Alziator vivo. Onorandone la memoria, un’altra volta ancora, dopo quel febbraio 1977… di Gianfranco Murtas

Francesco Alziator lo abbiamo perso da quarant’anni, e da allora, non meno di prima, lo abbiamo amato in molti, credo tutti quanti, perché egli sapeva arricchire tutti quanti del suo genio brillante e umile, porto nell’ordinario a chiunque, come ricordava bene Antonio Romagnino, che considero il miglior biografo della sua anima e il miglior interprete della sua letteratura. In diversi ne hanno scritto in questi quattro decenni, dacché la sua bara si chiuse con il dono, a lui dalla sua città, della prima copia di I giorni della laguna, appena uscito dalla stamperia. Gli Amici del libro, tanto più con le presidenze Valle, Romagnino e Cossu hanno fatto la loro parte nei programmi annuali delle conferenze e con la lapide affissa sul frontale della casa in cui a lungo visse, nella parte centrale della via Angioy (in cui rimase anche quando quella casa lasciò).

Gli scrissi una volta, una prima volta, ero giovanissimo, perché mi ero dato a raccogliere una aggiornata bibliografia deleddiana, nell’anno centenario della nascita della scrittrice che mi aveva riempito di entusiasmo. Mi rispose, quella prima volta, era il 4 dicembre 1971, con la sua scrittura ordinata, rotonda e chiara: «Caro Gianfranco… La ringrazio sinceramente delle parole, tanto gentili quanto immeritate, che Lei mi ha rivolto e il mio ringraziamento è tanto più vivo in quanto Lei è un giovane e io sono davvero felice quanto constato che sono riuscito a comunicare con i giovani». (Mi colpiscono, a rivedere quelle pagine, le delicate maiuscole assegnate ai pronomi).

Gli argomenti trattati in quella lettera e nelle successive investirono la sua bibliografia personale (incluse le parti deleddiane), Il Dittamondo di Fazio degli Uberti, Bacaredda villanovese, Boscolo e alcuni filoni di ricerca storica con lui condivisi («Oltre il prof. Sole, che Lei conosce, i più rilevanti storici, a mio giudizio, sono Alberto Boscolo, G.C. Sorgia, Casula, Ercole Contu. Si deve a loro, specie al Boscolo, il nuovo indirizzo della storia sarda e l’aver ritrovato una immensa quantità di materiale negli archivi di Bacellona, Simancas, Valenza etc.»), l’avv. Mario Canepa (cui mi diresse – «Gli scriva pure, facendo il mio nome, l’indirizzo è…») – per uno studio che, debuttante, stavo compiendo su una certa disobbendienza filofascista nel Partito Popolare Italiano degli anni 1922-23, e che poi, molto più utilmente, avrei ritrovato per raccontare dei numerosi componenti la famiglia Canepa, dal vescovo Luca al canonico Silvio, da Serafino confratello dei Genovesi a Filippo notaio dialettologo e notista di Vita Sarda degli anni 1891-93, dalla madre e dalle zie di Francesco Loddo-Canepa al mio Emanuele, poeta civile di stampo mazziniano-garibaldino ed ateo, morto giovane folle nella sua Cagliari di fine Ottocento).

Alziator, per quelle premesse e per gli sviluppi, è stato per me un specie di stella polare nelle investigazioni sulla storia della città capitale dell’Isola: investigazioni che poi Romagnino ha saputo guidare nutrendole di altri o ulteriori umori, rappresentando Cagliari quasi come un bacino di originale letteratura e di generosa fatica politica, così raccordandola sempre meglio ai tempi d’incalzo e alle coordinate del vasto e vario mondo.

La consuetudine con il direttore Crivelli

Onorammo Francesco Alziator, al teatro Massimo, domenica 25 ottobre 2009. Fu la mattina in cui ci raggiunse anche la dolorosa notizia della scomparsa, sopraggiunta nella tarda sera precedente, di Fabio Maria Crivelli: personalità di assoluto riguardo, e a me carissima, alla quale, per molti aspetti, quella di Alziator si poteva ricollegare per la infinite collaborazioni da lui rese, lungo vari decenni, a L’Unione Sarda. (Aggiungo: Alziator morì appena un mese dopo che Crivelli ebbe lasciato, o fu costretto a lasciare, la direzione del giornale di Terrapieno. Gli dedicò, Crivelli, un lungo, lucido e insieme appassionato articolo uscito sulla terza pagina del quotidiano il 20 maggio 1979, in occasione della pubblicazione postuma di Attraverso i sentieri della memoria: «m’è sembrato, per un momento, di rivedere Francesco Alziator così come più lo ricordo, quando in una trappa del suo quotidiano girovagare a piedi per le strede della sua amata città, sostava un poco nella mia stanza de “L’Unione”, passeggiando fra la poltrona e la finestra da dove gettava occhiate cupide sul panorama del Terrapieno, stagliato sullo sfondo del Golfo su cui calava la luce inimitabile di un tramonto tipicamente cagliaritano; occhiate di innamorato geloso, quasi avesse paura che durante quella sosta qualcuno gli rubasse un pezzetto della “sua” città. E infatti, rapidamente, diceva qualche battuta scherzosa sui fatti del giorno, promettendo un articolo che talvolta magari scriveva sul serio, e poi ripartiva, in fretta, giù per il Viale Regina Elena, verso Piazza Martiri, forse verso il Portico delle Grazie a rivedere, ancora una volta, la casa della sua infanzia breve e felice. Aveva un appuntamento con i fantasmi che avrebbe trasformato in personaggi pieni di vita in questo libro che ci ha lasciato e che ogni cagliaritano, ogni sardo, dovrebbe leggere per amare un poco di più la nostra piccola patria sarda»).

Il programma della mattinata, quella domenica al Massimo, era ampio. Coordinava il professor Ugo Carcassi, e intervennero, ciascuno con una sua relazione, Giovanni Mameli, Enrica Delitala, Rafaele Corona, e anch’io. Il titolo dato alla rassegna di approfondimenti fu “Francesco Alziator, l’uomo, lo scrittore, il ricercatore”. A me toccò dire dell’uomo, cioè dei tratti salienti della sua biografia, ma fuori dagli schemi, per contestualizzarlo, restituendo protagonismo agli ambienti in cui egli realizzò se stesso, tanto più negli anni della sua formazione.

Mi chiese successivamente il professor Carcassi il testo, intendendo egli promuovere la pubblicazione degli atti. Che, non so perché, non fu poi fatta. Ma quelle pagine rimangono, omaggio mai perduto al Cagliaritano autentico e di prestigio, all’intellettuale, al docente, allo scrittore unico nel suo genere creativo, capace di donare umanità alle cose e agli spazi, agli animali e perfino all’aria e alla luce, all’ombra e al buio.

Vorrei onorare questo quarantesimo della morte dell’autore de La città del sole e de L’Elefante sulla torre e di quant’altri titoli, riproponendo da oggi alcuni degli scritti che a lui ho dedicato nel tempo, o suoi che ho potuto accogliere nelle mie iniziative editoriali o di varia altra natura sul piano divulgativo.

Mi avvio alla missione con il testo della relazione cui ho accennato: quella letta al convegno dell’ottobre 2009.

Nel ricordo anche di Dolores Ghiani

«Io conoscendo la grandezza della sua anima ero rispettosissima della libertà del suo spirito e delle sue azioni, ed egli me ne era grato conservando per me le finezze dei momenti magici dei nostri primi incontri romantici. E sono orgogliosa di essere riuscita spesso a sostenerlo spiritualmente, di aver avuto il potere di far rinascere in lui la speranza che spesso gli sfuggiva. Apparentemente sicuro, quasi scanzonato e beffardo, egli nascondeva sotto l’humor, dietro le facili battute, un’anima fragile, quasi infantile, messa continuamente in vibrazione dalla paura del mistero, dell’imprevisto, del domani».

