“Su nou, su connottu e le zone interne”, di Pietrino Soddu

Intervento scritto di Pietro Soddu per il convegno del 19 novembre 2016 organizzato dall’associazione sarda ex parlamentari, presieduta dall’on. Giorgio Carta sul tema “Agricoltura, pastorizia e ambiente in Sardegna e nel Mediterraneo”.

Prima parte

1. «La caratteristica che colpisce di più nei paesaggi della Sardegna è la grande estensione di superfici incolte. Si può camminare per chilometri senza vedere un campo coltivato. In quest’isola di 24090 Kmq  – quasi tre volte la Corsica –  non c’è quel suggestivo intrecciarsi di lande deserte e oasi di ricchezza che caratterizza i paesi mediterranei. È solo su qualche migliaio di ettari che si sviluppano nelle immediate vicinanze dei due capoluoghi i vigneti e gli oliveti, Dappertutto, con differenti gradazioni nelle manifestazioni della presenza dell’uomo, si estendono macchia, lande e garrighe punteggiate di villaggi distanziati tra loro e circondati da una stretta fascia di coltivazioni».

Così è descritta la Sardegna degli anni ’30 del secolo scorso nell’incipit di “Pastori e contadini” di Maurice Le Lannou[i], ancora oggi  insuperato testo di geografia storica della nostra isola. E ancora: «La Sardegna è un vecchio paese rurale. Essa presenta paesaggi antichissimi che, diversamente da altre regioni del Mediterraneo non sono stati modificati quasi per niente. […] La Sardegna è una terra di pastori, l’economia pastorale è di gran lunga l’attività più importante di quest’isola. […]. Le minacce che incombono sui questi paesaggi così antichi  – biblici o virgiliani sarei tentato di dire –  non vengono come in Corsica dal turismo. […]. I paesaggi della Sardegna resteranno ancora per molto non contagiati dalle grandi costruzioni alberghiere».

Non c’è, ma se ci fosse una storia dell’agricoltura sarda dalle origini fino ai nostri giorni dovrebbe confermare quello che è contenuto sommariamente in questo brano e più estesamente in tutto il libro citato e nei manuali di storia politica generale.

Si scoprirebbe che molti aspetti del settore non sono molto cambiati dal tempo dei romani ad oggi. Avremo la conferma che la struttura fondamentale di base è ancora quella nata e cresciuta dopo che la Sardegna divenne una colonia agricola prima punica e poi romana. I grandi cambiamenti avvenuti allora nella provvista di cibo e negli usi del tempo della civiltà nuragica permangono ancora oggi soprattutto nel settore agricolo.

Fu allora che l’isola cambiò profondamente diventando, secondo gli storici antichi e moderni, più che una base militare una fonte di approvvigionamento granario essenziale sia per Cartagine che per Roma. Poi le cose cambiarono e ci furono nel basso e alto Medioevo e nella prima età moderna grandi carestie e grandi oscillazioni, nel numero degli abitanti e un progressivo declino della cerealicoltura, dovuto a un circolo non virtuoso molto ampio, che comprendeva lo sfruttamento padronale, i tributi imposti dal regime feudale, le lotte tra contadini e pastori, l’arretratezza delle tecniche agricole mai rinnovate, i prelievi forzati dei prodotti agricoli a favore delle città, la pratica dell’usura, le decime ecclesiastiche e l’isolamento dell’isola, oltre naturalmente alla natura del suolo, alle devastazioni provocate dalle locuste e alle condizioni climatiche poco favorevoli.

A tutto questo occorre aggiungere anche la responsabilità della politica che è stata spesso assente o indifferente, con poche eccezioni nel tempo lungo della storia, prima con i giudici di Arborea e poi durante il dominio secolare di Aragona-Catalogna e Spagna che hanno tentato, in maniera molto discontinua, di riformare i regimi contrattuali, l’assetto della proprietà, il sistema fiscale e in seguito i rapporti città-campagna, il commercio del grano, il sistema di macellazione e di vendita delle carni e tanti altri importanti interventi su aspetti tecnici e giuridici, soprattutto dal 600 in poi. Ricordo per tutti: la creazione dei monti frumentari, l’impianto di oliveti e l’innesto degli olivastri. E più avanti sotto il dominio dei Savoia l’approvazione della legge sulle chiudende, i programmi di bonifiche idrauliche, l’uso di nuove tecniche, i piani di riordino fondiario e da ultimo sotto il regime repubblicano i miglioramenti genetici degli animali, lo sviluppo della cooperazione, la riforma agraria e dei patti agrari, lo sviluppo della piccola proprietà contadina, il monte dei pascoli, la meccanizzazione, i piani d’irrigazione, l’infrastrutturazione rurale. Ma ciò nonostante, l’agricoltura sarda non è molto cambiata e ancora oggi appare per molti versi più simile a quella dell’epoca dei romani che non a quella moderna dell’Italia settentrionale, per non parlare di quella degli Sati Uniti, del Canada, della Francia o dell’Olanda. Forse si tratta di una falsa impressione, in qualche misura irrazionale. Ma anche se non corrisponde del tutto alla realtà è fondamentalmente vera.

Qualcosa è certamente cambiata in meglio soprattutto negli ultimi decenni del secolo scorso ma l’insieme appare ancora arretrato. Forse si tratta di un giudizio troppo severo, come succede da noi, che sottovalutiamo e qualche volta ignoriamo i progressi e i cambiamenti anche quelli più vistosi degli ultimi cinquant’anni, grazie ai quali il settore agricolo ha fatto molti passi avanti, adeguandosi in parte alle esigenze del nuovo tempo e da ultimo, non da tutte ma da parte delle imprese più sensibili, persino alla globalizzazione. Questo adeguamento ha toccato però solo una parte della realtà, senza incidere nella misura necessaria sull’insieme delle strutture produttive e sulle cause della progressiva  marginalizzazione dei prodotti locali nel mercato interno ed esterno. Le ragioni che hanno impedito e impediscono alla nostra agricoltura e ai nostri prodotti locali di competere senza handicap sul mercato globale sono infatti in gran parte da attribuire al ritardo nei cambiamenti strutturali senza i quali non sarà facile fermare il declino, invertire la tendenza e bloccare l’inarrestabile penetrazione nel mercato sardo dei prodotti dei paesi esteri, non solo di quelli appartenenti all’Unione europea come è nei trattati, ma anche dei paesi non facenti parte dell’Unione, africani e asiatici, per non parlare degli Stati Uniti, del Canada e dell’America latina.

Possiamo dunque a buona ragione affermare che il processo di modernizzazione c’è stato anche in Sardegna, ma non è stato sufficiente a invertire la tendenza al declino sia in termini di qualità che di quantità, sia riguardo al controllo del mercato locale sia alla trasformazione industriale della materia prima in prodotto finito.

Per rendersene conto non è necessario consultare le statistiche. Basta visitare i market, piccoli e grandi, e si vedrà facilmente che la ripartizione tra prodotti locali e prodotti esterni si è progressivamente spostata a favore di questi ultimi, non solo nelle produzioni industriali e nei prodotti di lunga conservazione, ma anche nei prodotti freschi destinati all’immediato consumo.

Si fa un gran parlare di prodotti agricoli a chilometro zero e si organizzano sagre di tutti i generi ma la loro incidenza sulla diminuzione delle merci importate allo stato naturale o trasformate è molto scarsa.

2. I problemi dunque non sono più gli stessi del tempo antico e neppure della prima modernità.

Come tutti i settori produttivi anche l’agricoltura subisce infatti il dominio della tecnica e del capitalismo globale. Noi continuiamo a pensare secondo i vecchi schemi e le vecchie strutture concettuali, i vecchi modelli culturali, ignorando che la realtà che si è venuta formando nel corso dell’esperienza autonomistica non è più quella che ha provocato l’occupazione delle terre incolte, la riforma agraria e dei patti agrari. Non è più quella della transumanza, del monte dei pascoli, dei conflitti per gli usi civici e per le terre comunali; e tantomeno dell’aratro di legno, della trebbiatura con i buoi e della mungitura manuale.

Condividiamo largamente con il resto d’Italia i cambiamenti negli stili di vita e il passaggio da un’economia quasi autarchica al mercato globale. Ma quello che altri hanno fatto in 150 anni noi sardi abbiamo iniziato a farlo negli ultimi decenni e non è bastato per colmare i ritardi in tutti i campi, ma soprattutto nel sistema produttivo agricolo.

Alcuni pensano che in fondo il ritardo non è solo un elemento negativo ma anche positivo perché è stato conservato qualche elemento del passato che può rilanciare l’agricoltura utilizzando i saperi e i sapori antichi. Questo può essere vero, ma è possibile solo dentro un quadro nuovo di sostanziale avanzamento della modernità in tutti i suoi aspetti: tecnici, politici, economici e sociali evitando l’esclusione delle aree territoriali a prevalente economia agricola dai progressi culturali, civili, materiali e immateriali del processo di sviluppo, dalla vita politica e culturale, dall’accesso ai beni offerti dal tempo libero; in definitiva dalla nuova condizione umana fatta di luci e ombre , di libertà ma anche di vincoli, comunque sempre preferibile per tanti versi alla condizione della precedente società contadina.

Tutti dobbiamo ricordare e riconoscere che la Sardegna è cambiata profondamente nel secondo dopoguerra con la Repubblica, il suffragio universale esteso alle donne, la nascita della Regione, la riforma agraria, la scuola dell’obbligo, il piano di rinascita, gli interventi infrastrutturali, la scomparsa della malaria, per citare i più noti.

