Fidel Castro morto: il braccio di ferro su Cuba tra Trump e Bergoglio, di Pietro Schiavazzi

Diciannove novembre 1996. Venti anni fa. Fidel Castro era rientrato appena in hotel dal Vaticano, dallo storico incontro con Giovanni Paolo II, quando in conferenza stampa, sotto gli occhi del mondo, gli feci a bruciapelo la domanda che allora ricevette una risposta elusiva e oggi trova invece il suo responso ineludibile, definitivo, sulla soglia dell’eterno e nel mistero di Dio.

“Dopo la vittoria della Revolución, Presidente, a differenza di altri paesi comunisti Lei ha chiuso le chiese ma non la nunziatura, mantenendo le relazioni con il Vaticano. Tiene aperta una porta anche a Cristo, dentro di sé?”
Fidel mi fissò soltanto un attimo, lo sguardo penetrante e impenetrabile. Maestro a eludere ma senza deludere – come poc’anzi annotavo -, riconoscendo i meriti della figura di Gesù, quale “collega” rivoluzionario. E prospettando una vaga, eventuale disponibilità, un giorno, a presentarsi celestiale al suo cospetto e ascendere i gradini della sua dimora, in excelsis. Sempre da pari a pari, s’intende, tra esseri divini.

Nel frattempo, lasciando in sospeso la questione dell’eredità eterna, si preoccupava di mettere al sicuro quella terrena, entrando nello studio del Vicario di Cristo e facendone il proprio esecutore testamentario. Un compito che Wojtyla seppe svolgere in modo decisivo, tempestivo ma neutrale, notarile appunto, cogliendo al volo la congiuntura storica e atterrando all’Avana due anni dopo, nel gennaio del 1998, in uno dei suoi viaggi più emblematici. Una rotta che Bergoglio ha rilanciato, assumendone la traiettoria rivoluzionaria e subentrando a Castro nel ruolo di simbolo, icona incontrastata della sinistra proletaria mondiale.

Il passaggio delle consegne, su note degne del celebre “Hasta la victoria siempre”, è avvenuto in articulo mortis il 5 novembre scorso, accompagnato dalle assonanze castriste, anticapitaliste con cui Francesco ha scandito il raduno dei Movimenti Popolari, la nuova Internazionale del Terzo Millennio, davanti a un’assemblea di campesinos e centri sociali, trasformando il Vaticano in Casa del Pueblo del XXI secolo: “L’ho detto e lo ripeto, il futuro dell’umanità non è solo nelle mani dei grandi leader, delle grandi potenze e delle élite. E’ soprattutto nelle mani dei popoli.” Discorso di rottura e al tempo stesso investitura. Di accettazione dell’eredità e assunzione della sfida. Che in Sudamerica è risuonato seduta stante come una iscrizione di Fidel Castro tra i padri della Chiesa o poco ci è mancato: “Tutta la dottrina sociale della Chiesa e il magistero dei miei predecessori si ribella contro l’idolo denaro che regna invece di servire, tiranneggia e terrorizza l’umanità… Così la democrazia si atrofizza, diventa un nominalismo, una formalità, perde rappresentatività, va disincarnandosi perché lascia fuori il popolo nella sua lotta quotidiana per la dignità, nella costruzione del suo destino”.
E’ questo il vero necrologio politico, il viatico religioso di Fidel Castro e delle sue battaglie, pronunciato dal Pontefice con due settimane di anticipo e ricambiato dal fratello Raùl con la liberazione “giubilare” dei detenuti, premiando la prudenza, e la pazienza, di Bergoglio, che a settembre 2015, durante la sua visita, non aveva in tal senso forzato la mano nella pretesa di ottenere tutto e subito.

Non possiamo sapere se Castro abbia ritrovato, in extremis, la fede perduta in gioventù, ma constatiamo che come molti allievi dei gesuiti è sempre rimasto a suo modo “Fidel” al Papa. Così, quando al culmine della rivoluzione cancellò il Natale, non serrò contestualmente i battenti della nunziatura. Sfrattando Dio dal calendario ma conservando ai suoi emissari un posto nello stradario. Che a differenza delle rampe sovietiche non è stato mai rimosso e oggi si erge a contraerea in difesa della rivoluzione o di ciò che ne resta: meglio annessi dal Papa che assorbiti da Trump. Meglio protettorato della Chiesa che colonia degli USA.

Come un tempo i missili di Kruscev, i messaggi egalitari di Francesco rappresentano per il castrismo – a prescindere dai suoi errori e dai suoi orrori -, l’ultima spiaggia e occasione di resistere allo sbarco del capitalismo, che questa volta, diversamente dal tentativo del 1961, approda direttamente nelle coscienze, operandovi una colonizzazione ideologica e devitalizzando le radici del socialismo. Ragione per la quale il líder maximo, al massimo del paradosso, ha scelto quale erede il pontefice sommo, l’unico portatore di una fascinazione, di un sogno alternativi all’American Dream.
Mentre la conversione di Fidel rimarrà dunque incerta e avvolta nel suo mito, l’estrema unzione del regime risulta somministrata felicemente, con apparente beneficio, per ora, e unanime soddisfazione dei capi.
“Se continua così tornerò alla Chiesa”, dichiarò del resto Raúl un anno e mezzo fa, lasciando il Vaticano e lanciando un SOS. Intravedendo all’orizzonte, con l’uscita di scena di Fidel, un futuro da eredità contesa, sulle 90 miglia che separano la perla del Caribe dalla Florida. Un testamento che Trump si appresta segnatamente ad impugnare, in un braccio di ferro, e braccio di mare, tra impero e papato, evangelizzatori e colonizzatori, conquista capitalista e riconquista cattolica.

L’Huffington Post , 26 novembre 2016-11-26

 

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