Sono parole di Dolores Ghiani, compagna di vita oltre che di scuola e di università di Francesco Alziator, che registrai nel quarto anniversario della scomparsa dolorosa e prematura – perché è sempre prematura la scomparsa dei generosi, se è vero che il mondo ha bisogno di generosità – quando concordai con lei e l’amico professor Antonio Romagnino una conversazione nel bell’attico di via Gio.Maria Angioy che, per una emittente televisiva, avrei montato intercalando alle loro battute taluni passaggi di “Attraverso i sentieri della memoria”, uscito postumo (1979) dopo “L’Elefante sulla Torre”.

Uno speciale di un’ora e sei minuti concluso con una promessa non mantenuta, evidentemente non per cattiva volontà: la pubblicazione di una inedita “Storia della cultura in Sardegna” – questo il titolo dell’opera come era stato pensato dallo stesso autore, Alziator appunto – del quale però esistevano completi soltanto alcuni capitoli, otto su dodici. Che potevano diventare quanto meno dei «saggi staccati, certo non un’opera organica», per riprendere una franca osservazione della professoressa Ghiani, donna di grande signorilità oltreché cultura e capacità didattica, fra le maggiori dantiste del Novecento cagliaritano, che di dantisti ne ha contati fortunatamente non pochi, ad iniziare magari da Liborio Azzolina che di entrambi, di Francesco Alziator e Dolores Ghiani, fu docente dopo che al Dettori anche in facoltà di Lettere.

Dedico dunque le righe di questa breve comunicazione alla memoria grata di Dolores Ghiani.

L’uomo Francesco Alziator

Non esistono, per quanto sappia, né una biografia compiuta né studi specifici riferiti alla figura pubblica di insegnante ed intellettuale a tutto tondo ed alla personalità umana di Francesco Alziator: per il che anzi non sarebbe male suggerire a qualche studente amante veramente di Cagliari, di proporre lui, al proprio docente, una tesi ad hoc. Molti, naturalmente, sono i contributi particolari che negli anni si sono susseguiti sulla sua produzione più ancora, molto di più, che sulla sua persona.

Non mancherei peraltro di citare il meritorio cofanetto, pur anche con dolorose lacune, del professor Luigi Spanu, uscito in libreria nella primavera del 1986, e di mio, con tutta modestia, le molte pagine di “La città chantant monarchica clericale e socialista”, che è libro vecchio ormai di dieci anni, dove riproposi fra l’altro lo scambio bellissimo, cui ho fatto prima riferimento, fra la professoressa Ghiani ed Antonio Romagnino. Un libro che doveva essere destinato, nelle intenzioni mie secondate dalla presidenza Scano – parziale finanziatore della stampa –, in dono agli studenti cagliaritani della maturità del 1999 (anno novantesimo della nascita di Alziator), ma che la miopia dell’Amministrazione provinciale subentrata mortificò nei magazzini.

Anche alle loro riflessioni – della signora Ghiani e di Romagnino – attingerò, riferendone qui. Ma volendo offrire notizie e considerazioni nuove rispetto a quel tanto che, comunque, già si conosce, non potrò muovermi che per la tangente, fra territori originali e marginali, dai quali forse qualcosa di interessante potrà dedursi a soddisfare il quesito di chi fosse, o come fosse – e direi anche e forse soprattutto: come si fosse formato – l’Alziator uomo.

Partirei da un articolo che Francesco Alziator pubblica nel giugno 1946, con continuazione a settembre, sul “Convegno”, la rivista diretta da Nicola Valle e fattasi voce dell’Associazione Amici del libro fondata appena due anni prima in quel di Isili, nonché della locale sezione della Dante, che con l’altra vive in felice simbiosi.

Alziator non è più giovanissimo, ha 37 anni, ha ripreso ad insegnare dopo quattro anni di guerra in divisa e mille avventure o disavventure.

Scrive di un cagliaritano illustre perché geniale, ma della categoria degli incompresi da un mondo – quello accademico, e non solo quello – che è chiuso ed ostile al nuovo, alla sperimentazione. Già sa, o intuisce, Alziator, che l’accademia non comprenderà neppure lui. Si tratta di Efisio Marini Marturano, il medico pietrificatore dei cadaveri (1835-1900), costretto giusto alla metà della sua vita a lasciare Cagliari e trasferirsi a Napoli, con Giuseppa (che lui chissà perché, come poi Giorgio Todde nella sua saga letteraria, chiama Carmina) e i due figlietti – Rosa e Vittore, il quale ha un anno soltanto ed è vivo e vispo, non già morto come s’inventa, Alziator, confondendo qualche memoria e depistando Todde. Storia di una sconfitta ma che ancora si bilancia con la speranza di trovare nella maggior città e maggior università accoglienza e riconoscimento. Ciò che sarà, per il vero, soltanto in parte e soltanto fino alla epidemia colerica napoletana contro cui egli propone i suoi efficaci rimedi.

Direi che qualche riconoscimento accademico residuale lo ebbe anche Alziator, da un’altra città che non la sua – lo ebbe da Sassari –, e fu quando anche io lo incontrai generoso e sapiente. Eravamo a ridosso del cinquantenario bacareddiano, ed egli aveva introdotto un bel volume collettaneo, ricordando della memoria millenaria di Cagliari quanto della città, anzi delle quattro Cagliari – Callari, Stampace, Villanova (manca la Marina associata a Castello), fra Sassari, Bosa, Arestan e la Ligera (o l’Alighiera) –, scrisse Fazio degli Uberti nel “Dittamondo”: che fu poi il motivo che, ancora ragazzo, mi indusse a scrivergli trovandolo pronto allo scambio epistolare.

Quel che Alziator non dice, di Efisio Marini raccontato con il tipico taglio letterario suo, è che si tratta di un suo prozio. Ne descrive anche l’abitazione di via Sant’Eulalia a sinistra salendo, dirimpetto all’antico albergo “La Concordia” della famiglia (genovese-marsigliese fattasi integralmente sarda) Castello che aveva ospitato la loggia massonica “Fede e Lavoro” composta quasi tutta da marinai e calafati, casa ormai abbattuta dalle bombe del 1943, ma non dice di averla frequentata perché lui stesso di famiglia.

Il dottor Efisio è il fratello maggiore di suo nonno Salvatore – colui che era partito adolescentee volontario con Garibaldi, per diventare poi, rientrato a Cagliari, collaboratore del padre nello scagno al porto e sposarsi con una Carossino Valle, che è una bella dinastia anch’essa di funzionari pubblici e civici amministratori oltreché di spedizionieri ed operatori commerciali della Cagliari delle trasformazioni bacareddiane.

E’ appunto figlia di Salvatore Marini – aiuto numero uno del fratello nelle procedure di immersione umida delle salme, o dei pezzi anatomici da conservare con i magici sali – e figlia di Gerolama Carossino Valle, Matilde Albina Mirra, la madre di Francesco. Secondogenita dopo Clelia che resterà nubile, Matilde è bella come Sissi l’imperatrice, alta e slanciata e chiara da sembrare anche lei una gentile dama di Baviera (si vedano le descrizioni di “Attraverso i sentieri della memoria”, ma questo è rimasto anche nella memoria familiare). Sposa un giovane ufficiale figlio di ufficiale, Mario Alziator di Francesco e Vincenza Meloni, nato e battezzato a Caserta, a ridosso della reggia fattasi caserma.

I Marini da una parte, gli Alziator – quelli che gli danno il cognome – dall’altra. Di Alziator, e/o Alciator, ne sono stati censiti in Sardegna fin dalla fine del XVII secolo: da un Giacomo figlio di Alessandro e segnalato però di natali liguri (di Alassio), a un Alessandro notaio, da questi a un altro Giacomo avvocato, e da Giacomo jr. a un Francesco – il nonno del Nostro – marito di quella Vincenza Meloni che campeggerà, senza esser mai indicata per nome, nelle pagine di “Attraverso i sentieri della memoria”, e da lui, infine, a Mario sposo di Matilde Marini Carossino.