La Commissione parlamentare d’inchiesta sul banditismo aveva nelle sue conclusioni confermato i progressi compiuti dall’isola ma anche confermato i molti ritardi, indicando la terapia più efficace per curare il malessere sociale e il sottosviluppo nell’attuazione di un unico progetto integrato comprendente l’ammodernamento dell’agricoltura e la promozione di un apparato industriale moderno. Non tutto è andato secondo le previsioni e le attese a causa soprattutto dell’insuccesso del piano d’industrializzazione e del mancato decollo dell’agricoltura intensiva irrigua. Sicché in tutta l’isola e non solo nelle zone interne è rimasto in campo come protagonista a livello di mercato globale solo il settore della pastorizia, proprio quello che sembrava più in ritardo con i tempi.

Gli altri comparti agricoli invece, a cominciare dalla cerealicoltura sono diventati sempre più marginali comprese la viticoltura, l’olivicoltura e l’orticoltura che sembravano offrire con l’avvento dell’irrigazione e della meccanizzazione le prospettive più favorevoli. Il sistema produttivo che si è venuto creando negli ultimi decenni ha dimostrato sempre di più di non essere più in grado di mantenere l’equilibrio demografico tra città e campagna neppure nelle aree dove un tempo dominavano la cerealicoltura, la viticoltura e l’orticoltura, cioè le colture  che sembravano destinaste a una grande espansione.

Ma così non è stato e tutte le aree non costiere, anche le più ricche nel passato, continuano a perdere residenti e a declinare economicamente. Molti pensano che un nuovo sviluppo possa nascere da un diverso turismo esteso a tutta l’isola, utilizzando il grande patrimonio culturale-ambientale e de “su connottu”. Ma si tratta di un’illusione perché occorre ben altro, occorre creare un sistema economico efficiente e competitivo in tutti i settori produttivi, soprattutto, ma non solo, nelle attività agrozootecniche. Lo sapevamo anche quando è stato approvato il piano quinquennale in attuazione del piano di rinascita che però si è realizzato solo in parte e ha mancato proprio gli obiettivi legati allo sviluppo di un’agricoltura moderna e la nascita di una moderna agroindustria.

Le cause di tale insuccesso sono tante ma il mancato sviluppo dell’agricoltura irrigua è una delle più importanti. Da ciò l’assoluta urgenza di rilanciare lo sviluppo del settore agricolo per metterlo in grado di competere con il resto del mondo nel mercato globale e allo stesso tempo innescare un processo di sviluppo dell’agroindustria che non può nascere e sopravvivere senza una produzione agricola quantitativamente e qualitativamente paragonabile a quella dei paesi più evoluti e delle stesse regioni italiane.

Per un nuovo sviluppo non basta il fascino dell’antico, occorre un salto di qualità che si può fare solo con la tecnica, e che non può essere affidato allo spontaneismo o alla vocazione naturale e neppure solo all’intelligenza e all’iniziativa degli operatori ma va pensato, progettato, accompagnato nell’attuazione, da una forte volontà politica, da una strategia socio-economica di vasto respiro, tale da unire le potenzialità di una riforma agraria generale con le potenzialità della ricerca scientifica, delle strutture tecniche, della rete istituzionale amministrativa, pensata e costruita in funzione dello sviluppo anche delle aree interne e non solo delle città e delle aree costiere.

Chiunque è in grado di vedere che non è questa la politica in campo oggi in Sardegna.

Continuare a occuparsi delle residue sopravvivenze dei problemi dell’inizio del secondo dopoguerra non ha più senso e anche  la guerra millenaria tra pastori e contadini è finita, ed è finita per sempre, così come è evidente che la piccola proprietà contadina non è in grado di organizzare le produzioni secondo le nuove esigenze del mercato.

Tutto dimostra che non si può più fare a meno di tenere conto delle nuove tendenze, non per seguirle senza alcuna esitazione o riserva ma per orientarle e ove manchino le condizioni naturali per lo sviluppo cercare di crearle, eliminando le difficoltà e costruendo un ambiente favorevole agli investimenti privati e alla creatività produttiva delle nuove generazioni che non possono vivere di ricordi e di rimpianti e neppure possono rimanere ancorate per sempre alle tradizioni della vita comunitaria di un tempo che non esiste più.

Dopo gli insuccessi della prima programmazione cosiddetta “dall’alto” si è passati a una programmazione cosiddetta “dal basso” che però è fallita proprio per l’assenza di un quadro generale. I contratti, patti territoriali e i protocolli firmati tra Regione e enti locali hanno avuto e avranno poco successo, sembrano quasi un’invenzione per guadagnare tempo rammendando, tamponando gli strappi nel tessuto economico e sociale ma senza produrre apprezzabili miglioramenti sulle strutture produttive. Dopo tante esperienze dovrebbe essere evidente che non si uscirà dalla crisi finché non verrà costruita e adottata una visione unitaria di tutte le azioni rivolte allo sviluppo.

Anche la scelta di trasferire nelle zone interne qualche elemento culturale moderno tipo i corsi universitari decentrati  – trascurando la crisi delle due università sarde –  serve a poco se non è strettamente collegata con gli obiettivi delle aree interne.

Non sono io a pensarlo, ma la realtà nella sua crudezza a dimostrare l’assoluta urgenza di un nuovo piano organico dotato di risorse pluriennali certe e con una missione precisa coerente con la storia, la tradizione, la cultura cioè con l’identità e la vocazione naturale di quelle aree.

Anche l’opinione pubblica più attenta ai cambiamenti in corso pensa che per fermare il declino e rilanciare lo sviluppo occorre mettere al centro del nuovo piano di sviluppo l’agricoltura, la terra, le risorse umane legate all’ambiente, il patrimonio di saperi accumulato nella lunga durata sposandolo alla scienza moderna in modo da formare un’alleanza che diventa il motore, il cuore pulsante del futuro sviluppo.

Quasi il contrario dell’attuale impostazione della politica regionale basata sullo sviluppo turistico delle aree costiere, sulla diffusione di questo modello nelle aree interne utilizzando a questo fine il patrimonio ambientale e culturale più antico, considerato molto attrattivo.

Questa visione va sostituita con una più ampia, più moderna, più adatta a fermare il declino, a dar vita a uno sviluppo moderno senza costringere le zone interne a perdere l’anima e l’identità, anzi aiutandole a contribuire a far si che tutta la Sardegna mantenga la sua specificità etnica, culturale, storica e ambientale non come un documento del passato ma come realtà viva e operante nella storia presente, superando gli ostacoli che hanno impedito finora alla comunità sarda di accettare nel tempo antico e in quello moderno, neppure a malincuore, l’idea che per stare alla pari con le altre comunità e con il progresso in corso nel mondo fosse e sia necessario cambiare i modi, le procedure, gli usi, i vincoli, i ritmi della società agricola e tra non molto anche quelli della società industriale.

Per spiegare in nostri ritardi ci siamo rifugiati nel mito, nelle narrazioni a volte prive di riscontri reali. Ci siamo costruiti un passato quasi su misura per giustificare e spiegare il rifiuto dei passaggi obbligati cioè la costruzione di un sistema economico-sociale più in linea con i tempi.

Così sono nati i miti della “costante resistenziale” e della proprietà comune, che resistono ancora nonostante tutto.

Ai miti abbiamo aggiunto come giustificazione del sottosviluppo le condizioni naturali, l’insularità, il clima, l’asperità dei rilievi, le difficoltà di comunicazione, l’acidità e la scarsa fertilità dei suoli. Ma neppure tutto questo è sufficiente a spiegare l’assenza di un’agricoltura meno fragile di quella praticata dai sardi in tutti i tempi, come dimostra l’eccezione importante del periodo punico, romano e sia pure in misura minore dell’Alto medioevo che ha visto crescere esperienze limitate ma significative nelle aziende dei monasteri. Si può dire che in quelle epoche le difficoltà vennero superate o ridotte sensibilmente dall’uso di manodopera composta da schiavi o servi della gleba che sostituivano in parte gli animali e costavano anche meno. Ma non è questa la ragione principale e comunque non cancella l’esperienza di una Sardegna granaio di Cartagine  e di Roma, e neanche il fatto che il grano fosse, durante il periodo giudicale, catalano-aragonese e spagnolo la principale fonte di reddito dell’isola, nonostante le varie contese feudali e la guerra permanente tra contadini e pastori.

Dobbiamo forse in mancanza di esaurienti spiegazioni arrivare alla conclusione, umiliante e offensiva, di una incapacità genetica dei sardi di evolversi verso forme di vita e civiltà più progredite di quella dei cacciatori, raccoglitori e pastori?

Dobbiamo accettare questa tesi per spiegare gli insuccessi di tutti i tentativi compiuti per far sviluppare un’agricoltura e un’industria come quelle nate nel resto d’Italia e d’Europa nella prima età moderna e nei giorni nostri? Io credo di no. Penso che il rifiuto da parte dei sardi non nasca da ragioni genetiche ma sia piuttosto l’effetto della lunga durata delle dominazioni punica, romana  e poi del feudalesimo, del formarsi di una cultura che in un altro scritto ho chiamato “vassalleria”, un atteggiamento di tipo cortigiano, servile che ha caratterizzato i rapporti con le monarchie iberiche prima e con i Savoia poi fino all’avvento della Repubblica. È la vassalle ria che ha impedito la nascita di una borghesia operosa e che caratterizza ancora oggi, in misura preoccupante, i rapporti tra rappresentati e rappresentanti.

Una comunità che rifiuta le responsabilità di partecipare al cambiamento, che teme di perdere privilegi e protezioni, che chiede in continuazione grazie, concessioni, titoli, appalti, uffici ben remunerati e rifiuta di lavorare per un futuro diverso, questo è stata la classe dirigente sarda per quasi duemila anni. E se questo rifiuto può anche avere qualche giustificazione per i ceti più bassi, ne ha molto poche per la classe dirigente se così si può chiamare una classe di vassalli che è sopravvissuta a tutte le rivoluzioni e gli sconvolgimenti della storia. Di tutto questo dobbiamo ricordarci quando parliamo dell’agricoltura e della comunità sarda, non solo di quella delle aree più interne, quelle resistenti a tutto secondo la vulgata più avanti richiamata, ma di tutta l’isola.

