Fabio Maria Crivelli: nell’estate 1945, la vita riconquistata nella libera patria, di Gianfranco Murtas

Mi torna di frequente, per la congerie di mie attività direi proprio quasi ogni giorno, il ricordo di Fabio Maria Crivelli, una personalità d’uomo e d’intellettuale, ricca nella sua sobrietà, che ho molto amato negli anni intensi in cui mi è stato dato di frequentarla,approfondendone un rapporto iniziato, a riguardo dei suoi testi teatrali di gioventù, addirittura nel 1971. E sempre questi ricordi si sovrappongono e generano emozione, riportandomi ai momenti e ai luoghi in cui sono convinto che anch’io, con le mie carte e le mie questioni, possa essergli stato significativo e forse importante, interlocutore positivo, perfino soccorso nella bassa, come quella volta a Clinica Aresu, nella circostanza particolare, e poi, è naturale, più diffusamente nella comune ricerca civica ed umanistica. Pagine private di vita che però mi sembra difficile eradicare dal prevalente profilo pubblico della sua stessa esistenza (sopravanzante la mia giusto di una generazione). Al giornale soprattutto, negli spazi conviviali ma poi, ripeto, anche e soprattutto in quelli rigorosi del convegno umanistico, e con quale distinzione!

Ogni anno, avvicinandosi la data ricorrente della sua scomparsa, sento io la necessità di richiamarlo più solennemente alla memoria che insapora l’attualità, oltre la nostalgia o il rimpianto per pur permangono: dico questo riferendomi alla condivisione con altri di un sentimento di ammirazione per la statura dell’intellettuale civile che, sugli orizzonti liberaldemocratici e della Libera Muratoria, abbiamo perduto ma anche di affetto per lo spessore di umanità che, riservato quasi sempre ma generoso sempre, egli ci ha mostrato.

Nel 2011 gli ho dedicato una ampia dispensa – omaggio a Fabio Maria Crivelli: il giornalismo, il teatro, la memorialistica, la massoneria – che oltre ad aver ripreso integralmente i testi del reading a lui dedicato, che avevo avuto modo di allestire, anche con il supporto di molti ragazzi dell’istituto Mattei e l’appoggio del Collegio circoscrizionale sardo dei Venerabili, a palazzo Sanjust (gennaio 2011), proponeva molti altri scritti miei e altrui su di lui, ma soprattutto suoi.

Centrali, in questo, fra gli atti delle due pièce teatrali Questi nostri figli e I superstiti, ch’egli scrisse e mise in scena quando, giovane trentenne, lavorava al romano Il Giornale d’Italia, e le pagine rubricali di “Agenda aperta” uscite su L’Unione Sarda dal 1977 in poi, e le altre ancora della tavola tracciata nella prima delle sue logge liberomuratorie (la “Sardegna”, cui sarebbe seguita la “Francesco Ciusa”) sul confronto “Pascal e Voltaire, fede e ragione”, erano i vividi quadri del suo libro memorialistico anni rubati, che è del 1988.

Giovanissimo sottotenente dell’esercito regio andato in crisi l’8 settembre 1943, aveva scelto di non intrupparsi nella repubblica di Salò e farsi così nemico dei partigiani, aveva scelto di pagare il prezzo che la grande storia gli imponeva consegnandosi ai burgundi e ai loro campi di prigionia.

Mi capitò, dico verso la metà degli anni ’80, di porlo in contatto con amici miei cari, press’a poco della sua stessa classe anagrafica, i quali avevano vissuto quella medesima esperienza della guerra combattuta prima nelle formazioni regolari poi diversamente, chi sul fronte buono degli antifascisti chi su quello cattivo dei patriottardi repubblichini, taluno anch’egli nei campi di lavoro, i campi dei fili spinati e delle baracche. Ed era una severa, istruttiva goduria vedere ed ascoltare questi signori ormai attempati – Fabio che essi – che quasi si trasfiguravano riportando la mente e il racconto, e l’ascolto, a vicende tanto lontane nel tempo eppure così presenti, e indelebili, e rivelate nei segni dello spirito.