Tanti nomi, e secondo l’uso dell’epoca diversi di essi tornano nell’atto di battesimo o nella denuncia allo stato civile, come per dare, nella continuità onomastica, onore ad entrambi i filoni familiari: Francesco e Vincenzo come rispettivamente il nonno e la nonna paterni – filone Alziator-Meloni –, Salvatore come il nonno materno (aiuto pietrificatore e grossista spedizioniere), Giuseppe come, potrei azzardare, il minore dei fratelli di suo nonno, quel Marini che sposerà una Montaldo, come per adempimento biblico, dopo la vedovanza precoce di lei da suo fratello Pietro, il penultimo della schiera che s’apre con Efisio: oppure, più probabilmente, come Giuseppe Meloni, fratello della nonna Vincenza, che ne è il padrino insieme con Gerolama Carossino nonna materna.

Lo ricorda Gianni Filippini in un delicato ritratto del professore, che questi riepilogava i suoi nomi abbondanti, e peraltro tralasciandone uno – Vincenzo – chissà perché: «Al momento del battesimo i miei genitori non hanno badato a spese e mi hanno regalato tre nomi: Francesco Salvatore Giuseppe. Con Franz e Cucuccio fanno cinque. Quanto a nomi mi considero un benestante».

Tutto questo discorso era per riportare al senso delle radici, o delle ascendenze, che Alziator pare sentire moltissimo, ma che non confonde nella esposizione delle figure magne della Cagliari che fu, ed in cui non si rosola per impreziosirsi agli occhi del mondo: ché la vita egli se la suda tutta con fatica.

Si ricorderanno infatti, delle pagine di “Attraverso i sentieri della memoria”, i rimandi alle stagioni trascorse, da bambino, a Pirri, nelle proprietà dei Marini (compresa quella che ospitò, in pieno centro, Carlo Alberto nel 1829) , o a Serrenti nelle proprietà paterne, che costituiscono  qualcosa di somigliante a quel che per Giuseppe Dessì – nato anche lui alla Marina nello stesso 1909 e fatto cristiano sei mesi dopo Alziator nello stesso fonte del Santo Sepolcro, e come Alziator alunno del liceo-ginnasio Dettori – erano le proprietà del nonno materno in Villacidro.

Non ho mai visto la nostalgia, che infine è a rischio di sterilità o deviazione, nella scrittura di Alziator che pur può catturare, per farne racconto di cose personali e di tutta una generazione, gli anni della infanzia e della adolescenza. Nella Cagliari che è la Cagliari dell’autunno amministrativo e umano di Bacaredda e, dopo il gran macello della guerra, del fascismo che studia, e poi risolve, come farsi dittatura.

Dell’autore, in quelle pagine emerge, a mio avviso, il processo di autonomia, e dunque di maturità, conquistata dal protagonista che è lui stesso minore, raccontato nelle emozioni e negli episodi.

Dobbiamo a un incendio malauguratissimo, negli anni del secondo conflitto mondiale, se non possiamo ricostruire le pagelle delle elementari, e da lì viaggiare intorno alle propensioni spontanee di Francesco Alziator, che abita per lunghi anni nella parte bassa della via Lamarmora, dopo la nascita all’apice della via Baylle, e frequenta la scuola elementare di Santa Caterina sul bastioncino.

Là c’era stato un monastero di domenicane e non erano mancate le storie curiose su cui lui, che di queste cose s’intendeva ed aveva un gusto spiccatissimo ad elaborarle, avrebbe potuto ricamare chissà che capolavori: come quella di suor Crocifissa che quando aveva fatto la sua professione solenne, dopo la vedovanza sopraggiuntagli a neppure 25 anni, era stata accompagnata e, se si può dire, ammonita, dal pergamo della cappella, da suo figlio sedicenne già vestito con l’abito dei gesuiti. Sarebbe diventato, quel ragazzo, il canonico teologale del duomo, e oppositore tenace e quasi disperato – da posizioni creazioniste – dell’evoluzionista e libero pensatore e muratore (ma sempre cattolico) dottor Francesco Barrago, per poi morire infelicemente di pazzia in un manicomio del meridione continente.

Il monastero era stato abbattuto e, Giovanni Marcello sindaco in uno degli interregni bacareddiani, s’era lì costruito, fra il 1906 ed il 1909, un plesso scolastico per coprire le necessità del Castello, che al censimento del 1901 aveva contato 7.999 residenti, e 1.310 di più ne avrebbe contati nel 1911.

La formazione scolastica

Gli anni trascorsi alle elementari di Santa Caterina da Siena (la chiesa di via Manno che era stata frequentata dalla Deledda nella permanenza cagliaritana s’intitolava invece a Caterina vergine e martire alessandrina) sono quelli stessi che coprono interamente l’evento tragico e luttuoso della grande guerra e direi quelli della smobilitazione postbellica: 1914-1919.

Seguono i cinque anni di ginnasio ed i tre di liceo al Dettori – cinque più tre più uno di capitombolo, che ancor più umanizza il Nostro –, nello stabilimento ex gesuitico della Marina, ma con facili approdi da Castello, attraverso la sequenza diretta delle scalette delle Cappuccine e di Santa Teresa, oppure il più sinuoso percorso delle vie Mazzini, Torino e Principe Amedeo. A metà del periodo ginnasiale, peraltro, dopo la morte della nonna castellana Vincenza, avviene il ritorno alla casa di via Baylle, più vicina all’abitazione – nella via Principe Amedeo – dell’altra nonna Gerolama, che poi lascerà, insieme con Clelia, la propria casa per trasferirsi da figlia e genero e nipote e con loro sperare di invecchiare.

Del Dettori  di quegli anni c’è, fra non molto altro, un bellissimo libro di memorie – “Un magistrato racconta” – di Gustavo Piu, fratello minore dell’indimenticato monsignor Mario Piu presidente della Collegiata di Sant’Anna per mezzo secolo. Pagine da rileggere: ritrovi le classi dentro le aule, i ragazzi e i professori e i bidelli, e le paure delle interrogazioni e le canzonature delle debolezze che sono sempre altrui, e le evasioni del pensiero e delle gambe, come i tempi suggerivano a quei ragazzi che cavalcavano il terribile decennio della grande guerra patriottica fino agli inquietanti sbocchi dei primissimi anni ’20… Pagine non meno belle, ancorché spostate in avanti di un lustro o poco più, sono quelle di Antonio Romagnino, consegnate alla mia “Città chantant”. Ma Franz/Cucuccio?

Ho fortunosamente recuperato alcuni atti scolastici, diciamo pagelle: e sono un trionfo di mediocrità tale da affratellarci definitivamente a quell’adolescente. Perché se sono tutti sette ed otto i voti della prima ginnasiale anno scolastico 1919-1920 (e c’è pure un 10 in condotta), si scende a 7 in italiano, 4 e 6 (scritto e orale) in latino, 4 e 6 in greco, 8 in storia e geografia, 6 francese e 6 in matematica, sufficiente in educazione fisica; per planare nell’anno scolastico 1923-1924 con 6 in italiano, 4 e 4 in latino, 3 e 2 in greco, 3 e 6 in storia e geografia, 6 in francese, 4 e 5 in matematica. Rimandato, dice l’esito finale.

Ma certo la carriera deve esser stata più penosa ancora, con vari ritiri – a parte la ripetizione d’un anno – se v’è, più d’una volta, la segnalazione della provenienza dalla «scuola paterna» e non dalla classe dell’anno precedente.

Di questi anni dettorini abbondano sì i ricordi fissati sulla carta delle godibili pagine andate a stampa, ma zampillano anche gli umori tutti adolescenziali di philosophus solitarius, come egli si firma in un quadernetto manoscritto di 40 pagine intitolato “Dal diario di un vagabondo” . E «vagabondo» nel senso alto e nobile della parola Alziator fu per tutta la vita: vagabondo di Cagliari (ma non solo di Cagliari, Cagliari costruita e Cagliari ancora periferica e rurale – si ricordino le luminose pagine de “L’Elefante sulla Torre” dedicate a Is Mirrionis ed al rione di Saint Tropez, oppure a San Giuliano e Genneruxi, oppure ancora a Mulinu Becciu della vigna Pernis od a Calamattia territorio di carovane zingare) né solo di Sardegna. Si ricordino i suoi articoli di ritorno dai viaggi in quel di Portogallo, o Marocco, Grecia o Turchia, o Spagna amata Spagna…

Nel suo “Diario di un vagabondo” egli  intende registrare, magari a futura memoria, i fatti e più ancora lo stato morale e psicologico nella fase che gli pare del “trampolino” per i futuri successi: ha 15 anni e mezzo e li consegna tutti in quel passaggio di calendario fra 19 novembre e 24 dicembre 1924.