In un certo senso dovremo considerare la Sardegna un’eccezione all’esperienza vissuta dalle società primitive nel passare dalla caccia e dalla raccolta alla pratica dell’agricoltura nella quale secondo gli antropologi solo qualche gruppo di pastori isolati nelle montagne ha resistito alla rivoluzione che ha visto il passaggio da una società di raccoglitori e cacciatori a una società che si procura gli alimenti e quanto necessario per una vita migliore e più sicura con la coltivazione della terra, con l’ingegno, con la fatica, con il lavoro, con l’aiuto di animali addomesticati, con regole, vincoli, procedure, coercizioni anche dure e severe per uscire da una condizione umana primitiva molto simile a quella degli animali.

L’ipotesi che tutta la popolazione della Sardegna abbia rifiutato la rivoluzione agricola contrasta con la storia reale che ha visto sorgere le città e crescere le colture nei campi e insieme a questi fatti ha conosciuto l’evolversi progressivo della condizione generale di vita, singola e collettiva.

Qualcosa di specifico però nei sardi ci deve essere se nell’ottocento dopo tanti secoli dalla rivoluzione agricola (durante i disordini sociali, ancora tutti da chiarire come origine, istigazione e interessi in campo secondo studi recenti di giovani studiosi che si occupano delle origini della borghesia rurale sarda) fu coniato il motto molto efficace suggestivo e carico di richiami e di memorie e ancora in uso :«torramus a su connottu» per esprimere il rifiuto della “proprietà perfetta” e la preferenza per gli usi comunitari, allora considerati dal governo piemontese la ragione fondamentale dell’arretratezza delle campagne. “Torramus a su connottu” da allora è diventato di uso comune per esprimere un giudizio di condanna del presente e una preferenza per il passato, anche quello meno felice. Oggi si usa per difendere tutto ciò che il mondo agropastorale della Sardegna interna ha conosciuto, che per molti sarebbe da preferire a tutti i modelli di sviluppo più o meno modernisti e industrialisti a cominciare dai modelli di vita, dalle pratiche alimentari, dalla qualità dei prodotti cioè da tutto quello che molti considerano il patrimonio identitario del popolo sardo, elemento costitutivo primario dell’identità nazionale sarda. È però inutile continuare in un conflitto di questa natura che non porta da nessuna parte.

Dopo tanti progetti di cambiamento e dopo tante esperienze vissute nella logica del superamento delle condizioni considerate elementi frenanti di una normale evoluzione sociale dobbiamo provare a conciliare il vecchio con il nuovo , “su nou chi su connottu” come detto nel titolo di questa nota. Forse è questa la strada più giusta per ottenere risultati meno incerti e precari di tante precedenti esperienze, non ultime quella dell’industrializzazione e del mancato sviluppo di un’agricoltura moderna. Conciliare il vecchio e il nuovo richiede un pian complesso, una strategia di ampio respiro, una riforma strutturale che purtroppo non sembra prioritaria né per l’Unione Europea, né per lo Stato, né per la Regione, che continuano a praticare una politica di contenimento dei danni forse sperando che la crisi cessi per via naturale e i danni causati da questo ritardo vengano ridotti e sopportati con politiche di tipo assistenziale e per effetto del mercato.

 

Seconda parte

1. Se M. Le Lannou potesse rivisitare oggi la Sardegna la troverebbe molto cambiata nelle città e nelle coste, ma molto meno nell’assetto strutturale delle campagne, nonostante la presenza di torri eoliche, di piccole e grandi centrali solari e di altre costruzioni d’uso promiscuo che rompono la solitudine del paesaggio ne oscurano in parte il fascino descritto nel suo famoso e già citato “Pastori e contadini di Sardegna” il quadro di fondo appare ancora molto simile a quello degli anni ’30 del secolo scorso.

La struttura agronomica e produttiva è infatti più o meno la stessa e forse ancor  di più segnata dalla pastorizia. Ci sono case, ovili, stalle, strade vicinali, linee elettriche. Ci sono trattori e fuoristrada, c’è dovunque la presenza di una moderna strumentazione e ci sono, anche se si vedono raramente, i pastori in jeans e in tuta da lavoro. Ma lo stato delle campagne dà l’impressione dell’immobilità e qualche volta dell’abbandono e della trascuratezza, appare in una parola fermo nel tempo.

Questa impressione è forte e non cambia anche se chi guarda sa che nella realtà la pastorizia ha realizzato ammodernamenti molto significativi nel campo della selezione genetica, dell’orientamento dei tempi dei parti alle esigenze del mercato, dell’aumento pro capite della lattazione, della cura del benessere degli animali, nell’uso di precauzioni igieniche nella mungitura e nella movimentazione del latte, nella produzione del foraggio, nell’alimentazione mirata alla quantità e ancor di più alla qualità del prodotto secondo le esigenze dell’industria di trasformazione. Ma se l’impressione negativa resta vuol dire che c’è qualcosa che non va, qualcosa di cui la politica dovrebbe preoccuparsi, qualcosa di natura strutturale che non riguarda tanto i singoli allevamenti e i singoli allevatori ma la condizione complessiva del settore che la vista delle campagne semi-abbandonate richiama con forza in tutti i suoi aspetti, non solo in quelli della produzione, dei processi di trasformazione, della cura dei terreni ma anche in quelli del mercato e del processo di equa distribuzione del valore aggiunto ricavato dalla trasformazione industriale.

Se si vuole che il settore zootecnico continui a essere anche nel futuro uno dei pilastri fondamentali dello sviluppo si deve curare tutto il processo senza sottovalutare i cambiamenti in corso e l’ingresso nel settore di nuovi protagonisti.

Per ottenere risultati reali e duraturi non è sufficiente adeguare l’offerta alle modifiche della domanda  – come qualcuno pensa –  . È necessario anche questo ma è più urgente affrontare e risolvere i problemi di fondo, anche se sono più complessi e non facili perché toccano strutture da tempo esistenti e consolidate. Ma anche semplicemente adeguare la produzione di latte alla domanda reale non è facile, perché comporta spostare una parte degli allevamenti dalla produzione del latte alla produzione di carne, significa in un certo senso mescolare e far convivere il sistema olandese con il sistema scozzese, l’intensivo con l’estensivo in modo razionale, non solo per rispondere alle esigenze del mercato ma anche per garantire un migliore stato delle condizioni ambientali e allo stesso tempo un maggiore  benessere della comunità e degli stessi allevatori.

Forse si è finalmente compreso che il latte prodotto non può aumentare all’infinito, soprattutto in assenza di forti innovazioni del prodotto trasformato. Deve restare leggermente al di sotto della quantità necessaria a soddisfare interamente la domanda se non si vuole assistere ogni anno a notevoli variazioni dei prezzi. Eppure il timore che così facendo  ci si espone alla penetrazione di prodotti di altra provenienza c’è ancora nonostante le più recenti esperienze abbiano dimostrato che una produzione di latte superiore alle potenzialità del mercato concorre a creare condizioni di prezzo depressive, trasformando l’aumento del prodotto da fattore positivo in elemento negativo della remunerazione finale.

Ho detto che nessuno può negare i passi avanti compiuti negli ultimi anni. Questi però non sono frutto di scelte politiche, ma dell’adeguamento quasi istintivo della categoria alla domanda del mercato, ai progressi della tecnica e delle conoscenze veterinarie nel campo della selezione-fecondazione, alimentazione e cura degli animali e anche della più duttile e pragmatica posizione delle associazioni e questo fa ben sperare in un futuro meno incerto.

Se però si deve cambiare di più, come io e molti degli stessi pastori crediamo, il percorso d’ora in poi non può essere lasciato all’istinto e all’iniziativa dei singoli allevatori o all’opera di mediazione tra associazioni e imprese trasformatrici. Per ottenere risultati di un certo valore occorre una nuova visione politica generale che abbia un orizzonte lungo; occorre promuovere  nuovi strumenti di ricerca, monitoraggio, credito, assistenza tecnica, formazione professionale; occorre una più rigorosa regolamentazione dell’esercizio della professione e tante altre cose tra le quali, non ultima, la saldatura tra “su connottu” e “su nou”, tra natura e scienza, tra identità e mercato. Molti sostengono che tutto questo non è possibile perché l’UE blocca tutto. Ma l’azione politica e amministrativa della Regione e i programmi possono sempre occupare gli spazi lasciati liberi dai regolamenti dell’Unione e utilizzare le risorse regionali e anche quelle europee per migliorare le condizioni degli allevatori con nuove normative, nuovi strumenti tecnici, nuovi sistemi di welfare e nuovi programmi rivolti a rendere non solo più efficiente ma anche più attraente, interessante e socialmente apprezzata soprattutto dai giovani la professione di operatore-imprenditore nel campo della produzione, della trasformazione e commercializzazione dei prodotti agro-zootecnici.

La Regione sarda può fare molto e in forma avanzata. Si tratta di cominciare un percorso che potrà essere faticoso ma non impossibile se si ha la capacità di cogliere e assecondare i valori che stanno emergendo nelle nuove generazioni che vanno sostenuti e accompagnati da politiche innovative capaci di unire l’economico, il sociale e il culturale in un unico piano di sviluppo equo, sostenibile e competitivo.