Dei venti mesi trascorsi nei dodici campi polacchi e tedeschi egli non aveva conservato appunti: «le poche note scritte con mano intirizzita dal gelo su un taccuino non sono tornate con me in Italia; furono strappate con furore da uno dei tanti sottufficiali bercianti durante una delle ossessionanti perquisizioni che accompagnavano i nostri arrivi o le nostre partenze fra un lager e l’altro. Per fissare il ricordo del tempo trascorso a Deblin debbo ripercorrere le tappe di un itinerario di cui restano in evidenza solo i nomi dei luoghi a malapena intravisti oltre il filo spinato o dal portello di un carro-bestiame all’arrivo delle tradotte»… Questo annota nel capitolo “Ricordo di Deblin”, che riprende e rielabora uno scritto di memoria già affidato alla terza pagina de L’Unione Sarda.

Il suo itinerario incominciò il 12 settembre da Bolzano: «sei giorni in un carro ferroviario che ospitava quaranta giovani sottotenenti per un interminabile percorso attraverso l’Austria e la Germania fino ad Hammestein, il primo lager e il primo contatto con i morsi della fame, le invettive dei custodi nazisti, gli interminabili appelli all’alba e al calar della sera prima di essere rinchiusi in gelide baracche sperdute in una desolata brughiera. Hammestein è solo un campo di transito; una notte ci svegliano e ci raccolgono attorno ad una radio per sentire la voce di un fantasma: è Mussolini che parla da Radio Monaco, racconta la sua liberazione dal Gran Sasso, incita alla vendetta e chiama tutti a raccolta per riprendere la guerra a fianco dell’alleato germanico; da come ci guardano i nostri guardiani capiamo subito cosa si attende da noi; la risposta collettiva di un migliaio di prigionieri già intaccati nel fisico e nel morale dal primo brutale contatto con i lager è fatta di gelido silenzio, un silenzio che suscita reazioni di furente livore da parte dei guardiani nazisti. Prima dell’alba ci sono alcuni pestaggi, il giorno dopo non verrà distribuita neanche la scodella d’acqua calda con bucce di patata che costituisce il rancio abituale. Tre giorni dopo, e siamo ormai a metà ottobre, il campo viene sgomberato; si torna ai carri-bestiame…».

Tutto finisce nell’estate del 1945. E’ di agosto inoltrato il ritorno a casa, nel quartiere Trieste di una Roma devastata anch’essa, sul piano materiale, dalla guerra. Partito per la dura avventura bellica, nel 1941, ventenne, Fabio rientra uomo fatto, pur giovane, maturato dagli eventi, dalle sfide, dalla morte incrociata e sviata tante volte: «Avevo ventiquattro anni e me ne sentivo addosso il doppio». Mancano i servizi pubblici, tanto più quelli di trasporto, ed egli attraversa cento strade, muovendo dalla stazione Termini, prima di arrivare là dove la madre, il padre e la sorella lo attendono, ogni giorno fermi nella speranza di incontrarlo nuovamente e finalmente. E attraversando gran parte della città – via Marsala, via Varese, piazza Indipendenza, tutto il rione Macao, e via XX Settembre, via Palestro, piazza Fiume, via Salaria, via Nizza,viale Regina Margherita, corso Trieste… – rivede, in uno strano accoramento, come i fotogrammi del film della sua infanzia e della sua adolescenza, rivede con la memoria rivitalizzata la chiesa del Sacro Cuore con il suo oratorio e il campo di calcio, i giardinetti dello svago, le vetrine dei negozi frequentati, le bancarelle dei libri usati e la fontanella dell’acqua nel tempo delle corse in bicicletta, la pasticceria e il cinema, la sala biliardi e la postazione della fioraia, il liceo Giulio Cesare…

Eccoli qui riproposti, alcuni di quei quadri di vita disperata e di vita riconquistata, con la mia breve introduzione nel quaderno intitolato alla sua grata memoria.

Come in un film, l’inferno e la risalita

Altre brevi pagine, selezionate da anni rubati, ma non lette data l’economia del reading, la sera del 29 gennaio 2011. Squarci drammatici di vita, prima del ritorno alla vita piena e libera, capace finalmente, nuovamente, di futuro. Le vicende, richiamate ancora per flash, della condizione estrema nei campi di prigionia con la qualifica di “internati militari” (e lavoratori di fatica): quando, anche, al male corrisponde la preghiera di una madre nella chiesa romana di San Luigi dei Francesi… («Quando nel ’43 io ero rinchiuso in un lager che sorgeva ai piedi di questo santuario, mia madre alla quale, tramite la Croce Rossa, ero riuscito a far giungere una cartolina che portava il timbro di Czenstokowa, si era recata nei mesi seguenti quasi ogni giorno, a piedi, a pregare per me, che sapeva cattolico non praticante, davanti ad una riproduzione di questa Madonna Nera che è custodita in una chiesa romana… , e un’immagine più piccola di Jasna Gora aveva conservato sul suo comodino fino al mio ritorno nell’estate del’45» ). Infine il rientro in Italia, quattro mesi dopo il santo 25 aprile, qualche settimana dopo anche lo scoppio di Hiroshima.