Egli vagabonda con i coetanei del suo giro, come farà con tanti altri negli anni maturi: con la moglie e la figlia, con gli amici e qualche allievo, con la Thermes della ventura edizione di “Cagliari, amore mio” e i colleghi professori, e i giornalisti anche de “L’Unione Sarda”.

Di quei 36 giorni fa la cronaca delle ispezioni – sembrano proprio tali – ai moli del porto, al Tribunale militare, a Santa Caterina in via Manno appena riaperta dopo i restauri, ecc. Scrive di «una splendida barcheggiata» di «mattina presto», o di qualche passeggiata fuori città. Cerca di comprendere l’oggi, e tutto il “qui ed ora” cerca di collocarlo nelle più vaste coordinate di storia e geografia. Ma anche, nell’immediato, riferisce delle «solite chiacchiere» con gli amici che l’accompagnano nelle sue visite o ispezioni che siano – dato che si capisce che è sempre lui a trascinare gli altri – e che hanno un’altra funzione: «riescono mirabilmente a diradare la noia e il cattivo umore».

Sono frequenti queste evasioni sportive e dell’anima, mal di molari e nevralgie permettendo: «Il fresco prosegue ma io lo ho scacciato con una buona remata e con una splendida passeggiata».

Tutto già spumeggia nelle sue cronache di diarista, e il giudizio conclusivo non manca quasi mai: nello «straordinario affollamento di fedeli e di curiosi» convenuti nella chiesa riaperta di sa Costa ammira «un bel gruppo di legno, un bel crocifisso con braccia in argento», e altre sculture e tele… «In complesso è una chiesa assai bella, quantunque però alcune ornamentazioni e il cassettonato del soffitto di barocca reminiscenza stonino coll’ambiente severo».

Scrive dell’annegamento di un cavallo addetto «allo scarico della terra per il riempimento della calata ovest» al porto, che precipita in mare, con carretto e carrettiere, ed è infine recuperato senza vita «da un paio di braccianti» che lo consegnano al macellaio, «il quale poi come è suo dovere ce lo farà mangiare sotto forma di mortadella salame e simili leccornie».

Gusta «una primizia: dei ricci di mare», squisiti «sebbene non troppo pieni», commendando autoironico: «Non c’è che dire, anche se sono poeta non ricuso assolutamente le gioie di una buona mensa. Son uomo e quindi obbedendo al bisogno fisiologico del nutrimento amo farlo senza avarizia di degustazione tanto più che ne avrò in salute quindi per un momento si può abbandonare la poesia»…

Annota: «Adesso ho proprio bisogno di riposarmi e di allontanarmi dalla folla incivile: voglio ritirarmi a solitudine e comporre un’opera, un’opera grande che annulli tutte le precedenti e sia un’affermazione della mia forza letteraria».

Deve finire il ginnasio e iniziare il liceo, ma non conta il giudizio dei professori, qui conta quel che lui avverte agitarsi dentro di sé: il genio che chiede d’esprimersi. Con simpatico sussiego scrive: «Ho ripreso i miei studi carducciani, oggi anche quelli d’annunziani. Voglio ritirarmi dal frastuono della vita, voglio condurre una vita esclusivamente d’arte». E ancora: «Penso sempre al lavoro che devo comporre nel 1925, esso dovrà essere l’affermazione più potente della mia vita letteraria… Sto adesso studiando, con l’esperienza tratta dai precedenti lavori, il metodo e le ore migliori per la composizione».

Si propone – e chi potrebbe smentirlo? in fondo sta rivolgendosi soltanto a se stesso – come critico letterario (e vien da pensare alla grande fatica, quanto anche contrastata!, della anticipatrice sua “Storia della letteratura di Sardegna” che è giusto di trent’anni dopo): «Adesso innalzo la mia modesta voce commemorando per me stesso il poeta che prediligo fra i prediletti. Sebastiano Satta fu un poeta di pura impronta sarda, le sue immagini son tratte dalla sua patria e non, come qualche critico che poco o niente lo conosce, dal Carducci, dal Pascoli o dal D’Annunzio…».

Sente dentro di sé la vocazione ed intuisce le dimensioni dei talenti, anche se non percepisce i limiti della esperienza ancora acerba. Scrive di politica estera e di politica militare – «Di notte presto ho avuto una discussione animatissina sulla battaglia navale dello Jutland con mio amico Romolo C.» –, e anche di diplomazia, scrive di morale e di religione, professandosi ateo: «la discussione è durata ben tre ore e mezzo ed è finita con una mia apologia all’amore sensuale ed all’ateismo».

Forse la pedagogia religiosa delle preghiere obbligate in cattedrale negli anni castellani – anche se il rosario in casa della nonna era stato per lui una sequenza di fughe oniriche e felici – e la messa domenicale a Sant’Eulalia, se c’è stata al ritorno alla Marina, han dato risultato contrario alle attese.

«Le dottrine evangeliche sotto forma di terribile e crudele piovra hanno avvincolato proprio bene anche gli animi dei giovani. Stanotte ho dovuto polemizzare aspramente con tre miei amici su soggetti di carattere mondano, che loro pretendevano di risolvere colla morale cattolica».

O va in aperto cedimento alle pulsioni dell’età, come anche fa Dessì con il suo racconto delle visite d’iniziazione ai postriboli, in tempi in cui i bordelli sono legali ed affollati di vecchiacci, mariti in evasione e soldati, ma anche di chi affanna a graduarsi in una età che ancora non c’è: «A fondamento di questa vita migliore io pongo la scoperta e la conquista di una donna: bella, vergine, casta e affettuosa. Frequenterò i luoghi dove è possibile trovare il prezioso fiore che cerco». Confida al foglio bianco che è il suo specchio: «La mia vita si dibatte adesso fra due poli supremi: l’amore e lo studio. Senza il primo la vita mi sarebbe una morte precoce e senza il secondo una lotta senza vittoria»…

Nell’anno scolastico 1927-1928 frequenta la terza liceo. Parte male, poi raddrizza la situazione avviandosi all’esame. In italiano passa dal 6 scritto/6 orale al 6/7, al 7 del quarto bimestre; in latino (lo scritto riguarda la doppia versione) dal 5/4/5 al 4/5/6, al 6/5/6, al 6 finale; in greco dal 4/5 al 5/5, al 6/6, al 6 finale; in storia chissà perché declina dall’8 iniziale al 7, al 6 finale; in economia politica e filosofia è stabile sul 6; in matematica e fisica va dal 3/7 rispettivamente al 5/6, al 3/6, al 5 finale di sintesi; in storia dell’arte dal 6 al 5, al 6, al 6 finale; in chimica dal 5 al 4, al 7, al 6.

Viene la maturità nel luglio 1928: sua e di altri quindici compagni della classe. C’è anche Dolores Ghiani.

Dopo il Dettori, la facoltà di Lettere

Supera la prova e  finalmente si iscrive a Lettere, la facoltà risorta a Cagliari, dopo lunga vacanza, nel 1925. Sono 38 gli iscritti all’anno accademico 1928-29, e lui è matricola con altri undici.  La facoltà si articola in due bienni: il primo è comune con Filosofia, il corpo docente – fra professori di ruolo, incaricati e liberi docenti, comandati e lettori di lingue straniere – spende la sua dottrina in entrambi i corsi e sovente coprendo cattedre diverse. Gli “Annali” della facoltà documentano nomi ed attività.

