Fronte dell’autodeterminazione: per essere credibili non basta dire “no ai partiti italiani” ma occorre una seria svolta riformista, di Vito Biolchini

Dalla bandiera al governo delle istituzioni: come si fa? 20/01/2017 alle 23:26.

 

Quando si dice il caso. Sbaglio giorno e alla Casa della Cultura di Milano, invece che il libro di un giornalista amico di un amico, presentano il volume “Il riformismo mancato: Milano e l’Italia dal dopoguerra a Tangentopoli” (Bollati Boringhieri) del sociologo Marino Livolsi. Capisco l’errore ma mi basta poco per comprendere che è meglio restare perché il dibattito si profila interessante: insieme al libro già citato, se ne presenta anche un altro, “Compagno del secolo scorso” (Bompiani), l’autobiografia politica dell’ex europarlamentare comunista Gianni Cervetti. I sei relatori si presentano uno dopo l’altro e sono protagonisti di rilievo della scena culturale e sindacale della Milano tra gli anni sessanta e novanta. Non ne conosco nessuno, tranne uno: l’ex sindaco ed ex ministro Carlo Tognoli. Mi siedo e ascolto.

Il dibattito è in realtà una lezione di storia impartita da chi quegli anni li ha vissuti da protagonista, e al centro non c’è solo Milano ma una delle categorie politiche più controverse, quella appunto di riformismo.

Controverse solo in Italia in realtà, perché come fa notare qualcuno, in altri paesi europei dalla fine del secondo confitto la sinistra accettò di stare all’interno del sistema capitalistico, cercando al contempo di orientare l‘azione di governo a favore delle classi più deboli (le famose socialdemocrazie scandinave, ad esempio, fecero così).

Per i comunisti invece “socialdemocratico” era l’offesa massima, tranne poi scendere a patti con la realtà quando si trattava di governare nelle amministrazioni locali. Perché l’habitat naturale del riformismo è sempre stato quello dei comuni.

Soprattutto Milano è stata un laboratorio straordinario sia del centrosinistra che vide assieme Dc e Psi, sia delle prime esperienze di giunte comunali Psi-Pci, i cui elementi più riformisti trovarono sponda nel riformismo cattolico impersonato da quel gigante di fede, cultura e politica che fu il cardinal Martini.

Tre riformismi uniti con un unico obiettivo: migliorare innanzitutto le condizioni di vita delle classi più popolari, e questo attraverso uno strumento: la cultura.

“Ma qual è la base sociale del Pd oggi?” si chiede sconsolato un ex sindacalista della Cisl, mentre altri ricordano che oggi a Milano l’88 per cento (leggasi: ottantotto) della forza lavoro è impiegata nel settore del terziario.

Conclusione: se la politica non recupera i valori del riformismo e non li lega, attraverso la cultura e l’elaborazione intellettuale, ai bisogni di una base sociale fatta in gran parte di giovani precari e partite Iva, la politica italiana non riparte.

E la Sardegna?

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Pressoché scomparsa la sinistra, nella nostra isola tengono alto il vessillo del massimalismo gran parte delle formazioni che si riconoscono nel fronte dell’autodeterminazione.

Questo massimalismo si riassume nella frase “mai con i partiti italiani” (allo stesso modo con cui il Pci diceva “mai con la Dc o il Psi”, e poi si è visto com’è andata a finire). Ora, io penso che questa posizione sia condivisibile nel momento in cui è il punto di arrivo di un ragionamento politico, e non di partenza. Ovvero, se i rappresentanti dei partiti italiani in Sardegna si avvicinano alla causa dell’autodeterminazione, perché escluderli a priori da un progetto? E, al contrario, perché invece coinvolgerli a tutti i costi quando nei fatti dimostrano di essere contro la causa della Sardegna (ed è ciò che io contesto al Partito dei Sardi, perché secondo me oggi non ha senso allearsi con questo Pd)?

La soluzione è quella di predisporre una piattaforma inclusiva, dalla quale poi chi vuole può legittimamente escludersi. Ma iniziare a dire “tu no, tu no, tu no” non è l’anticamera della sconfitta: è la sconfitta stessa.

Il fronte dell’autodeterminazione ha bisogno di apertura, di lungimiranza e di competenze, non di una classe dirigente richiusa nel fortino dei propri slogan. E “mai con i partiti italiani”, se non è inserito in un progetto politico lungimirante, è un mantra che autoassolve dai propri limiti e non fa guadagnare né voti né credibilità.

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I risultati di questo massimalismo sardignolo si vedono, visto che a fronte di un consenso crescente, le amministrazioni comunali governate dalle formazioni dell’autodeterminazione si contano sulle dita di due mani (ad essere molto generosi).

Domanda: come può uno schieramento politico candidarsi a guidare la Regione se non riesce a neanche ad imporsi nei comuni? Non si tratta solo di voti ma anche di esperienze politiche significative che non si è in grado poi di proporre con credibilità all’elettorato: non è un caso che nel 2011 Michela Murgia perse molto del consenso fin lì acquisito subito dopo la presentazione della sua improbabile “giunta possibile”.

Perché dunque in questi anni i partiti dell’autodeterminazione non hanno lavorato a livello locale per mettere a punto un modello politico che poi potesse essere esportato a livello regionale, e far maturare una classe dirigente all’altezza della sfida più grande?