L’agricoltura sarda, come abbiamo detto è certamente cambiata, ma per molti aspetti sembra ancora ferma alle origini. Forse non potrebbe essere diversamente dal momento che essa dipende quasi interamente da elementi naturali immodificabili fino a qualche anno fa, come ad esempio le leggi genetiche, l’andamento climatico, la fertilità dei suoli per citarne solo alcuni. Questa immobilità è in certi casi molto appariscente, ma non corrisponde del tutto alla realtà e soprattutto non è immodificabile nel futuro anche prossimo. L’agricoltura non può però cambiare da sola serve il sostegno convinto e intelligente della politica e della scienza, come ci insegna la storia e anche la più recente esperienza.

La prima cosa da fare è rivalutare l’importanza del settore primario per l’economia e la condizione sociale della comunità sarda, che può sembrare elementare e scontata ma così non è e forse non abbiamo mai considerato la comparsa dell’agricoltura diversamente da tanti illustri antropologi la più grande rivoluzione nella storia della società umana. E anche per questo non abbiamo partecipato ai cambiamenti nell’uso dell’acqua, nei processi lavorativi, nella trasformazione dei prodotti e successivamente nell’uso degli strumenti meccanici e dei prodotti chimici, nelle rotazioni d’uso della terra, ecc. E non sembriamo ansiosi di partecipare all’ultimo grande cambiamento, alla nuova rivoluzione indotta dal mercato e sostenuta dalla scienza genetica. Essa riguarda tutti i fattori, compreso il nucleo più antico, quello originario ritenuto finora immodificabile. Ma la scienza genetica va avanti senza di noi, procede senza sosta nonostante le critiche, le riserve e le tante obiezioni di carattere etico che ha suscitato e continua a suscitare nell’ambito scientifico ma soprattutto nella più sensibile opinione pubblica. Gli organismi geneticamente modificati sono osannati o osteggiati, condannati senza riserve da molti governi, dalla maggioranza delle istituzioni e dei leader morali. Ma sono sostenuti con forza crescente da una parte considerevole degli scienziati e dalle potenti organizzazioni multinazionali che ne controllano la produzione e la vendita e utilizzano la grande crescita demografica in corso nel mondo e la correlata domanda di cibo per introdurre in misura sempre più ampia gli OGM nell’agricoltura di molti paesi soprattutto ma non solo in quelli più sviluppati. La Sardegna è ancora fuori da questo processo ma non è detto che lo sarà nel prossimo futuro. Non ce ne occupiamo, ma altri possono sempre farlo infischiandosene del fatto che questa ultima rivoluzione agraria guidata dalla scienza abbia suscitato obiezioni etiche e fatto emergere più acutamente la questione ambientale e la grande inadeguatezza delle strutture normative e strumentali del settore a far fronte alle nuove esigenze e ai nuovi compiti. Continuare a disinteressarsene può essere pericolo e creare problemi che si aggiungono a quelli esistenti  e ai gravi conflitti in atto o preannunciati.

La politica europea, nazionale e regionale nelle dichiarazioni di principio non ignora nessuno dei temi trattati. Ma la pratica di governo non è stata finora conseguente ed ha lasciato libero il campo alle multinazionali, giustificandosi con l’assenza di specifiche domande delle associazioni del settore, che insistono a chiedere interventi di tipo assistenziale a difesa delle piccole imprese tradizionali e delle realtà regionali più tipiche e radicate nella cultura e nella tradizione. Nessuno può negare che anche questo sia utile. Ma le due linee potrebbero convergere in una politica diretta a realizzare un sistema di forte cambiamento che garantisca la sopravvivenza e la valorizzazione delle tradizioni, non solo come testimonianze del passato ma come beni capaci di stare nel mercato globale, conservando i sapori e i saperi antichi, non come sopravvivenza museale ma trasformandole in risorse dinamiche e remunerative destinate a rivoluzionare l’agricoltura e farla diventare il fattore centrale dello sviluppo, come si afferma ormai quasi da tutti.

L’urgenza dello sviluppo però non può giustificare tutto quel che succede nel settore.

La politica farebbe un grave errore se non tenesse nel giusto conto che le tendenze del mercato agricolo stanno evolvendo, in assenza del potere politico, in senso sempre più oligopolistico e globale. Il settore già da ora appare, se non controllato,  fortemente condizionato da poche multinazionali che puntano a fare il bello e il cattivo tempo ovunque nel mondo a danno delle piccole imprese e in contrasto con le dichiarazioni ufficiali della politica.

La Sardegna come già detto, è per ora fuori da questo processo ma è sbagliato non preoccuparsi di prevenirne i danni come invece fanno tutti, a cominciare dalla giunta regionale, che sembra guardare solo al presente, interessata più alla quantità delle risorse trasferite dall’Unione europea e alle azioni rivolte a tenere in vita il sistema esistente piuttosto che alle nuove politiche da mettere in campo per cambiarlo. Non solo la giunta ma anche le associazioni sottovalutano il fatto che così facendo si rischia di non risolvere la crisi e consegnare le componenti più attive e dinamiche entro breve tempo nelle mani di società oligopolistiche, non solo americane, olandesi o svizzere ma anche arabe, cinesi, russe, molto attive da qualche tempo nel settore e poco preoccupate dei riflessi di tutto questo sulle comunità locali e sull’ambiente naturale.

Sarebbe però sbagliato dire che tutto quello che succede nell’isola è negativo. Ci sono segnali e esperienze di segno diverso se non opposto. Tra queste ultime è particolarmente importante il ritorno all’agricoltura di un certo numero di giovani che scelgono l’attività agricola pur essendo in possesso di titoli di studio in altre discipline. Si tratta per ora di fatti  numericamente poco rilevanti e certo non in grado di compensare i fenomeni negativi che abbiamo richiamato. La risposta della giunta a queste nuove tendenze si è finora limitata a predisporre un progetto rivolto all’assegnazione di piccole aziende  attraverso bandi pubblici a giovani che ne fanno richiesta. Interessante come idea, ma troppo limitata e in un certo senso superata soprattutto se si tiene conto delle tendenze di mercato che abbiamo citato. È infatti abbastanza evidente che non basta un progetto limitato a poche aziende  – e per di più costituite da lotti della riforma agraria abbandonati dagli assegnatari per la difficoltà incontrata nelle gestioni –  per incentivare i giovani a tornare alla terra. Un progetto così modesto non può dare i frutti sperati e non potrà che realizzare obiettivi limitati. E perciò andrebbe sospeso, ripensato e collocato all’interno di un grande piano organico all’altezza dei tempi, non condizionato da finalità contingenti e da una generica e superata concezione assistenziale, che però resiste nonostante tutto e si aggiunge alle insistenze di certi ambienti nel difendere vecchie soluzioni legate più alle problematiche del secondo dopoguerra e alle ormai anacronistiche e inutili diatribe sugli usi civici, sulle terre comuni, sulla proprietà perfetta, sulle chiudende, sul peso della rendita fondiaria e della proprietà assenteista, sulla difesa del mercato locale e la superiorità qualitativa dei prodotti sardi rispetto a quelli importati piuttosto che alle nuove domande delle giovani generazioni, più orientate ai cambiamenti. Molti giovani aspiranti agricoltori hanno capito lo spirito del tempo e l’esigenza di procedere a una grande riforma del settore che comprenda gli strumenti operativi, le tecnologie, l’organizzazione aziendale, le nuove produzioni, gli strumenti per stare nel mercato adeguando a questi fini le strutture pubbliche, a cominciare dall’assessorato e dagli uffici della Regione per arrivare alle infrastrutture, alla ricerca scientifica, alla sperimentazione, in sostanza a una politica diretta a riformare l’intero settore, che deve essere considerato essenziale per trasformare l’attività agricola nel volano di un nuovo sviluppo, che non può affermarsi con i vecchi sistemi ma solo realizzando cambiamenti profondi sia nella mentalità delle nuove generazioni sia nel mercato globale. Il sistema è diventato più complesso, un universo molto differenziato che continuiamo forse impropriamente a chiamare agricolo, che del vecchio sistema agricolo ha il suolo, l’ambiente naturale, gli animali e quant’altro serviva per svolgere questa attività nel passato e che serve ancora nel presente e nel futuro ma solo se si creano gli strumenti per affrontare le esigenze emerse con il progresso tecnico-scientifico, culturale, globale, che richiede una politica all’altezza dei tempi, richiede un piano di grande cambiamento, che li comprenda tutti, un piano che ho sintetizzato nell’espressione forse generica ma immediatamente comprensibile di “nuova riforma agraria”.

2. Da quanto ho detto prima emerge con sufficiente chiarezza che se è innegabile che anche in Sardegna l’agricoltura ha fatto importanti passi avanti è però altrettanto innegabile che le cose da fare per realizzare un processo di ammodernamento e di adeguamento in coerenza col progresso tecnico e con le condizioni del mercato, oltre a non essere più le stesse richieste nel passato non sono neppure iniziate nonostante che tutti i comparti chiedano nuove politiche, non solo quello cerealicolo e quello zootecnico ma anche quello vitivinicolo e olivicolo, per citare i più noti. Tutti chiedono profonde riforme nelle strutture dell’informazione, dell’assistenza tecnica, del credito, dell’istruzione media, superiore e universitaria, della commercializzazione, della difesa del suolo e delle biodiversità. La politica agricola è invece sempre la stessa da anni, prevalentemente orientata, come già detto, in termini assistenziali  e questo avviene, bisogna riconoscerlo, anche per l’atteggiamento tradizionalista della maggioranza non solo delle imprese ma anche delle associazioni, che a volte appaiono arroccate su posizioni tradizionali a difesa dei mercati locali dall’invasione dei prodotti esterni nell’illusione che basti ridurre le importazioni per rivitalizzare e rendere più redditizio il lavoro degli addetti, senza riflettere abbastanza che se la produzione si orientasse prevalentemente a soddisfare il mercato locale, sarebbe un disastro per tutto il settore ma soprattutto per due dei principali prodotti: il formaggio e il vino che come è noto hanno bisogno per crescere e affermarsi di un mercato aperto e non di un sistema chiuso o come si diceva una volta “autarchico”.