Preside, negli anni della frequenza alziatoriana, è il professor Giacomo Tauro – titolare di Pedagogia – con Cecilia Dentice di Accadia segretaria del Consiglio di facoltà e docente di Storia della filosofia; ci sono poi anche Bachisio Raimondo Motzo (Storia antica), Carlo Albizzati – e dopo di lui Ranuccio Bianchi Bandinelli e Antonio Taramelli – (Archeologia), Adelchi Baràtono, esponente fiorentino del primo socialismo novecentesco (Filosofia, ma poi – succedendo a Carlo Aru – anche Storia dell’arte medievale e moderna), Raffaele Ciasca (Storia moderna, poi anche – dopo Crinò – Geografia)…

E ancora Luigi Fassò (Letteratura italiana, ovviamente quadriennale), Massimo Lenchantin de Gubernatis (Lingua e letteratura latina, anch’essa quadriennale, e Storia comparata delle lingue classiche e neolatine, annuale), Achille Vogliano (Lingua e letteratura greca, quadriennale, ma anche Lingua tedesca), Goffredo Coppola (pure lui Lingua e letteratura greca, però dopo anche Lingua e letteratura tedesca), Liborio Azzolina (Filologia neolatina), poi ancora Raffa Garzia (Dialettologia Sarda),  e dopo ancora Silvio Lippi (Paleografia e Diplomatica), Francesco Loddo Canepa (Lingua inglese), e veramente eccetera eccetera.

Un turnover intenso, forse eccessivo, ma obbligato per una facoltà esordiente e di periferia. Quattro stanze al piano terreno, tutto insieme: aule di lezione, biblioteca, ritrovo per i docenti. Alziator vive questa fase pionieristica, immatricolandosi in quello che è il quarto anno di vita della facoltà, e laureandosi due anni prima dell’impianto dell’Istituto “Studi Sardi”, e quattro prima della istituzione della facoltà di Magistero, che tante glorie anch’essa raccoglierà nel corso degli anni. La tesi che discute il 19 novembre 1932 – è la 38.a a partire dal 1925 – porta il titolo “Momenti della drammatica sacra in Sardegna”, votazione 99/110. Lui ha imparato ad essere veloce, per recuperare le sbavature liceali. Dolores Ghiani si laurea l’anno dopo, con un 110/110 e lode.

E’ già iniziata, per Alziator, l’attività di pubblicista, o di saggista per giornali. La penna c’è ed è riconoscibile. Il primo articolo censito è uscito in quarta pagina su “L’Unione Sarda”  del 1° settembre 1928 – giusto a mezza strada fra maturità e immatricolazione –, e tratta di “Prefiche o canti funebri”, così il titolo. Forse pensa anche alla madre, morta giovane da due anni soltanto.

E’ la sua vocazione: spaziare fra le coordinate della storia e della geografia, s’è detto, penetrando nei depositi polverosi dei secoli di tutta la Sardegna, poi di tutto il Mediterraneo, e raccontare. Cagliari sarà il racconto continuo del suo cuore, prendendo una buona metà dei suoi scritti.

Chiudo. L’uomo è rapido, non però senza le sue fasi di riflessione e anche di revisione, o di messa a punto. Così nella politica come nella religione. Sono campi particolari ma larghi e più ancora profondi, quasi di ispirazione ed anche accoglienza della sua produzione, che portano le loro date, e meriterebbero studio. Perché, a parte “Mediterranea” che ha avuto il suo gran valore anche fuori dalle audacie sardo-fasciste, c’è stata “Sud-Est” (la rivista del GUF cagliaritano di cui egli ha retto la responsabilità della direzione per cinque mesi nel 1935 e dove ha scritto ripetutamente) ma poi ci sono state anche le devastazioni portateci sì dagli alleati ma a causa dei fascisti; perché c’è stato un certo laicismo agnostico ma poi è venuto fra Nicola da Gesturi e i cieli si sono aperti.

La spiritualità presente in tante opere della letteratura e drammaturgia anche sarda, da lui studiate per anni e anni, porta frutto, combinandosi essa con la provocazione di santità del cappuccino questuante. Doppia provocazione: quella volta della primavera 1943, nella «desolata maceria abbandonata dagli uomini e dalla speranza», nella «città naufragata in una solitudine fatta di paura, di polvere, di attesa», accosto al «muro bianco di una caserma mezzo distrutta, a Bonaria»; e più ancora quell’altra: «In un momento veramente cruciale della mia esistenza, nel quale era in gioco tutto il mio avvenire ed io già stavo darmi per vinto, ad un tratto, nella mente che pensava a tutt’altro, entrò Fra Nicola. La sua fu una presenza reale, indubbia… Dall’istante in cui la presenza del Cappuccino fu nella mia mente un fatto concreto, ebbi partita vinta».

Ma una promozione c’è anche nel giudizio civile e politico, in Alziator che è stato, dopo la laurea, addetto alla Cultura in ambito GUF, «una sorta di condizionatore di cervelli», con l’aggravante – scriverà negli anni’70 all’amico Remo Branca sulla rivista “Frontiera” – «che, allora, ci credevo ciecamente, anzi ero tra i più entusiasti». «Un richiamo alle armi, la casa distrutta dalle bombe, mio padre scomparso senza che io potessi rivederlo, due cugini morti in guerra e molte altre vicissitudini mi hanno fatto cambiare molte convinzioni». Elettore, per lunga consuetudine liberale, di Francesco Cocco Ortu fino alla morte di questi, nel 1969, passa a votare, non so se anche a prenderne la tessera, il Partito socialista: è un socialista umanitario direi, certamente non di dottrina marxisteggiante.

Si potrebbe tentare, come con i fuochi pirotecnici, di far esplodere in rapida rassegna i giudizi dei tanti la cui testimonianza è stata raccolta, con diligenza di allievo, dal professor Scanu: metti Fabio Maria Crivelli, che mi è particolarmente caro, fra gli altri. Ma qui conviene tornare, io credo, ad alcune delle considerazioni condivise, quel giorno della primavera 1981, fra la sua sposa e quello che fu uno dei migliori amici.

Dolores Ghiani:  «Nella sua umanità non esistevano compromessi, limitazioni o privilegi. Essa era fatta di quella gentilezza d’animo che lo portava a fraternizzare con tutti, specie con le persone semplici dei ceti più umili, con le quali amava intrattenersi ascoltando i loro problemi, dando e ricevendo consigli. E sapeva stringere un rapporto confidenziale tanto con i tramvieri, i giornalai, quanto con gli abitanti degli oscuri vicoli del Castello e addirittura con gli arsellari dello stagno… Nelle sue conversazioni rifuggiva accuratamente dalla critica, e non aveva parole altro che per difendere chiunque, anche i suoi nemici».

Antonio Romagnino: «Effettivamente Francesco Alziator aveva una possibilità nativa, illimitata, di comunicare con la gente più umile. E quando l’umile entra nella sua opera, non è mai sfiorato dal gusto caricaturale, o comunque non diventa mai l’oggetto di una rappresentazione pittoresca. Direi che Alziator aveva un innato senso dell’uguaglianza».

E ancora: «Tra i tormenti di Alziator era la sua condizione accademica: Alziator era un uomo di altissime qualità, che fra le qualità aveva quella che gli accademici spesso non hanno: aveva la qualità dello scrittore. E quindi era guardato con molto sospetto perché nelle sue mani tutto diventava oro filato, tutto diventava agevole…  e gli accademici hanno invece sempre preferito i linguaggi esoterici e riservati ai pochi addetti ai lavori».

Dolores Ghiani: «Egli fu un maestro. Molti infatti rivolgendosi a lui gli avevano dato questo titolo altamente onorifico, che egli, nella sua grande modestia, rifiutava, e che tuttavia gli è dovuto per due motivi: per la dignità con cui ha assolto il suo compito di docente e soprattutto per aver insegnato a molti il culto dei libri, che egli considerava il solo mezzo capace di riunire gli uomini in una superiore conciliazione».