Alle ultime elezioni comunali cagliaritane lo schieramento di Cagliari Città Capitale ha tentato di intraprendere questa strada e non è stato premiato dagli elettori. Ma ciò non significa che non si debba continuare a fare dei comuni dei laboratori politici privilegiati per la causa dell’autodeterminazione (e infatti dopo la sconfitta CCC non ha per niente sbaraccato e ora prova a riproporre la sua esperienza in altri territori, facendo tesori dell’esperienza accumulata).

È chiaro che il virus massimalista, unito all’assenza di una classe dirigente all’altezza della situazione, capace ogni tanto di fare un bel discorso ma che non ha mai visto un bilancio o è incapace di scrivere una delibera in grazia di Dio, genera nello schieramento dell’autodeterminazione una attesa messianica della vittoria alle elezioni regionali che fa scambiare a qualcuno la politica per un biglietto del gratta e vinci (e su questo tornerò fra poco).

Certo, in politica teoricamente tutto è possibile: ma chi si è posto obiettivi così alti come quello di portare il popolo sardo all’autodeterminazione, deve necessariamente coltivare la prospettiva della storia e fare tesoro delle sconfitte. Invece ogni volta si parte con l’ambizione di conquistare il cielo, poi non si conquista nulla e si è costretti a ripartire da zero.

Infatti, cos’è rimasto dell’esperienza di Sardegna Possibile? Nulla. Anzi, la mancata analisi di quella sconfitta elettorale ha reso impossibile capitalizzare l’indiscutibile vittoria politica ed oggi il fronte dell’autodeterminazione è confuso anche per questo motivo.

Quindi l’obiettivo delle prossime regionali (che siano nel 2017 o nel 2019 poco importa, anche se continuo a non capire perché Anthony Muroni abbia definito una “furbata” il ritorno immediato alle urne dopo che per mesi ha continuato a sparare, giustamente, su questa giunta: ma capisco anche che certe candidature hanno bisogno di molto tempo per essere comprese e rese credibili, e va bene così), non deve essere a mio avviso semplicemente la vittoria, ma innanzitutto la costruzione di uno schieramento in grado di resistere alla sconfitta.

Questo chiaramente necessita di una classe dirigente lungimirante, che non scambi la politica per un biglietto della lotteria, che se non hai vinto lo butti via e non ci pensi più. Ecco perché servirebbe una selezione quanto più condivisa della leadership: per testarne anche le competenze amministrative (declamare quattro slogan non basta più), nonché l’impegno concreto a stare in campo anche in caso di sconfitta.

Perché il percorso è lungo e faticoso e chi lo intraprende non può limitarsi a impegnarsi solamente per le regionali (a proposito: ma alle prossime amministrative il fronte dell’autodeterminazione che fa?), salvo poi sparire dalla scena politica senza neanche salutare se bocciato dagli elettori.

Non si può ricominciare sempre da zero. Il massimalismo degli slogan e delle chiusure aprioristiche non porta da nessuna parte. È necessario creare una classe dirigente seria e preparata, che guardi ai prossimi decenni e non solo alle prossime elezioni regionali, capace di operare in consiglio come nelle amministrazioni locali, ma anche (se non soprattutto) nei mondi della scuola e dell’università, nei luoghi di lavoro e nei sindacati, nei giornali e nelle tv, nella cultura e nello spettacolo.

Ecco perché se anche il fronte dell’autodeterminazione non imbocca la strada del riformismo (a partire possibilmente dalle amministrazioni locali), può continuare ad autorappresentarsi come centrale nel dibattito politico attuale ma è destinato a contare meno di zero. Esattamente come oggi.

 

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    1 Comment to “Fronte dell’autodeterminazione: per essere credibili non basta dire “no ai partiti italiani” ma occorre una seria svolta riformista, di Vito Biolchini”

    1. By Mario Pudhu, 22 gennaio 2017 @ 21:00

      Condivido deunudotu cust’anàlisi. Ma totu su ‘mundhu’… (nàrali mundhu, tue!) totu su ‘campionàriu’ indipendhentista/autodeterminista si depet aunire lassendhe chentu e una presuntzione e fàghere fortza paris pro assumancus duas o tres cosas de fàghere chentza pèrdere àteru tempus e custrínghere sos políticos de sa dipendhéntzia italianista (e si no sunt de sa dipendhéntzia lu dimustrent) a fàghere seriamente, deabberu, mih!, fintzas solu in su pònnere sas chistiones prus graves cun s’Itàlia, cantu chi parent zoghendhe a mammacua.
      Mi dimandho sempre proite lampu candho intrant in funtzione coment’e cussizeris regionales zurant “fedeltà alla Costituzione italiana” e no ant su corazu de fàghere disubbidiéntzia civile in númene de sa Sardigna pro nos fàghere intèndhere, e peus puru de una Sardigna sempre prus iscaminada, morindhe ‘assistita’, disocupada, malàida, betza, emigrada e sempre prus desertu e irresponsabbilizada. Mi dimandho si in Sardigna che at solu concas de cibudha e pudéscias puru, morindhe pedidores de dipendhéntzia! Pro nos leare in su sériu s’Itàlia tocat chi nos lemus in su sériu nois con totu sa libbertade onesta e responsabbilidade severa chi bi cheret!