La cecità della sinistra su migranti e tecnologia, di Marco Cianca

È possibile che solo la Destra, vecchia e nuova, in un capovolgimento di fronti e di simboli, raccolga il grido di rabbia che sta assordando il mondo?

Il comunismo è nell’elenco delle tragedie. La socialdemocrazia assomiglia a un vecchio nonno, imbelle e con la lunga barba bianca. La terza via, quella di Tony Blair e Bill Clinton, in un’eterogenesi dei fini, ha portato alla Brexit e all’elezione di Donald Trump. La pattumiera della storia è piena di furori rivoluzionari, infantili idee di rivolta, sorpassati programmi di armoniosa convivenza civile, arroganti progetti di riforma sociale. La Sinistra, vecchia e nuova, vacilla. È identificata con le élite, l’establishment, i ricchi, il potere, le banche, la burocrazia, la casta. E la Destra, vecchia e nuova, in un capovolgimento di fronti e di simboli, raccoglie il grido di rabbia e di paura che sta assordando il mondo.

Il risultato delle elezioni negli Stati Uniti ha reso macroscopici, com’è stato detto e scritto, l’incapace autoreferenzialità dei mezzi d’informazione, il fallimento dei sondaggi, la crisi di rigetto nei confronti dell’inane linguaggio buonista. Non si può mettere la parrucca alla realtà. Quella che però manca è un’analisi approfondita e impietosa delle ragioni politiche, economiche ed esistenziali che stanno segnando il trionfo del populismo, nella sua accezione di sfiducia totale nei confronti delle attuali classi dirigenti, e la sconfitta del riformismo, in tutte le sue declinazioni.

Eppure i segnali erano ben evidenti. Ma dopo la caduta del muro di Berlino ci si è cullati nell’illusione che la democrazia, il mercato, il consumismo, il liberismo, l’integrazione, la globalizzazione avrebbero condotto l’umanità verso magnifiche sorti e progressive, per dirla con Leopardi. Ma come ammoniva lo stesso poeta citando i Vangeli, con ironico e profondo pessimismo, «gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce».

Già, le cose sono andate a ritroso. E concetti come razzismo, nazionalismo, protezionismo che covavano sotto la cenere degli anni Trenta hanno ripreso vigore e forza d’attrazione. Quando Trump annuncia di voler cacciare tre milioni d’immigrati più o meno delinquenti, suscita l’applauso appassionato di chi si sente insicuro e aggredito. Persino i metodi spicci del presidente filippino Rodrigo Duterte contro spacciatori, trafficanti e criminali possono suscitare ammirazione. È la legge dell’ordine a tutti i costi, l’irrefrenabile voglia di legalità che seppellisce ogni difesa dei diritti individuali.

Il neo presidente degli Stati Uniti nel suo primo discorso si è anche rivolto ai veterani. Hitler e Mussolini raccolsero il consenso dei reduci della Grande Guerra, derisi e umiliati da feroci pacifisti senza rispetto e comprensione per chi è morto sui campi di battaglia in difesa della Patria. Una subcultura che ancora alligna qua e là. Quanti errori, quante nefandezze, quanta miopia.

Trump vuole dar voce ai forgotten men, i dimenticati. Ma è dimenticato un boscaiolo del Wisconsin o un bimbo nero malato e denutrito? Un piccolo commerciante dell’Idaho che ha più tasse che guadagni o un siriano la cui unica scelta è tra la morte sotto le bombe o una fuga verso l’ignoto? Un operaio che perde il lavoro in Michigan o un immigrato che perde la vita nel Mediterraneo? Paragoni impossibili, paradossi dell’emarginazione. Verrebbe da dire, parafrasando il filosofo di Treviri: disperati di tutto il mondo, unitevi!

La sinistra è in grado di raccogliere e dare sintesi a tutte queste voci? No, vivacchia, attonita, cercando di gestire al meglio l’esistente. Senza memoria e senza futuro. Persino il concetto di progresso è ormai identificato con la destra, «erede dell’ambizioso impulso modernista a distruggere e innovare in nome di un progetto universale» (Tony Judt, Guasto è il mondo, Laterza).

Che fare? Si può solo ripartire dai fondamentali. Quale il ruolo dello Stato? Quale il rapporto tra proprietà privata e interesse pubblico? Quale la proporzione tra saggio d’interesse e remunerazione del lavoro, tra profitti e redditi? Quale la teoria sulla produzione delle merci e il loro valore in un’economia dominata dalla finanza speculativa e dalla robotica? Quale differenza tra capitani d’impresa e rentier? Quale il livello del fisco? Quale il concetto di patrimoniale? Come si combatte la disoccupazione, considerato che non ci sono posti per tutti? Esistono ancora le classi sociali o l’unica distinzione è tra ricchi e poveri, tra garantiti e miserabili?

Domande tante, risposte poche, confuse e contraddittorie. L’immigrazione, il terrorismo, l’Islam, la religione, la famiglia, la scuola, la sanità. Coriandoli di pensieri che il vento dell’impietosa quotidianità solleva e mischia. E poi la natura, l’arte, l’estetica. Financo il concetto di alienazione andrebbe ridiscusso. Marx, Freud e Marcuse non bastano per capire come mai in un vagone della metropolitana nessuno alza gli occhi dal proprio smartphone. Nella scala dell’evoluzione, dopo l’homo sapiens è arrivato l’homo cellularis. È l’intera civiltà in discussione. Una sfida immensa. Possibile che a raccoglierla siano Donald Trump, Marine Le Pen o Beppe Grillo? Pessimismo della ragione, ottimismo della volontà. Gramsci, se ci sei, batti un colpo.

 

 

Il corriere della sera 28 novembre 2016

 

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