Antonio Romagnino: «Il passato in Alziator è sempre vivente, presente, non è mai rimpianto in modo infecondo. E questo gli permetteva di passeggiare anche nel nuovo e di non sentirlo così ripugnante come talvolta esso appare ai passatisti. Mi pare che questo sia stato animatore della sua vita».

Romagnino, la fedeltà di un’amicizia

Io debbo, a questo punto, rendere un omaggio – dopo che alla memoria grata di Dolores Ghiani – al senso di amicizia che, anche nel nome di Francesco Alziator, mi ha offerto sempre, fin dalla mia adolescenza, Antonio Romagnino.

Per questo vorrei riproporre alcuni degli stralci più intriganti, direi più e meglio attraversati dal sentimento della sua cagliaritanità e dalla solidarietà umana e intellettuale che lo lega al nome di Francesco Alziator, di una lunghissima intervista – che pubblicai, ma poco ha girato – al professor Romagnino. Il quale è stato, pur con una cifra tutta sua e inconfondibile, il più degno continuatore della missione – del talento sociale, o socializzato, cioè – alziatoriana. Eccoli questi stralci:

«Io ed Alziator siamo nati o cresciuti nella stessa strada, ma  questo l’ho saputo attraverso le sue confessioni letterarie, da un Alziator che, direi, è sempre uno scrittore autobiografico. Lui l’ho conosciuto relativamente tardi, un po’ più direttamente quando sono rientrato dalla prigionia, nel 1945. E invece, prima da ragazzini, e cioè a distanza. Questo non si avverte nei più giovani d’oggi…, perché sembra un paradosso dire che noi del ’17 vedevamo quelli del ’21 assolutamente ragazzini, molto più piccoli di noi. Poi abbia­mo fatto la guerra, la seconda guerra mondiale, insieme. Ma la fascia che sentivamo più vicina era quella più anziana, eravamo più con quelli del 1914-15 che non quelli del 1920-21. Alziator era però del 1909, e que­sto faceva la distanza.

«Indubbiamente Francesco Alziator nella mia vita ha rappresentato un personaggio che già si faceva conoscere per la sua stravaganza, per l’indo­le vivace. Si capisce, Cagliari era allora una città che aveva una misura in cui cose di questo genere venivano notate, pubblicizzate, diventavano non maldicenza, un chiacchiericcio… e quindi, ecco di Francesco Alziator – sarà stato quando io avevo una quindicina d’anni – era popolarissima l’immagine di un giovane che, in un luogo nuovo per i cagliaritani di un più antico ceppo, e cioè le case popolari delle Fer­rovie dello Stato, amoreggiava, amoreggiava senza fine.

«Il luogo era nuovo, fra la parte finale della via Sassari ed il viale La Playa. Lì Cagliari aveva iniziato ad espandersi, verso la fine degli anni ’20, le case sono, mi pare, del 1930-32. Il nucleo forte della cit­tà rimaneva certamente il Castello, forse Marina. Per certi cagliari­tani che consideravano le antiche appendici come terre remote, quella nuova zona di espansione, a ponente, doveva essere remotissima. E  lì Cucuccio ha conosciuto “su fastiggiu” con Dolores, e anche chi non l’ha visto… l’ha visto, perché era raccontato da tutti questo amoreggiare senza fine, questo dialogare senza fine con quella creatura dolce e de­licata che era Dolores Ghiani. Adesso forse fa sorridere un raccontare “su fastiggiu”, allora doveva essere un modo antico, perché “su fastiggiu” era un “fastiggiu”, anche se questo che incantava la gente, che alimentava il chiacchiericcio, forse era parlato, o sussurrato…, era magari solo l’occasione di simpatizzare, a distanza.

«Gli anni universitari di Cucuccio sono i primi della facoltà di Lettere a Cagliari, che aveva sede allora nel palazzo di via Università. Quei primi studenti erano anche diventati famosi per le passeggiate lungo il viale che separava la facoltà di Lettere da quella di Farmacia. Dire facoltà fa pensare a grandi edifici, oggi, ma allora non erano altro che baracche, grandi baracche, tanto Lettere quanto Farmacia, e in mezzo c’era questo viale di ficus retusa, la pianta più amata e più odiata dagli studenti di Cagliari. V’erano queste passeggiate, allora, e parve ad un certo punto destassero qualche clamore, qualche scalpo­re, perché uno sconosciuto, o uno che non si era potuto individuare, dipinse di rosso, in una notte, le piante, volendo colpire le coppie che… davano scandalo. La vernice rossa diventò un fatto di protesta contro l’immoralità, contro quegli “sbrigungius” che si sbaciucchiavano. Il fatto si può collocare intorno al 1930, e allora Cucuccio aveva 21 anni ed io forse 13. Era circolata al Dettori l’eco di quell’episodio. Frequentavo il ginnasio superiore, o forse la prima liceale…

«Fra la mia casa e quella di Alziator, in “s’arruga Deretta”, c’erano forse cento metri, o poco più. Io ero vicinissimo all’Istituto magistrale, e invece Cucuccio pare di ricordare che sia nato, o almeno abbia abitato da bambino nella prima salita dopo “su Porciu”, dopo il portico di palazzo Boyl, dov’era la torre dell’Aquila. Era già quasi fuori il quar­tiere perché, superato il portico, si era già nella via Mario De Candia, da dove si accedeva al teatro, e da lì in pochi secondi si raggiungeva porta Castello, la porta dei Leoni cioè, e la via Mazzini.

«Alziator – se non l’ho individuato quando io ero bambino – credo di ricordarlo, di averlo visto nell’immediato secondo dopoguerra. L’ho sempre guardato come uno stravagante, con quella famosa mantella che gli era stata fasciata attorno, forse di origine militare. Egli è anche ricordato come un ufficiale che ha vestito la divisa con una certa estrosità. Ma questa grossa mantella lui l’ha portata ancora nel dopoguerra, che sono anni in cui c’era una certa stravaganza di necessità, una stravaganza che nasce dall’indigenza. Si possono ricordare anche professionisti noti che hanno utilizzato la tela dei materassi per farsi l’abito. Cucuccio aveva evidentemente salvato questa mantella scura e la vestiva ancora, quando le divise non si portavano più, a guerra finita. E con quella aveva iniziato, forse, anche le sue celebri passeggiate…

«Il nostro rapporto come uomini di scuola è stato alquanto discontinuo, perché Cucuccio aveva ambizioni alte, in sostanza voleva raggiungere la cattedra universitaria come invece, purtroppo, non gli è riuscito. E questo è accaduto perché qui a Cagliari, a torto o a ragione, è stato molto combattuto, addirittura anche perseguitato da chi contava nell’Università di Cagliari intorno agli anni ’50-60. E allora Cucuccio, come si sa, lascia Cagliari ed ha l’incarico all’Ateneo di Sassari. Viaggiava. Ma anche le cattedre che aveva avuto da insegnante alle me­die e alle superiori non erano quelle che vagheggiava uno come lui, con una qual­che ambizione. Aveva aspirato a insegnare alle scuole superio­ri o, più precisamente, al Dettori, ma credo che al Dettori non abbia insegnato mai, o forse vi abbia prestato qualche supplenza remota… La catte­dra coperta, di ruolo, nella professione di insegnante è la cattedra di italiano e storia nell’Istituto tecnico agrario, alternata a questa cattedra universitaria di storia delle tradizioni popolari, nella facol­tà di Magistero a Sassari.

«La ragione di questa avversione subita anche dallo scrittore costituisce un problema eterno, irrisolto. Questo, secondo me, è esasperato, e non se ne esce, perché non riusciamo mai ad ammettere che egli è sostanzialmente uno scrittore, e che è lì la definizione più  rispondente al valore reale di Francesco Alziator. Perché non si usa questo termine nei suoi confronti? Perché quello è un termine riservato soltanto al narratore o al poeta lirico, senza distinzione fra il poeta in limba e il poeta in italiano. E c’è poi il problema delle fonti dei suoi studi, che è stato sollevato contro Alziator, ma che proprio nella “Storia della letteratura di Sardegna” avrebbe dovuto trovare, e io credo che trovi, la sua smentita. Il libro è del 1954, ed a pubblicarlo è stata benemerita La Zattera, cioè la casa editrice di Antonio e Giovanni  Cocco, ma non ha trovato molti adatti a leggerla e a studiarla, a riconoscerne il valore, fra gli intellettuali sardi. Da questi egli è stato impallinato in più occasioni, ma soprattutto lo è stato proprio per la sua “Storia della letteratura di Sardegna”. Sì, impallinato, ma egli era già preda di un vecchio conflitto fra Cagliari e Sassari, che è un conflitto fra la cultura urbana e la cultura agro-pastorale di cui l’intellettuale sassarese si fa assertore e difensore.