Sempre riservato riguardo al proprio privato, solo di tanto in tanto e quando le circostanze rendevano la cosa facile e quasi obbligata, si è dato, Fabio Maria Crivelli, ad accennare, nei suoi articoli di giornale, a sé, alle sue esperienze personali. L’ha fatto in “Agenda aperta”, la rubrica che dal 1977 e fino quasi alla sua seconda direzione de L’Unione Sarda ha tenuto ogni domenica, in apertura della terza pagina, ed i cui testi sarebbe bello, e non difficile, riunire un giorno in un libro. Così anche in alcuni dei pezzi che, con maggiore intensità, il giornale gli aveva richiesto, ancora per la terza pagina, giusto nei mesi che han preceduto quel suo ritorno direttoriale e nei mesi che han seguito la conclusione di quella faticosa ed esaltante esperienza. Molti di questi – qualche decina almeno – ancora sugli episodi della guerra, delle persecuzioni, dei campi, dei sogni liberatori…

Lo scritto memorialistico in volume di Fabio Maria Crivelli ha un capitolo – quello che racconta il ritorno a casa – che concede al lettore qualcosa di importante: di guardare oltre le finestre da lui aperte sulla sua infanzia e la sua adolescenza romane, fino a quella cartolina di chiamata come soldato nella sconvolgente avventura del secondo conflitto mondiale. Sono materiali, questi, che ben potrebbero – espandendosi nella genealogia istriana e nelle primissime memorie di vita a Capodistria (su cui anni rubati accende un riflettore non da poco alle pp. 129-132) – farsi oggetto di una ricerca mirata al biografico, traendo da esso chiavi interpretative anche della sua vocazione di scrittura.

 

1 – I campi, la carne di porco e la pistol-machine

Tutto ciò che durante quei due anni di peregrinazione fra un campo e l’altro riuscii salvare erano quattro foglietti che portavo cuciti all’interno della logora giacca con la quale nell’agosto del 1945 tornai in Italia… Tre anni fa, quando mio padre morì a Roma, sfogliando un pacco di carte che egli aveva gelosamente conservato, ecco ricomparire, fra le mie pagelle scolastiche, ritagli di miei vecchi articoli, fotografie familiari, anche quei quattro foglietti sui quali, più di quarant’anni fa, ho frettolosamente scribacchiato degli appunti in tre diversi momenti della mia vita nei lager…

Oggi che, tornato alla mia quieta vita di Sinnai, ho più tempo a disposizione, sento il bisogno di trascrivere quei frammenti di un diario largamente incompiuto che solo sul filo della memoria e con fatica e imprecisioni ho tentato varie volte di portare a termine. Penso di doverlo fare soprattutto per non rendere vano quel gesto d’amore che mio padre ha compiuto, custodendo fra le sue poche cose preziose gli scarabocchi indecifrabili di un figlio lontano e distratto.