Le conseguenze di un sistema chiuso, di una politica agraria “autarchica”, sono la crisi della cerealicoltura, dell’orticoltura e della frutticoltura che hanno nell’orientamento a produrre per il mercato locale la causa più rilevante.

La crisi della cerealicoltura ha reso la presenza dei contadini in larghe zone dell’isola sempre più marginale, ridotta a poche migliaia di addetti impegnati a coltivare spazi di terreno sempre più ristretti per produzioni destinate al consumo familiare e locale più che al mercato esterno, naturalmente con qualche eccezione.

Ma non è solo questa la causa della difficoltà dei contadini, la ragione che li ha portati a sparire quasi del tutto da tutte le campagne sarde, anche da quelle che sono state la causa delle guerre puniche. Ce ne sono tante altre come ho detto e come è noto da tempo da chi segue l’evoluzione del settore.

Guardando le campagne sarde, anche quelle tradizionalmente dominate dalla cerealicoltura, come il medio e basso Campidano è difficile provare la stessa sensazione del geografo francese J. Sion, che secondo quanto riportato nel libro di Le Lannou avrebbe esclamato contemplando le grandi distese di grano: «ora capisco il perché siano state combattute le guerre puniche». Nelle pianure non solo del Campidano ma di tutta la Sardegna c’è sempre meno grano, meno cereali, meno fave e più pecore. Anche questo conferma l’idea che per uscire dalla crisi occorre cambiare il vecchio modo di ragionare e cominciare ad agire, aprendosi al nuovo senza rinnegare l’antico ma neppure fermarsi a rimpiangerlo.

L’interesse generale della Sardegna impone che si faccia tutto quello che serve per fermare il declino e rovesciare le tendenze negative espresse dai fatti e confermate dai dati statistici incontrovertibili.

Vediamone alcuni: la produzione complessiva del comparto cerealicolo copre a malapena il 20-25% del fabbisogno isolano; un po’ meglio si presenta il comparto olivicolo, che resiste alla concorrenza degli spagnoli, dei greci e dei magrebini oltre a quella delle regioni italiane del Mezzogiorno. La coltivazione delle barbabietole da zucchero è scomparsa, quella dei pomodori ridotta sensibilmente. Solo i carciofi resistono almeno per ora. Pesche, agrumi, pere, mele, mandorlo, noci, nocciole, fichi e castagne sono sempre più scarsi.

Il settore vitivinicolo sembra quello più vitale e moderno. Ma la viticoltura rappresenta con i suoi 500.000-600.000 ettolitri appena l’1% della produzione nazionale. Una quantità molto al di sotto delle potenzialità dell’isola e delle possibilità di collocamento nel mercato mondiale. La stampa locale esalta i notevoli successi registrati dai vini sardi in Italia e nel mondo e i produttori sembrano entusiasti di partire alla conquista degli enormi mercati internazionali trascurando di considerare i limiti posti dalla scarsità del prodotto. Sin sono fatti grandi passi avanti nella qualità e nella presentazione dei prodotti ma non si può dire altrettanto per l’aumento della produzione che è sempre modesta nonostante si sia parzialmente sbloccata la possibilità di impiantare nuovi vigneti.

3. Tutto quanto detto conferma l’esigenza, già espressa, di un cambio di strategia, di una nuova visione, di un piano organico pensato per rendere l’agricoltura sarda più dinamica e più in linea con le domande e le condizioni del mercato.

Il piano deve comprendere le linee per la riforma di tutte le strutture della pubblica amministrazione, nuove forme e nuovi strumenti di credito e di sostegno societari e di assistenza all’esportazione, la creazione di aziende sperimentali e di impianti energetici integrativi del reddito agricolo e di tutte le altre iniziative necessarie per riformare le strutture pensate per una realtà economico-sociale che non esiste più e se esiste non sopravviverà ai grandi cambiamenti che si preannunciano. L’azione della regione andrebbe supportata meglio dall’Università con le sue facoltà di Agraria, Veterinaria, Scienze naturali. Legare insieme scienza e lavoro agricolo è indispensabile per immettere nell’agricoltura nuove forze dotate di nuove competenze. Ma andrebbero anche creati nuovi organismi tipo Crs4 che si occupino esclusivamente di utilizzare le proprietà delle risorse naturali, delle esperienze e dei prodotti de “su connottu” per creare produzioni in linea con le esigenze del mercato.

Le riforme avviate e quelle annunciate non sembrano corrispondere a queste esigenze ma piuttosto a quelle maturate negli ultimi decenni del 900. Il ritardo della nuova visione è confermato dalla recente riforma dell’Ente foreste che ha cambiato il nome in “Forestas” ma ha conservato sostanzialmente una sorta di separatezza dal sistema nel suo complesso con la riconferma delle funzioni e della missione ereditate dal secolo scorso, per di più appesantite dal carico di seimila dipendenti, la maggior parte operai di cantieri destinati più a ridurre la disoccupazione derivata dalla diminuita capacità occupativa del settore agro-zootecnico, che ad affrontare i problemi del settore ambientale, insieme cioè con quella che avrebbe dovuto costituire la nuova moderna missione dell’Ente, emersa chiaramente nel nostro precedente convegno sull’ambiente nel quale anche io avevo segnalato l’urgenza di un’organizzazione dell’intera strumentazione del settore pensata ex novo per attuare una politica ambientale incisiva e moderna rivolta a garantire il rispetto del principio della sostenibilità dello sviluppo con un più attento controllo dell’uso del suolo, dei consumi idrici, dell’uso dei pesticidi e di diserbanti, dello smaltimento dei rifiuti, delle emissioni di CO2, della qualità dei concimi, dei residui delle lavorazioni, della qualità dei mangimi, dell’uso distruttivo dei pascoli e dell’incidenza negativa sull’ambiente di tanti altri elementi quasi completamente ignorati come l’impiego  degli OGM, la progressiva sparizione di specie naturali a danno della biodiversità e tanti altri che non è necessario richiamare. È vero che di alcuni di questi problemi si dovrebbe occupare l’Arpas ma è proprio l’irrazionale e anacronistica divisione dei compiti che porta quasi a ignorarsi l’un l’altro che andrebbe rimossa per poter governare le questioni ambientali nel  loro insieme.

Sono sempre più convinto di quanto sostenuto in quel convegno. Il fattore ambientale insieme a quello agricolo dovrebbe diventare centrale in tutte le politiche regionali, il punto archimedeo sul quale poggiare la leva dello sviluppo. Non basta però condividere questo a parole. È urgente una conferma nei fatti e questo è possibile solo con la riforma della politica agricola e ambientale, già prevista cinquant’anni fa nel piano quinquennale di rinascita, purtroppo largamente disatteso forse perché in anticipo con i tempi e con la mentalità dominante. Sarebbe ora però, dopo tanto tempo, di convincersi che una delle cause più importanti della crisi agricola è stata l’abbandono della visione organica e del coordinamento, incautamente sostituiti con gli interventi dispersivi tradizionali e con una politica assistenziale che infatti continua a vagare nel labirinto della crisi cercando a tentoni la via d’uscita, lasciando in questo modo le sorti dell’isola nelle mani di un mercato che, senza l’uso di strumenti capaci di correggerne le distorsioni e aiutare le aziende sarde in modi concordati con la UE, a competere con il resto del mondo, così come richiesto dalla globalizzazione e dalla libera circolazione delle merci, non può che rendere permanente e irreversibile il declino in corso.

Non voglio essere frainteso e considerato un distruttore del passato. Perciò ho intitolato il mio intervento “Su nou e su connottu” per cercare di chiarire che la politica deve valorizzare l’esperienza e allo stesso tempo sostenere il nuovo. La politica agricola non dovendosi più preoccupare come nel passato di incidere sulla distribuzione della terra, sulla riduzione delle rendite fondiarie, sulla riforma dei patti agrari, sull’eliminazione del conflitto pastori-contadini, ecc., può e deve puntare a ridurre le nuove diseconomie, eliminare gli intralci della burocrazia e soprattutto modificare le condizioni strutturali che rendono la nostra agricoltura incapace di tenere il confronto con il resto del mondo. La nuova politica deve cioè ridurre il peso di tutto ciò che frena, che intralcia, che appesantisce, che complica la vita dei produttori, deve allo stesso tempo puntare a creare le competenze, i mezzi, le strutture, i capitali e quanto altro occorre per entrare nel nuovo tempo più attrezzati e più sicuri.

Evitare di condannare in blocco il passato non significa che si deve confidare troppo ottimisticamente sulla tenuta di sistemi che appaiono sempre più deboli, più testimonianze del vecchio mondo che strutture attive del nuovo tempo.

Per riuscire realmente nell’impresa di valorizzare tutte le componenti vitali della società sarda e in particolare gli elementi costitutivi bisogna evitare di  “museificarli”, bisogna conservarne la natura fondamentale e aggiungere il nuovo, saldare il nuovo con l’antico: “su nou chi su connottu” inserendoli nella civiltà post-moderna con gli strumenti della tecnica.

4.Tutto il discorso fin qui svolto vale per l’intera Sardegna ma riguarda soprattutto le zone interne alle quali la seconda modernità sembra incapace di garantire un futuro migliore. Lo spopolamento e l’abbandono sono i segni più evidenti ma non i soli che segnalano che è in atto una rottura epocale, e dicono chiaramente che potrebbe diventare inarrestabile se prevalesse una visione limitata che porterebbe come già detto alla museificazione del territorio , riducendo sensibilmente le potenzialità economiche del patrimonio etnico-culturale. L’unica strada per evitarlo è fare in modo che gli antichi beni preziosi vengano non solo protetti e utilizzati ma in qualche modo migliorati, fatti diventare parte integrante del sistema di produzione post-moderno facendo in modo che da beni locali diventino beni globali.