«Di questo conflitto fu protagonista negativo Antonio Pigliaru su “Ichnusa”, il quale condanna la sua “Storia della letteratura di Sardegna”, e non le attribuisce nessun valore scientifico, che è la cosa più grave. E poi entra anche nelle assenze e nelle presenze. E’ una stroncatura fatta da un intellettuale valoroso, che indubbiamente ha in­fluito sullo scarso successo immediato, e anche sullo scarso successo postumo, più lungo nel tempo, che ha avuto questa “Storia”.

«Secondo me questo pone lo stesso problema di tutto il resto: la sua è la storia letteraria, che raccoglie il meglio degli scrittori sardi, realizzata da uno scrittore. Quali sono le prove? Le prove un lettore non le dà mai con facilità, però io dico che se, ad un certo punto, nella “Storia della letteratura di Sardegna” di Alziator ha un posto così rilevante Vincenzo Sulis, non  è pensabile che Vincenzo Sulis abbia tanto posto e anche un intero capitolo se non perché è un uomo straordinario, cioè un uomo che merita di essere raccontato. Voglio dire che quel capitolo prova la letterarietà di Alziator, prova lo scrittore con cui dobbiamo venire a patti, e invece paradossalmente questo è tornato a suo danno.

«Io l’ho conosciuto dopo, in verità, questo problema sollevato contro di lui. Devo confessare che immediatamente non me lo posi il problema, se Francesco Alziator con la “Storia della letteratura di Sardegna”  avesse dato un contributo per una migliore conoscenza della nostra produzione letteraria, e però fosse venuto fuori ancora come scrittore. Io l’ho letto sempre come scrittore.

«Intanto devo confessare che non ho avuto mai grande interesse per le scienze sociali, le scienze umane nuove, anzi per essere più espliciti, le ritengo responsabili dell’abbassamento della cultura del paese, perché sono più orecchiabili… psicologia, sociologia, tutte cose approssimative, ci ho sempre rinunciato facilmente, non ho letture sull’argomento né vicine né lontane, non mi hanno interessato, posso avere torto, posso essere in ritardo, non ha importanza. Allora, in Francesco Alziator io non ho mai cercato lo studioso di tradizioni popolari, non m’interessa questo suo aspetto. Anzi, arrivo a dire – e sarò maldicente – che forse ci siamo anche soffermati troppo ad illustrarle queste cose, conoscendo spesso il difetto delle enfatizzazioni di queste tradizioni popolari nostre che contengono anche i vizi forse grossi, malsani, quelle cose a cui alludeva Emilio Lussu quando è tornato dal mondo in Sardegna, e diceva: per carità, non siamo né migliori né peggiori degli altri, finiamola una buona volta. E però non abbiamo finito, ed allora di qui questa ed altre consimili stroncature moleste.

«Ma “L’Elefante sulla Torre”, che sono ben cinquecento pagine, dove lo vogliamo collocare? Sono le pagine che sono apparse nel giornale, quindi con una forte presenza dello scrittore, con forte impegno nel creativo. E sono un libro denso, un libro pieno di immagini, di colore, di lingua. Alziator ha proprio una ricchezza linguistica… E qui bisogna stare at­tenti anche, però, a non cacciarlo fra gli “storici della città”, come si fa, e fare dei suoi eventi un facile rievocatore. Lui è, invece, un inventore, un trasfiguratore.

«Io gli metto vicino, per giocare a carte scoperte, un illustre uomo che ha anche lui una visione di Cagliari analoga, ed è Giovani Spano, che ha scritto nel 1861 “Guida della città e dintorni di Cagliari”. Perché glielo metto vicino? Intanto per una cosa: anche quando si scrivono guide, genere che si potrebbe dire subalterno, secondario…, si possono anche scrivere pagine letterariamente forti. Le pagine di Giovanni Spano più belle sono, per esempio, quelle in cui rievoca la figura del Lonis, lo scultore, quello che ha anche scolpito la statua di Sant’Efisio, e ne fa un Vincenzo Sulis. Perché anche lui è un attaccabrighe, “unu zaccarori” di Marina, che fra l’altro aveva fatto esperienza di Napoli e dello spagnolismo napoletano, scendeva nel porto e si metteva a scazzottare… Questa pagina coloratissima è della penna di Giovanni Spano, che è relegato come uno che ci avrebbe dato notizie, e invece le sue non sono nozioni fredde, sono nozioni calde. Se il calore non lo senti, non… sai leggere.

«Ma Giovanni Spano lo cito vicino ad Alziator ancor di più per quel titolo di “Guida della città e dintorni di Cagliari”. Se c’è uno che ha letto Cagliari a quel modo in cui l’aveva letta Giovanni Spano, questo è Alziator. Alziator ha il senso del quartiere e della differenza esistente fra i quartieri. Se fosse uno studioso omologherebbe tutto e tutto sarebbe dato, diciamo così, per non eccitare confronti e differenze. E invece lui le cita continuamente le differenze: Stampace, Castello, Marina, Villanova sono diverse. Mi riferisco a tutte le pagine giornalistiche diventate “L’Elefante sulla Torre”.

«Ma anche nella “Città del sole” questo è evidente, questo senso della città che cresce, si diversifica; si diversifica anche in quel crescere lontano, remoto, che lui fa rivivere nelle sue pagine. Per andare più a fondo nella “Città del sole”, dove hanno posto le feste, le ricorrenze – “La città del sole” è come una specie di calendario, direi che la festa ha una misura topografica, la festa è un luogo, un habitat, una popolazione, la festa è l’umanità –, come si fa a non vedere in tutto questo la letteratura? cioè l’opera letteraria, la creazione…? Non me lo metto il problema se le notizie siano vere, esatte, scientifiche e rigorose.

«Lui cita spesso – come se da lontano sentisse la vicinanza del nemico – le fonti d’archivio. Anche questo dovrebbe pacificare, ma non pacifica, e forse gli nuoce. Cioè – si dice – non è né l’uno né l’altro, perché nel momento in cui ti dicono che è studioso di tradizioni popolari è per rimuoverlo un po’, e poi quando fanno l’analisi concludono che non è né l’uno né l’altro. Questo è un reato grave, è una forma di persecuzione postuma…

«Cucuccio paga a distanza l’ipocrisia della gente che ne ha fatto un dissipato, un sempre-fidanzato, insomma uno scanzonato, leggero. E invece non è così. Quello è un so­vrapporre un’immagine prefabbricata a una creatura che nel libro si apre a una fioritura di temi straordinari.

«Ne ho riletto in questi giorni le pagine dedicate a fra Nicola da Gesturi e siamo davanti a un laico, la penna è la penna di un laico. Ma un laico vero parla di religione con grandissima serietà… E questo laico che è Alziator disegna due presenze, ma una di grande forza teologica perché – io l’apprezzo – racconta quel che è avvenuto nella sua mente: la materializzazione nella sua mente sconvolta della vivente immagine di fra Nicola, che lo soccorre e lo libera dalla crisi che lo sconvolge, è una forma di miracolo prevista dalla teologia.

«Quella coloritura, dicevo, l’ha cercata lui, non si può pensare che siano stati magari una scivolata o un riempitivo, no, c’è proprio il gioco del­le immagini, la ricerca delle cose che va dicendo. Come fai a farne un uomo di scienza? dico, per poco un uomo di scienza, quanto basti per non dire un letterato. E invece si deve dire: un buon letterato.