Kolm, 11 gennaio 1944. Stamane, quando alle sei le bercianti sentinelle sono venute a gridarci la sveglia e a buttarci giù dai giacigli con i loro rauchi “raus, raus” ho dato uno sguardo al calendarietto che l’amico Gastone Greggi tiene appeso sul bordo del castello a tre piani in cui dormiamo fianco a fianco; e ho così scoperto che è il giorno del mio ventitreesimo compleanno. E’ il terzo che compio lontano a casa; ma stavolta la distanza che mi separa dai miei è immensamente più vasta… Fuori, nel cortile dell’appello, è ancora buio. La temperatura supera largamente i venti gradi sotto zero; il mezzo bicchiere di tiglio che ci è stato distribuito era diventato freddo prima ancora di ingoiarlo. Non possiamo far altro che battere i piedi sulla neve nel vano tentativo di scaldarci; e di sperare che i “crucchi” addetti alla conta abbiano anche loro fretta di tornare nelle loro riscaldate baracche evitando che il supplizio si prolunghi troppo. Per fortuna i gerarchi di Salò e i capi delle SS che nei giorni scorsi ci hanno tenuto a lungo all’aperto per indurci con minacce e lusinghe ad arruolarci nelle file del “rinato esercito italiano” sono partiti ieri con il magro bottino di una dozzina di disgraziati che hanno detto “sì”…  Rientriamo dopo un’ora nella baracca…; con l’unica lametta che possiedo e un po’ di sapone che mi ha regalato Gino Millozza mi rado, adoperando l’acqua ghiacciata nel lavandino della ritirata la barba cresciuta nelle due ultime settimane, e poi mi accosto al gruppetto dei “chiacchieroni” che siedono in circolo attorno alla stufa spenta nel centro della baracca… Sollecitato dal ricordo del mio compleanno sento per un attimo la tentazione inserirmi in questa folle conversazione; mi ha assalito ad un tratto il ricordo dei pranzi di festa che preparava mia madre della sua cucina triestina, del suo modo di preparare gli strudel di spinaci o di mele. Ma vince la malinconia… Preferisco avvolgermi nelle coperte logore e cercare un po’ di tepore in un sonno che vorrei confortato da qualche sogno un po’ meno triste… Quando alle tre ci distribuiscono una brodaglia calda fatta di bucce di patate e qualche carota, aggiungendo alla fetta di pane nero un’insolita razione di dieci grammi di margarina, festeggio per mio conto il compleanno mangiando tutto in tre minuti…

Wesuve, 10 settembre 1944. Oggi si compie il mio primo anno di prigionia; esattamente un anno fa i tedeschi mi catturarono ad Udine e il giorno dopo incominciò da Bolzano il viaggio in carri-bestiame… Tre mesi fa ci hanno sgomberato dalla Polonia probabilmente perché l’avanzata delle truppe sovietiche si avvicina alle vecchie frontiere… E’ stata fatta la solita cernita: duecento di noi, i più giovani, sono stati portati in un lager alla periferia di Colonia nei pressi di una grande fabbrica chimica. Vane le nostre proteste e i nostri richiami alla convenzione di Ginevra; i tedeschi ci hanno sprezzantemente dichiarato che noi non siamo prigionieri di guerra, ma Internati Militari e che per precisi accordi con Mussolini possiamo essere inviati al lavoro.

Per tutta l’estate ci hanno condotto con la scorta di sentinelle dalle facce particolarmente feroci a scavare grandi buche attorno alla fabbrica; dovrebbero servire alla successiva costruzione di vasche industriali. Sotto un sole eccezionalmente caldo abbiamo passato dieci ore al giorno a lavorare con picchi e pale, continuamente sollecitati dal ringhiare dei guardiani, rientrando nel lager solo alle sei di sera per sfamarci con un tozzo di pane nero e la solita brodaglia. In luglio e agosto è cominciato il tormento pressoché quotidiano dei bombardamenti notturni; l’ordine impartito era quello di uscire dalle baracche al primo suono dell’allarme per correre nel vicino rudimentale rifugio… Ho più volte tanto di non uscire dalla baracca e di proseguire il sonno sotto il castello di legno che funge da letto… Per tre volte il maresciallo zoppo e sicuramente pazzo che comanda questo piccolo lager è riuscito a scovarmi attraversando la baracca come una furia e menando colpi di bastone anche sotto i giacigli di legno.

A metà agosto mi sono ammalato: atroci dolori di stomaco, una spossatezza infinita e segni di sangue nelle feci mi hanno fatto pensare ad un’enterocolite. Ho dovuto aspettare quattro giorno perché uno dei guardiani si decidesse ad accompagnarmi dal medico della fabbrica; questi… ha ascoltato con scarso interesse la descrizione dei sintomi che ho abbozzato mescolando parole italiane tedesche e perfino in latino, poi ha scarabocchiato qualcosa su un foglietto e l’ha consegnato al guardiano senza più degnarmi d’uno sguardo… Tre giorni dopo mi hanno riportato agli scavi; mi reggevo a stento sulle gambe… Il tre settembre le bombe hanno raso al suolo la fabbrica; la notte successiva il maresciallo pazzo è piombato nella baracca e con grida rabbiose ci ha detto di raccogliere i pochi nostri stracci e di prepararci ad un’immediata partenza… Gli alleati, sbarcati in giugno in Normandia, erano ormai prossimi ai confini tedeschi…