Lo dobbiamo a noi stessi ma lo dobbiamo soprattutto alle nuove generazioni che hanno diritto di pretendere di vivere in un mondo dove sia loro possibile partecipare alla realizzazione di un modello di sviluppo che richiede nuove competenze e nuovi strumenti unendo antico e moderno non per il mercato ma per realizzare un riscatto atteso da tanto tempo, rivendicato e sperato ma mai raggiunto.

Nel passato abbiamo sperimentato altre strade, abbiamo fatto importanti progetti originali e coraggiose esperienze di tipo industriale che hanno creato prima grandi speranze e poi grandi delusioni, provocato disagi duri da sopportare e causato ferite ancora aperte. Sarebbe sbagliato dopo questi insuccessi pensare che non c’è niente da fare per includere le aree interne nel grande fiume della prima e della seconda modernizzazione, salvando quanto di valido resta della civiltà agropastorale di cui abbiamo parlato e dell’intero mondo rurale che coincide con le zone interne. Perché l’impresa riesca occorre rimuovere le cause degli insuccessi dei precedenti progetti e soprattutto è necessario mettere in campo un nuovo progetto al’altezza dei tempi nuovi.

Ciò vuol dire che non dobbiamo solo accusare o protestare, ma dobbiamo agire impegnando tutte le nostre forze perché la crisi in atto non diventi irreversibile, non condanni al definitivo declino e spopolamento due/terzi dell’isola, ma apra la strada a uno sviluppo moderno che non può venire, lo ripeto, dalla creazione di un grande museo a cielo aperto ma da un’economia viva e vitale che veda le popolazioni diventare protagoniste della seconda modernizzazione, utilizzando la cultura de “su connottu” non come folclore inerte, anche se carico di fascino, ma come una risorsa viva che concorre a creare una nuova civiltà più efficiente, più giusta, più equa e più solidale.

 

Terza parte

1. A questo punto è opportuno fare un breve accenno ai profili internazionali indicati nel tema del convegno e sottolineati dalla partecipazione di alcuni esperti del Maghreb.

Non posso sviluppare ampiamente questo tema non perché lo ritenga estraneo o marginale, ma al contrario perché penso che esso meriti un esame non frettoloso o superficiale. Ma vista l’importanza dello scenario geopolitico nel quale noi e loro operiamo non parlarne per niente sarebbe sbagliato.

Le esperienze antiche e anche quelle più recenti ci insegnano che ci sono molti punti in comune fra la Sardegna e le aree mediterranee del Maghreb e in particolare della Tunisia. Anche se volessimo non potremmo dimenticare che Cartagine ha dominato la nostra isola per qualche secolo, ha costruito città, creato colonie agricole e molte altre attività che ancora segnano il nostro paesaggio e secondo alcuni studiosi anche il nostro carattere nonostante siano trascorsi due millenni e si siano alternati nel tempo diversi regimi politici e molti cambiamenti importanti nelle strutture religiose, culturali e produttive.

Il tema dei rapporti con i paesi extracomunitari, compresi quelli della sponda africana del Mediterraneo, rientra inoltre nel quadro più ampio imposto dalla globalizzazione, della quale ho parlato a lungo. Vi rientra in linea generale anche se è evidente che per molti aspetti si differenzia dagli altri che ho richiamato per la prossimità territoriale e per la somiglianza di alcuni prodotti comuni alle due economie che inevitabilmente si presentano come concorrenziali tra loro e creano qualche tensione. Lo abbiamo constatato anche di recente quando la semplice notizia di un contingente di olio d’oliva importato dal Maghreb esente imposte provocò una dura polemica nella stampa locale. L’importanza del problema è più chiara se si pensa che non è solo l’olio d’oliva in potenziale concorrenza con il nostro ma lo sono quasi tutti i prodotti agricoli: cerealicoli, frutticoli, orticoli a anche zootecnici.

Ci sono state e ci sono in corso molte analisi e approfondimenti su questi temi, oltre a quelli esposti dai relatori presenti al convegno. Essi ci dicono che la Sardegna condivide con i paesi mediterranei molte delle problematiche geopolitiche in quanto noi e loro siamo un anello debole, soprattutto se ciascuno pensa solo a sé stesso e non si creano nuove forme di collaborazione, ben sapendo che l’Europa reale di oggi non è l’Europa degli antichi che aveva al suo centro il mar Mediterraneo, Roma come capitale, il latino e la cultura cristiana come elementi unificanti.

L’Europa di oggi non comprende la sponda africana né quella asiatica, entrambe assorbite dall’universo che siamo soliti chiamare “islamico”, con tutto ciò che questo comporta e che noi conosciamo perché, già prima dell’anno 1000, quando l’Islam comprendeva una parte considerevole della Spagna, dei Balcani, della Sicilia, la Sardegna ha dovuto difendersi ma anche cooperare con il vicino Maghreb.

Tutto questo fa parte della memoria, è impresso nell’identità dei diversi popoli e non rende facile considerarli uguali agli altri europei anche perché il colonialismo ha lasciato molte ferite e la comparsa più recente dei fondamentalismi religiosi e politici accentua le grandi differenze e le ostilità che ci dividono.

Ma nonostante tutto questo ci sono interessi e problemi comuni di cui noi dobbiamo farci carico consapevoli che la sorte dell’Europa e ancor più della Sardegna è fortemente collegata con il mondo islamico mediterraneo e soprattutto con il Maghreb.

Dobbiamo fare di tutto per  evitare contrapposizioni ostili e non limitarci a iniziative isolate, episodiche, volontaristiche o di natura culturale, turistica, archeologica, ma agire da un punto di vista più ampio, politico e economico, realizzando patti e azioni comuni per difendere interessi convergenti e per meglio far fronte ai problemi drammatici più recenti imposti dalle migrazioni. Ciò richiede una stretta collaborazione che superi le diffidenze, le incomprensioni e le divergenze che indeboliscono entrambi nei difficili e tutt’altro che scontati confronti con l’UE, nella quale come è risaputo e dimostrato, dominano le questioni poste dai paesi più forti, Francia e Germania in particolare.

È difficile ma non impossibile anche il compito più urgente di trasformare in elementi di forza le grandi emergenze della geopolitica tra le quali non ultima va collocato il problema delle incontrollate migrazioni. Occorre lavorare insieme per conseguire una riduzione significativa del numero dei migranti per evitare l’aumento dell’instabilità, dell’insicurezza, della permanente conflittualità in tutto il bacino del Mediterraneo.

È interesse nostro e di tutta l’Europa avviare una politica rivolta a non penalizzare  le economie dei paesi extracomunitari, a cominciare da quelle dei paesi maghrebini che anzi vanno aiutati e sostenuti nei programmi di sviluppo, che sono l’unico vero rimedio alle migrazioni. Serve cioè più lungimiranza e più coraggio da parte di tutti, anche da parte nostra, e ci dobbiamo tutti augurare che questo avvenga.

Non dobbiamo aver paura che l’agricoltura del Maghreb, se cresce e migliora, ci danneggi. Anzi dobbiamo pensare e fare in modo che la sua crescita diventi in qualche misura un obiettivo comune, che richiede naturalmente un indirizzo, un coordinamento e una verifica costante dei patti e una loro reale attuazione.

2. La geopolitica ha allargato il discorso fin qui svolto sull’agricoltura e ci ha fatto capire che non tutto dipende da noi ma da fattori e interessi molto più vasti e complessi. Questo rende il compito della politica molto più impegnativo e difficile ma possibile e soprattutto necessario se vogliamo guardare al futuro con fondata speranza.

Il cammino dell’uomo non è ancora giunto alla fine. Molti segnali vanno in direzione di un’Apocalisse sempre più imminente. Altri invece annunciano l’inizio di un nuovo tempo, indicano che la strada per conseguire nuove conquiste; mostrano orizzonti nuovi e indicano che obiettivi che sembravano irrealizzabili sono alla portata della mente umana; mostrano che sono possibili progressi finora impensabili nella condizione di vita, nell’uguaglianza, nella giustizia, nell’equità, nel rispetto dei valori umani, nella dignità e nella fraternità di tutti senza distinzione; lasciano intravvedere la conquista di  nuovi spazi, nuove conoscenze, nuovi territori e persino nuovi mondi.

Sperare in un futuro diverso non deve essere considerato tempo sprecato a inseguire illusioni per poi passare il tempo a lamentarsi degli insuccessi come è avvenuto per certi progetti elaborati nel passato in agricoltura, nell’industria, nella condizione urbana e in quella rurale. Gli insuccessi fanno parte dell’ordine naturale della vita. Ogni cosa nasce e muore, ci sono stati e ci saranno sempre successi e insuccessi. Ma è vero anche che molte cose sono cambiate in meglio: la società ha progredito, la condizione umana è migliorata. Questo ci autorizza a sperare che le nuove aspettative nate dall’esperienza che chiedono di colmare i vuoti e correggere le distorsioni possano essere realizzate in tutto o in parte nel nuovo tempo da una nuova classe dirigente, forse non da noi, ma dai nostri figli e dai figli dei figli.

Nessuno fermerà il cammino della tecnica moderna come nessuno ha fermato l’uso del fuoco donato da Prometeo agli uomini dopo averlo sottratto agli dei anche se si sa che la tecnica avrà come conseguenza la diffusione dei mali in essa nascosti, come è successo con quelli contenuti nel vaso di Pandora.

Il progresso tecnico però non si è fermato allora e non si fermerà oggi davanti ai pericoli annunciati o temuti. Andrà avanti con conquiste sempre nuove, con scoperte e applicazioni oggi impensate che niente e nessuno può fermare.