«Tutti avevano un modo particolare di fargli festa, lui diceva parolacce sarde, salutava rumorosamente, aveva il gusto della battuta frizzante e aveva anche un’altra qualità, aveva una capacità di fraternizzare, di non far sentire mai il peso degli anni, il peso della notorietà. Lo facesse con un collega più giovane poteva essere anche facile e scontato. Lo faceva però anche e soprattutto con povera gente… Ho assistito ad incontri suoi del tutto occasionali, almeno due volte. M’è rimasto in mente l’incontro con un suo soldato. Lui ricordava molto il periodo che aveva trascorso sotto le armi, e questo suo ex commilitone, questo soldato che, diciamo, era stato suo dipendente, gli veniva incon­tro, si metteva sull’attenti, aveva un giaccone che gli andava grande e a gran voce lo salutava: “Su capitanu Alziator!”. E lui lo abbracciava, lo baciava, gli dava uno strattone e quello rimaneva adorante. Questo incontro poteva essere avvenuto altre volte, ma lo ricordo in prossimità della torre di San Pancrazio, con questo ex sol­dato che, venendo dal Terrapieno, era salito, poveretto, col peso già degli anni, ma anche di tutta la sua indigenza, fin lassù, e sulla cima, ridente, quasi ad aspettarlo, il suo capitano.

«Noi siamo stati in rapporti assidui agli Amici del libro, ma ci vedeva­mo molto come frequentatori della Biblioteca universitaria, e anche in piazza Martiri. Erano rimasti luoghi che avevano mantenuto un senso per noi, quando invece la città non li tollerava più. Mi riferisco agli anni ’60, ai primi anni ’70. Avveniva allora che ci trovassimo in piazza Costi­tuzione… Lui già aveva preso casa in via Angioy, e lì, in quella piazza, correvano fra noi poche ma intense parole. Erano incontri volanti, una pizzicata, un colpo di fioretto, scherzosi molto. Credo che con me abbia avuto un rapporto buono, facile, ma neppure posso dire che si sia mai lamentato dei suoi avversari, che pure c’erano… Ave­va un grande spirito di tolleranza, Cucuccio. Si caricava di questa sua spensieratezza, di questa sua superiorità festosa, non tracotante. Non era un arrogante, Cucuccio era un uomo festoso, un  gaudente, ma nel senso mi­gliore della parola».

Una “Storia della cultura in Sardegna”

Potremmo sentirlo ancora Alziator – le sue pagine davanti agli occhi, le sue parole nelle orecchie – come cantore di Cagliari, come patrono laico della città in trasformazione, dove meglio, dove peggio. In trasformazione non neutra però mai, sul piano dei valori umani e sociali: con qualche alterazione inevitabile sì, ma forse talvolta eccessiva, del suo spirito millenario.

Ma come onorare – non celebrare, dico onorare – il nostro Alziator cagliaritano storico e cantore di Cagliari, ma aperto alla realtà storica, popolare, d’arte e religiosità dell’Isola intera? Io credo che un modo concreto ci sia: dare alle stampe quella “Storia della cultura in Sardegna” da lui ben più che abbozzata, abbastanza definita per larghe parti.

Per rafforzare e dare autorevolezza a tale mia proposta, rilancio in conclusione quanto ebbero a dirne la professoressa Ghiani e l’amico Antonio Romagnino in quella mia trasmissione televisiva di ventotto anni fa, e come anche registrai sulla carta, successivamente, nel mio alziatoriano lavoro sulla “Città chantant” anno del Signore 1909.

Romagnino: «Sì, il contenuto di questa “Storia della cultura”, che è un’opera nell’impostazione originalissima, doveva essere illustrato in una serie di conferenze proprio nei giorni che hanno preceduto la sua scomparsa. Quindi io, in particolare, che ho avuto un certo posto nell’organizzazione di quelle serate che poi non si sono tenute, ricordo quest’opera con notevole rimpianto.

«Aggiungo che colmava certamente una lacuna, quest’opera: rispondeva certamente a un’esigenza. Si sa per esempio che è stato costituito un istituto editoriale che ha il particolare compito di pubblicare gli autori che hanno contribuito di più a definire le condizioni politico-sociali-civili della Sardegna. Si comincerà da Lucifero e si arriverà ai contemporanei. E’ un’opera che è appena abbozzata e però si deve dire che Alziator l’aveva precorsa in qualche modo già tracciandone gli itinerari, la sintesi: la storia della cultura in Sardegna, cioè come si è definita la sardità dei più remoti tempi fino ai giorni nostri. Questo era il tema che Alziator, con anticipazione notevole, aveva affrontato nell’opera a cui abbiamo accennato poco fa».

Dolores Ghiani: «Nell’introduzione, mio marito afferma che lo scopo della sua ricerca è quello di accertare cosa sia rimasto delle singole componenti della storia della cultura in Sardegna, e spiega che per raggiungere risultati validi scientificamente prenderà in esame anzitutto l’ambiente fisico nei suoi elementi geologici, geografici, più interessanti, per passar successivamente alla situazione dell’isola in rapporto all’ambito mediterraneo, e poi all’ambito mediterraneo occidentale. Compiuta questa premessa orientativa, che si svolge in diverse pagine, egli si esprime con le parole che potrei leggere prendendo il testo:

«“Come ogni uomo nasce con il suo destino biologico che lo determina e lo condiziona per tutta l’esistenza, così ogni terra nasce con il suo destino geologico e geografico. Una stretta interdipendenza lega l’uno all’altro con il rapporto uomo-ambiente. Il rapporto uomo-ambiente è un’interazione di millenni durante i quali sul corpo e sulla psiche umani sono andati formandosi infinite esperienze che si sono risolte a livello anatomico e fisiologico in mutazioni e adattamenti ben riscontrabili fisicamente e a livello psicologico in sedimentazioni nell’inconscio e in un particolare habitus di reattività.

«“Sull’ambiente poi l’uomo ha, con tutte le sue possibilità, agito personalizzandolo secondo le sue necessità con un’azione sempre profonda e evidente. Quell’interscambio uomo-natura e natura-uomo, che è in sostanza il punto centrale di quella che la scienza aulica chiama storia, comincia in Sardegna assai tardi rispetto alla più parte delle altre terre. Ma tanto tarda è la presenza dell’uomo sulla terra sarda quanto precoce è l’apparizione di questa terra alla luce del sole. Infatti, in un tempo lontano sette o otto milioni di anni affiorava già dal grande mare paleozoico il nucleo del Sulcis-Iglesiente.

«“Ma queste sono cose abbastanza note. Quello che invece pochi conoscono sono i risultati di indagini recentissime e tuttora in corso sulle vicissitudini dell’isola sarda. Secondo queste ricerche condotte da geologi italiani, americani, francesi e belgi, durante l’era terziaria la microplacca formata dal massiccio sardo-corso si sarebbe staccata dalla penisola iberica e dal sud della penisola francese press’a poco dove oggi si apre il Golfo del Leone e, dopo una rotazione in senso antiorario di circa 45 gradi, si sarebbe fermata dove si trovano ora Corsica e Sardegna. Se si tiene conto dell’indiscutibile interazione suolo-uomo a livello geomagnetico ci si rende immediatamente conto dell’importanza di questa scoperta”.

«In realtà c’è da rammaricarsi che l’opera non sia stata portata a termine. Però io credo che quello che se ne possiede, con una presentazione adeguata fatta da competenti, possa affrontare la pubblicazione. E formulo quest’augurio, che credo sia non un omaggio ma un riconoscimento doveroso, seppure postumo, dello studioso così attento quale era Francesco Alziator.

«Ho avuto quasi il ritegno di riprenderla in mano: è tutta manoscritta eccetto la prefazione che io battei a macchina, come facevo sempre – sono stata la sua dattilografa – ma tutto l’altro è ancora assolutamente inedito e manoscritto. E io vorrei riportarlo alla luce. Mi sembrerebbe, come ho fatto finora, di far rivivere ancora tra noi mio marito, di cui io sento la presenza…».

 

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