protesta il suo discorso è stato il nuovo (nuovo che non significa giusto). Trump è stato in grado di rinnovare i soliti e vecchi discorsi, razzisti, protezionisti, sciovinisti perché lo ha fatto con un tono quotidiano, un eloquio banale, nessuna spiegazione. Non ha provato a convincere con nessuna argomentazione. E questa è la rivoluzione che sta realizzando. È stato un invito a conglomerare le frustrazioni, di tutti.

A sfilare contro Trump c’erano moltissime femministe indignate di dover ribadire principi e diritti che si credevano profondamente realizzati negli Stati Uniti. Alla manifestazione chiaramente stavo con loro, con i manifestanti, contro Trump, ma percepivo che il nuovo, il terribile e drammatico nuovo era Trump e il passato rischiavano di essere proprio i manifestanti con cui sfilavo a New York. Ecco il corto circuito. Quindi i diritti, la lotta al sessismo, all’omofobia sarebbero il passato? No, ma il modo con cui si affrontano deve ancora trovare una sintassi capace di poter parlare a chi in questo momento non ha fiducia in alcun progetto politico, ha diffidenza verso qualsiasi percorso intellettuale e si chiude dentro indifferenza e distanza dalle istituzioni.

Trump invece a questa parte di elettori riesce a parlare certo in un modo incredibilmente ingannatorio, nel senso che raccoglie a sé qualunque tipo di frustrazione, qualunque tipo di rabbia, qualunque tipo di indignazione, personale, individuale, privata, privatissima. La rabbia di una classe media trascurata da Obama, la frustrazione dell’America bianca operaia che ha perso ogni garanzia. L’America che vede nelle regole l’inizio della fine del business. Ma Trump non è solo sostenuto da chi crede in Trump, tutt’altro. Chi vota Trump non pensa che sia stato una persona leale, molti parlano chiaramente di un imbroglione. La forza di Trump è quella di aver rivoluzionato completamente la politica: chi lo vota non deve condividerlo, in molti casi non lo stima nemmeno e non pretende da lui alcun rigore. Questo è il populismo che rende imbattibili i suoi leader. Farsi votare senza dover convincere nessuno.

Nelle democrazie qualsiasi decisione politica viene analizzata, dilatata, valutata, invece nel caso di Trump – della rivoluzione che ha fatto ispirandosi direttamente ai personaggi televisivi più furbi – la logica è: non importa che lui sia un chiaro evasore, non importa che lui possa essere esplicitamente razzista o sessista, non importa che la biografia autorizzata della sua famiglia racconti che la fortuna dei Trump nasce con nonno Frederic in grado di fare soldi con un bar trasformato in bordello. Chi vota Trump lo sta votando non perché lui sia corretto, non perché lui sia coerente. Addirittura tutta la sua campagna elettorale è stata basata sull’attacco ai poteri finanziari che appoggiavano Hillary e poi lui stesso una volta eletto ha nominato Segretario di Stato Rex Tillerson, amministratore delegato di una compagnia petrolifera, e per scegliere i suoi consiglieri economici ha attinto dal gotha della finanza, quindi dalle lobby più chiuse che esistano. Ma all’elettorato non importa nulla. Chiede a lui solo due cose: ridacci i soldi che ci hanno tolto, smettila di parlare di diritti, emozioni, libertà, parla come si deve parlare; diretto, scortese, forte. In una parola, autentico.

Trump ha preso dalla televisione e dalla comunicazione dei social network un elemento fondamentale: vince chi riesce ad attrarre l’hater, l’odiatore, il fallito, la persona che non ce la fa e quindi incolpa gli altri per non essere stato accolto. Ovunque nel mondo sta avvenendo questo: qualsiasi centro che seleziona o forma talenti – dall’università, ai giornali, all’arte – viene visto come strumento falso, menzognero. Le università, così come i grandi media, hanno perso credibilità all’occhio di una parte importante di esclusi o di quasi esclusi, come i figli di coloro che ce l’avevano fatta ad avere un lavoro, una casa e che ora non riescono a mantenere o replicare ciò che hanno costruito i loro padri. Di fronte a tutto questo disagio, Trump – ma anche la politica populista in Italia, Francia, Spagna, Grecia – risponde con dichiarazioni di massima irrealizzabili, può permettersi di fare affermazioni senza portare dimostrazioni, senza avere la necessità, per essere credibile, di illustrare come realizzerà il proprio proposito. Può limitarsi a dichiararlo.

Ecco perché Trump è il nuovo, e questo nuovo è terribile, e noi lo vivremo nei prossimi mesi, anzi, giorni, perché in Italia la logica è la stessa: trasformare il cittadino in hater, l’hater in elettore. Questa è la vittoria.

LA REPUBBLICA, 23 gennaio 2017

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