Questo è il punto obbligato del vivere umano. Tocca a tutti ma soprattutto a chi ha la responsabilità maggiore fare in modo che la tecnica non uccida l’anima dell’uomo, non cancelli le conquiste del passato, non distrugga i valori, la memoria, l’identità.

L’esperienza, anche quella legata ai sogni svaniti, è utile per evitare nuove delusioni e per resistere a forze ostili. Per questo penso che per non essere completamente dominati dalla tecnica, per non perdere l’identità e non essere totalmente omologati al resto del mondo, è essenziale unire il patrimonio che chiamiamo “su connottu”, che naturalmente comprende anche le ultime esperienze, con il nuovo in via di formazione e che ancora non si conosce. E ciò sarà possibile  se ritroviamo la fiducia in noi stessi, se saremo capaci di affrontare il nuovo tempo non impreparati o disarmati ma con i mezzi e le forme necessarie per far nascere il nuovo senza distruggere il patrimonio antico che costituisce la specificità e l’identità comunitaria.

3. Nel precedente convegno ho citato E. Kant per dire che non esistono concetti senza esperienza né esperienza senza concetti. Lo ripeto anche oggi. Tutti possiamo vedere che l’esperienza ha modificato il nostro orizzonte di aspettative, ha creato nuove speranze e nuovi concetti che dovranno orientare la nuova esperienza.

Parole antiche hanno assunto nuovi significati. Anche le parole agricoltura, pastorizia, ambiente, paesaggio, natura oltre alle parole libertà, giustizia, sviluppo, benessere contengono nuovi significati collegati alle nuove attese nate dalle nuove esperienze. Questo vale per i politici, per gli intellettuali ma vale anche per il pastore, per l’agricoltore, per il viticoltore, per l’ortolano, per il giovane agronomo, per il chimico, per il veterinario, per il medico, per l’archeologo, per il botanico, per l’artista, vale per gli uomini e per le donne, per tutti.

I nuovi significati non devono cancellare quelli antichi. E se è sbagliato vivere il nuovo tempo secondo le strutture concettuali e valoriali prodotte dall’antica esperienza è altrettanto sbagliato ignorarle affidandosi interamente alle strutture concettuali e valoriali imposte dalla tecnica che ha ampliato l’orizzonte delle attese e cambiato i modelli di vita non sempre nel rispetto di tutti i diritti umani.

Il passaggio che viviamo è molto più rapido e radicale di tutti quelli che l’hanno preceduto. È più difficile, più complesso e in parte fuorviante. Sta a chi guida evitare i guasti maggiori tra i quali la scomparsa del patrimonio costruito nel lungo tempo della nostra storia.

Evitare che questo avvenga è molto importante ma sarebbe sbagliato opporsi a tutti i cambiamenti. Occorre agire con coraggio, saggezza e lungimiranza rispettando il principio di precauzione ma tenendo presente che il rifiuto del nuovo è impossibile e comunque senza sbocco, senza alcuna prospettiva, senza futuro.

Chi non lo condivide sarà costretto ad assistere impotente alla scomparsa del vecchio mondo senza vedere il nuovo. Si rinchiuderà sempre di più dentro un mondo diventato folclore anche in quelle parti che per secoli sono state il cuore pulsante delle comunità.

Per evitare questa “catastrofe” culturale e antropologica la nuova politica dovrà, lo ripeto, unire il nuovo e l’antico e dovrà riempire le parole antiche di nuovi significati e dovrà aprire nuovi orizzonti, sapendo che c’è la legge naturale della resilienza a regolare la convivenza uomo-natura e difendere i diritti di entrambi i mondi, quello umano e quello naturale. Spetta però all’uomo e non alla natura usare le possibilità offerte dalla resilienza, trovare il modo più efficace per garantire la convivenza tra questi due mondi che può essere travolta dall’irrompere senza freni e senza limiti nella vita del nostro pianeta della tecnica moderna. Le modalità vanno ancora scoperte e sperimentate ma bisogna far presto perché la tecnica è in azione sempre e ci costringe a prendere atto che il cambiamento di quello che siamo soliti chiamare “su connottu” è inevitabile e che il suo nucleo vitale può essere salvato solo se il processo rimane sotto il controllo dell’uomo. Questo vuol dire che per fermare il declino delle zone interne non è sufficiente la resilienza ma è indispensabile l’opera attiva dell’uomo. Non basta neppure che le nuove generazioni  intraprendano un lavoro agricolo innovativo nelle tecniche, nei prodotti, nei sistemi di lavorazione e commercializzazione, nel pluriuso della terra e delle strutture aziendali se si lascia al mercato a allo spontaneismo individuale la soluzione dei problemi che stanno portando allo spopolamento. Per invertire la tendenza occorre rafforzare l’azione pubblica, occorre predisporre e attuare una serie di interventi di natura infrastrutturale, ambientale, culturale e sociale. Occorre anche e soprattutto riformare l’intero sistema politico-istituzionale e l’azione amministrativa; occorre una nuova visione del ruolo dei servizi sanitari, scolastici, dei beni culturali; occorre rendere le zone agropastorali meno periferia e più centro, meno in ritardo e più aggiornate, meno dedite alla monocoltura e più diversificate e ricche di occasioni di lavoro moderno. Occorre sostenere le vocazioni individuali e indirizzarle a realizzare una struttura  produttiva fondata su forme di collaborazione, che potremmo chiamare “sociali di mercato”, capitalistiche e tecnicamente avanzate ma anche radicate nel tessuto sociale locale ed estese a tutti i settori, a cominciare da quello agricolo.

Costruire un’agricoltura sociale di mercato può rendere più facile la presenza nelle zone interne dell’industria 4.0 di ultima generazione; del terziario avanzato e di altre attività orientate a difendere la sostenibilità ambientale e l’equità sociale e sarà più facile promuovere la partecipazione responsabile di tutte le componenti sociali al processo produttivo, facendo in modo che capitale e lavoro collaborino lealmente alla costruzione di un sistema che porti all’equa distribuzione dei profitti e al rispetto dei valori sociali, di quelli tradizionali, di quelli moderni e di quelli post-moderni.

4. Da tutto quanto abbiamo detto finora emerge chiaramente che la nuova politica agraria non si dovrà limitare come nel passato a distribuire terreni e organizzare bonifiche e miglioramenti fondiari e costruire infrastrutture. Dovrà affrontare un compito più vasto e impegnativo che consiste nel trasformare l’agricoltura tradizionale in uno strumento costruito per contribuire a raggiungere l’obiettivo più importante, che consiste nel superamento dell’esclusione delle zone interne a prevalente economia rurale dai processi di sviluppo post-industriale e dall’uso dei nuovi beni materiali e immateriali, consiste nel non lasciare tutto alle tendenze di un mercato che appare sempre più dominato dall’attività speculativa della finanza internazionale e dall’egemonia della tecnica che lasciate senza freni né controlli accentueranno e renderanno irreversibile, come ho sottolineato più volte, il declino delle aree deboli che diventa inevitabile senza un cambio di paradigma, che tutti a parole diciamo di volere ma che nei fatti, a cominciare da quelli della politica, tarda a comparire.

Occorre agire per diversificare l’economia delle zone interne sapendo che le nuove tecnologie e i nuovi sistemi di produzione anche in agricoltura lasciati a un mercato senza controlli non aumenteranno l’occupazione ma semmai la diminuiranno, come è avvenuto nelle zone in cui l’agricoltura in tutti i suoi vari comparti ha ben altra dimensione e qualità della nostra. Sarà perciò importante che la politica trovi i modi adatti per aggiungere alle attività di produzione agricola, imprese industriali che trasformino in loco i prodotti. Ma ancora più importante è ampliare l’orizzonte delle attività verso campi nuovi che valorizzino le competenze tecniche dei più giovani e gli offrano la possibilità di realizzare i loro sogni.

È dimostrato da altre numerose esperienze che la crescita dell’agroindustria e delle attività turistiche legate ai beni culturali non è sufficiente per creare un nuovo sviluppo. Non basterà neppure trasferire nelle zone interne le strutture, gli uffici, gli apparati di ricerca, tutto ciò che è legato strettamente all’agricoltura ed è localizzato nelle maggiori città. Occorre tutto questo ma inquadrato in un grande piano secondo una nuova visione e si potrebbe dire, un nuovo sogno, capace di mobilitare tutti, risvegliare le coscienze, alimentare nuove vocazioni, superare tutti i dubbi, anche quelli che nascono da una ragione scettica che spinge a pensare che sia impossibile trasformare i sogni in realtà.

Il piano di cui parlo non è un’utopia irrealizzabile ma un’utopia concreta che punta a creare una Sardegna unita avendo la consapevolezza che se questo non dovesse accadere il declino continuerà inesorabile la sua strada che non è detto si fermi alle zone interne.

Bisogna quindi partire dal considerare la Sardegna una realtà unitaria non solo sul piano tecnico, nel campo idrico, dei trasporti, dell’energia, dei rifiuti, dell’istruzione, della sanità, dei servizi portuali, dei servizi finanziari, delle imposte e di molti altri settori ma soprattutto sul piano culturale-sociale, politico e istituzionale, cioè come una comunità unica e inscindibile di storia, di cultura e di destino.

Aver diviso la Sardegna creando un’area metropolitana, una unione di città medie e una serie di piccole unioni tra comuni in declino, è il frutto di una visione incoerente con le finalità cui abbiamo fatto riferimento, ha fatto riemergere vecchie paure e sospetti, ha creato nuovi problemi e ha complicato quelli antichi, rendendo più difficile elaborare, approvare e attuare un progetto comune. Bisogna convincersi che cambiare un destino che appare ineluttabile è impossibile se non cambia l’orizzonte nel quale si colloca l’attività della comunità, se la politica non affronta il problema dell’intero assetto territoriale-amministrativo, se per esempio la riforma del sistema amministrativo e dei servizi e le leggi urbanistica e quella elettorale in fase di studio ignorassero questi problemi e non provvedessero a correggere almeno in parte la divisione che si è creata tra le varie parti dell’isola con i provvedimenti assunti finora.