Circondati da sentinelle con a capo dei graduati delle SS fummo avviati attraverso i boschi in una marcia che durò due giorni e che ci portò ad una stazioncina deserta dove erano già pronti i soliti carri-bestiame adibiti al nostro trasporto… Ci hanno sistemati alla meglio in tre baracche… Il campo si trova abbastanza vicino a Meppen in Westfalia e da quello che ho capito è diventato una specie di lazzaretto per i prigionieri russi che non sono più in grado di lavorare… Oggi pomeriggio ho visto, per la prima volta un prigioniero russo… una sorta di scheletro vestito con i resti di una divisa militare… era un moribondo al quale per un minimo di clemenza era stato concesso di prendere un’ultima boccata d’aria fuori del baraccamento sigillato. Ho continuato a guardare il russo aggrappato al reticolato e per un momento mi sono venute in mente le immagini di certi quadri medievali riproducenti Cristo morente sulla croce… i suoi occhi dilatati erano attratti dal sole che stava calando ad ovest…

Lunenburg 9 aprile 1945. Ieri sono stato ad un passo dalla morte. Da due settimane mi trovo, con una cinquantina di compagni, in questa cittadina… Ci hanno alloggiati in un’isolata baracca su una collina… La mattina le sentinelle… ci conducono allo scalo ferroviario ridotto ad un cumulo di rovine dalle bombe alleate; per dieci ore, interrotte da frequenti allarmi che ci fanno correre al vicino rifugio, scaviamo e trasportiamo rottami d’ogni genere. Stamane un gruppetto di compagni ha scoperto fra un groviglio di vagoni distrutti un carro quasi intatto in cui erano accatastate centinaia di scatole di carne di porco destinate ad un deposito dell’esercito; la nostra eterna fame ci ha immediatamente convinti che non bisognava lasciarci sfuggire quel tesoro. Il problema era quello di sottrarci alla sorveglianza delle sentinelle… Assieme ad altri quattro compagni abbiamo pensato che il momento buono fosse arrivato quando verso mezzogiorno la solita incursione di aerei britannici ha fatto suonare le sirene d’allarme. Mentre tutti correvano verso il rifugio, noi quattro ci siamo sdraiati sotto il vagone e abbiamo ammucchiato fra le macerie un certo numero di scatole. Mezz’ora più tardi, dopo che gli aerei avevano sganciato il loro carico di bombe a qualche chilometro di distanza, si è ripreso il lavoro e noi siamo rimasti in trepida attesa nelle vicinanze del tesoro. Alle cinque le sentinelle ci hanno dato il segnale dell’adunata per il ritorno al lager. Con febbrile rapidità noi quattro abbiamo raccolto un certo numero di scatole, cercando di nasconderle dentro i logori vestiti; poi ci siamo avviati verso l’uscita dello scalo. Io avevo preso sei di quei preziosi recipienti da un chilo; ne avevo nascosto due sul petto, dentro la giacca e quattro nei pantaloni, due per gamba. Procedevo con goffa lentezza sperando che le sentinelle… non se ne accorgessero. Ed ecco invece all’uscita dello scalo una pattuglia che controlla il passaggio dei prigionieri; gli occhi del sergente che comanda si fissano immediatamente sui rigonfi innaturali della mia persona, mi blocca afferrandomi per le braccia, urlando mi intima di togliere la giacca e mollare la cintura dei pantaloni. Le sei preziose scatole cadono a terra; il viso del sergente è quello di una furia, mi punta addosso la pistol-machine e gridando mi fa cenno di accostarmi a un muro là vicino. Poi, mentre continua a gridare, sento il freddo dell’arma sulla nuca. Da quel poco di tedesco che ho imparato capisco che sta parlando del codice di guerra il quale impone l’immediata esecuzione di chi viene trovato a razziare durante un bombardamento…; poi invece l’arma si scosta, sento la voce del sergente borbottare una frase che intendo solo a metà. Forse ha detto “tu vuoi rivedere tua madre” o forse “anche tu hai una madre che t’aspetta”… Con un gran spintone vengo rigettato verso i compagni rimasti immobili a guardare la scena…

 

2 – Il glicine e il caprifoglio, la madre: «T’aspettavo»