Bisogna dunque cambiare prima di tutto la politica, per orientarla a includere tutte le popolazioni nel processo decisionale, modificando a questo fine innanzitutto le regole per la selezione della rappresentanza. Occorre essere consapevoli che se questa continuasse a venire espressa in proporzione alle popolazioni residenti nelle varie zone dell’isola non potrebbe che essere espressione delle città e quindi orientata a risolvere prioritariamente i loro problemi e solo dopo quelli delle aree interne.

Questo tema non è esplicitamente indicato tra quelli del convegno ma ne fa legittimamente parte perché è elemento costitutivo di una politica che voglia le grandi diseguaglianze tra i vari territori che invece aumenteranno se la politica non si preoccuperà tanto della marginalizzazione e dello spopolamento di territori poco rappresentati quanto piuttosto di quelli che hanno espresso il maggior numero di rappresentanti.

In una società come quella sarda, in preda a una crisi d’identità oltreché a una grave crisi economica, tutto si tiene e non basta per superare la malattia curare alcuni sintomi del male lasciandone da parte altri anche se più importanti, perché ciò aggrava la malattia e non favorisce certo la ricostruzione della fiducia perduta dalle popolazioni delle zone interne nei confronti delle istituzioni e della politica.

5. A questo punto la domanda d’obbligo è quella di sempre: che fare? La risposta non può che essere di sintesi e di genere qualitativo. Essa è già nel titolo dell’intervento che comprende il percorso, il metodo e i contenuti; indica una strada per unire “su nou e su connottu”, per rispettare l’esperienza e valorizzare quanto in essa è ancora valido, attuale, utile ed efficace perché il futuro sia meno incerto e meno diseguale per tutte le persone e per tutti i territori; per non perdere l’identità costruita nei secoli per evitare i conflitti tra nuovo e antico che hanno provocato rigetto e insuccessi. Dice anche che bisogna tornare all’elaborazione di una programmazione generale unitaria, ricollocare i problemi della Sardegna nel più vasto scenario globale e in particolare del Mezzogiorno; andare oltre l’orizzonte regionale e ragionare in termini geopolitici più larghi, come già detto a proposito dei rapporti con i paesi mediterranei della sponda asiatica e africana. Dice che occorre essere uniti e solidali tra noi per sconfiggere le ragioni che hanno impedito alla Sardegna di uscire dal sottosviluppo. Ma dice anche che una parte molto consistente di queste ragioni è la stessa di tutta l’Italia meridionale, deriva dalla posizione geografica, dai rapporti internazionali, dall’insufficiente dotazione infrastrutturale complessiva, dalle difficoltà nelle comunicazioni e negli scambi, dal basso livello della cultura tecnica, da un mercato lasciato a sé stesso e persino dai pregiudizi che da sempre condizionano la vita sociale del mezzogiorno e le politiche per il Sud e che tutto questo richiede una nuova politica meridionalistica che comprenda anche la Sardegna. Dice inoltre che dobbiamo tornare allo Statuto speciale, ed in particolare a un nuovo piano di sviluppo secondo l’art. 13, che pone in capo allo Stato con il concorso della Regione l’adozione e l’attuazione di programmi organici per promuovere la rinascita dell’isola. Dice che è sempre necessaria la solidarietà e l’impegno dello Stato, ma dice anche che dobbiamo tornare a essere noi i protagonisti e la guida politica del processo diversamente da quanto succede nella politica di oggi che appare sempre più dominata dallo Stato con le sue agenzie, strutture ministeriali, patti, contratti, firme, cerimonie, inaugurazioni, concessioni di grazie e benevolenze accompagnate da spettacolari cerimoniali messi in scena al solo scopo di ottenere consenso, anche lasciando inalterate le cause più profonde del malessere.

Detto ancor più chiaramente per quanto mi riguarda penso che bisogna tornare a praticare una politica e una governance più sobria con meno firme di patti, meno cerimonie, meno inaugurazioni, meno parole di circostanza e più fatti. Penso sia bene tornare alle migliori tradizioni autonomistiche del passato, utilizzandole secondo le finalità e gli obiettivi richiesti dalla nuova società e secondo le attese nate dall’esperienza, definite dalla nuova struttura di valori e dall’orizzonte di aspettative cresciute in questi anni sia per effetto dei risultati positivi raggiunti sia per effetto delle crisi che hanno colpito vaste zone territoriali, alcune categorie sociali e alcuni settori produttivi tra i quali quello di cui ci stiamo occupando oggi, cioè l’agricoltura che come abbiamo detto coincide con le zone interne e coinvolge i 2/3 del territorio e circa la metà della popolazione della Sardegna.

Penso che tornare al conosciuto significa non solo tornare alla politica di piano prevista nell’art. 13, ma significa anche individuare la nuova base per poggiare la leva archimedea dello sviluppo nella centralità delle risorse agricole, paesaggistiche e culturali, significa usare la saggezza delle comunità dei contadini e dei pastori e valorizzare quanto la loro millenaria esperienza ha prodotto, soprattutto quelle parti che hanno assunto con il tempo un significato identitario senza il quale non esisterebbe la Nazione sarda.

La politica più recente ha scelto una strada diversa da quella che ho indicato seguendo anche le tendenze nazionali e internazionali prevalenti, segnate da una forte egemonia del ruolo del mercato e da una modesta programmazione dal basso totalmente priva di un quadro generale di riferimento. Questa direzione non è cambiata neppure dopo la riforma del sistema delle entrate che avrebbe dovuto dare alla Regione la possibilità di ampliare le funzioni in alcuni campi, soprattutto nei servizi, ma non solo.

Lo stesso insuccesso è destinato ad avere una politica fondata su un generico e scontato principio di insularità perché le agevolazioni fiscali e la riduzione dei costi di transazione da sole non bastano pera far riprendere alla Sardegna la strada dello sviluppo che è possibile solo dentro il quadro più ampio che ho cercato di definire.

Purtroppo non ci sono segnali di cambiamento e di integrazione né di allargamento dell’orizzonte ed è evidente che le politiche fin qui praticate non hanno prodotto per la loro inadeguatezza nessuna novità in grado di fermare lo spopolamento delle zone interne, il declino delle attività agropastorali e, cosa più grave di tutte, la cancellazione di alcuni degli elementi costitutivi dell’identità della Nazione sarda, della sua unità e del suo destino futuro.

In questo senso, tornare a “su connottu” significa usare tutte le energie vecchie e nuove per evitare la catastrofe annunciata, riprendere la strada maestra della difesa dello Statuto, del rifiuto della dipendenza e della pelosa benevolenza, significa combattere la vassalleria post-moderna diffusa a tutti i livelli e riprendere la contestazione, aprire la mente e il cuore alla fiducia nel futuro e smettere di pensare che lo sviluppo ci venga dato in dono.

Bisogna difendere il proprio passato, difendere la storia della propria terra, essere orgogliosi delle tradizioni, amare i prodotti della civiltà agropastorale, vivere secondo i canoni del tempo antico, ma occorre fare di più. Bisogna cambiare, bisogna agire ma coerentemente e con coraggio anche rischiando di perdere qualche battaglia.

Il passato non può condizionare troppo il presente e il presente sbaglierebbe a leggere il futuro alla luce dei valori del passato. È difficile imboccare la nuova via ma imboccarla è essenziale per non sbagliare ancora. Sollecitare l’orgoglio e le passioni, contare sull’autostima delle antiche e mai piegate popolazioni dell’interno non basta; occorre dare sostegno alla loro testarda, pervicace, orgogliosa fiducia nei propri mezzi e nella forza della storia, dell’ambiente naturale e di un’esperienza di vita originale e diversa dalle altre. Ma occorre anche convincersi che tutto questo non è sufficiente a cambiare i corso degli eventi ma che per riuscirci è necessario che la classe dirigente dimostri di esistere, cioè elabori, approvi e attui un grande progetto, realizzi una visione, adempia una missione nuova chiamando all’impresa  l’intera comunità sarda. Tutto questo può sembrare un sogno, come ho già detto, ma è necessario credere che l’impossibile può diventare possibile, che il sogno di diventare protagonisti e padroni del proprio futuro si può realizzare se c’è il concorso di tutti.

Come già detto la prima cosa da fare è cambiare la politica e fare in modo che tutti possano concorrere a creare le condizioni per realizzare il grande obiettivo inseguito a lungo e mai raggiunto della libertà e dell’unità della Sardegna e dei sardi, fare in modo che tutti possano collaborare con le vecchie e le nuove competenze lealmente all’impresa.

Nessuno può assicurare che il sogno si realizzi, ma bisogna provare. Se l’analisi è giusta, se le doti di cui parliamo sono reali, se le comunità non hanno perso il senso del loro essere libere e forti, se l’identità ha mantenuto intatte le sue radici profonde, non è solo un sogno sperare che la sorte della Sardegna e delle aree interne possa cambiare e che l’intera comunità sarda possa guardare con più fiducia al successo di un programma che in fondo tende a riportare il futuro nelle sue mani.

 

 

 

 

 

 


[i] Maurice Le Lannou, Pastori e contadini di Sardegna, tradotto e presentato da Manlio Brigaglia, Edizioni Della Torre, 1979, con il patrocinio della Presidenza della Regione Autonoma della Sardegna

[i] Francesco Cetti, Storia naturale di Sardegna, a cura di Antonello Mattone e Piero Sanna, Ilisso, 2000

 

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