Una mattina di fine agosto del 1945 arrivai alla stazione Termini di Roma con un  treno che per compiere il tragitto da Bologna, sulla linea tirrenica, aveva impiegato tredici ore. La guerra era finita da tre mesi, ma l’opera di rimozione delle macerie e di ripristino delle vie ferrate era appena all’inizio. Nella settimana trascorsa dal passaggio del Brennero avevo avuto modo di rendermi conto ampiamente di quante rovine aveva lasciato dietro di sé la contrastata marcia delle truppe alleate lungo la penisola… La mia prigionia nei lager tedeschi era finita tre mesi prima; sul finire dell’aprile reparti britannici erano giunti a Lunemburg e ci avevano prelevati da un campo in cui negli ultimi mesi i tedeschi ci avevano rinserrato, portandoci ogni giorno, dall’alba al tramonto, a spalare macerie nella stazione distrutta. Trascorse in un tumulto di sensazioni le prime ore della festosa liberazione era cominciata in un grande attendamento nei pressi del confine olandese la sempre più frenetica attesa della partenza verso l’Italia. Dopo due anni di prigionia, conclusa la fase delle sofferenze e dell’incertezza sulla nostra sorte, ognuno di noi pensava solo al tanto sognato momento del ritorno a casa, e quei giorni che trascorrevano senza che ci venisse comunicata la data del rientro ci sembravano interminabili ed esasperanti.

Ora, in quella mattina d’agosto, anche quella fase era finalmente terminata. Uscii dalla stazione dal lato di via Marsala fermandomi appena un attimo per far bollare il foglio di viaggio rilasciato dalle autorità alleate per ritirare un biglietto con il quale mi s’imponeva di presentarmi entro tre giorni al distretto per regolarizzare la mia posizione di reduce; mi sentivo preda di tanti stati d’animo diversi e contrastanti, vivevo un momento che per tanto tempo avevo cercato d’immaginare… Le strade che stavo percorrendo erano quelle del rione Macao in cui avevo abitato da bambino; in via Marsala ero passato davanti alla chiesa del Sacro Cuore e all’oratorio in cui avevo trascorso tanti pomeriggi giocando a pallone. Imboccando via Varese avevo rivisto la casa in cui, ai tempi delle scuole elementari, facevo i miei compiti… Piazza Indipendenza con i suoi trascurati giardinetti… Guardandomi nella vetrina di un negozio proprio mentre stavo rivivendo quei lontani ricordi, mi sembrava di vederci riflessa l’immagine di un estraneo, vestito com’ero con una logora e rappezzata divisa, un tascapane semivuoto, la barba lunga e gli occhi arrossati dalla stanchezza del lungo viaggio. Avevo ventiquattro anni e me ne sentivo addosso il doppio, non avevo in tasca neanche un centesimo e non vedovo in giro nessun tram… Sudavo non tanto per il sole che sapeva ancora d’estate ma per l’accumularsi delle sensazioni che mi accompagnavano in quel tratto finale del mio ritorno ad una casa e ad un’esistenza che avevo abbandonato quattro anni e mezzo prima. Da più di due anni non avevo avuto alcuna notizia dei miei, e temevo che anche per loro fosse stato lo stesso… Stentavo a rendermi conto che in quei giorni Roma, come tutte le altre città d’Italia, brulicava di reduci malvestiti che tornavano a casa dalle più lontane parti del mondo.

Continuavo, camminando, ad imbattermi nei reperti del mio passato. In via Venti Settembre c’erano sempre le bancarelle dei libri usati che, quand’ero adolescente, avevano saziato la mia fame di letture; all’angolo di via Palestro continuava a gettare il suo filo d’acqua la fontanella alla quale mi abbeveravo dopo le lunghe corse con la bicicletta presa a nolo; in piazza Fiume la grande pasticceria in cui mio padre acquistava le paste la domenica ora mostrava le sue vetrine desolatamente vuote. Ma il cinema in via Salaria esponeva i cartelloni dell’ultimo film in programmazione, la sala biliardi era aperta e si sentiva il vocio di studenti che la riempivano dopo aver marinato la scuola; all’angolo di via Nizza una fioraia esponeva come sempre la sua variopinta mercanzia…

Giunto all’incrociare con viale Regina Margherita, in procinto d’imboccare corso Trieste, sentii più forte quello stato d’ansia che nel suo crescendo mi spingeva ad accelerare il passo fino alla corsa e nelle stesso tempo m’immobilizzava, svuotandomi d’ogni energia… Rivedevo, come stessero attorno a me, i visi di compagni che avevano condivido le ore disperate nelle squallide baracche di un lager in Polonia, risentivo il freddo paralizzante delle albe invernali trascorse nei cortili e i campi per le interminabili ore della conta, rivivevo le scene della liberazione a Lunemburg, quando un corteo di spettri dalle divise stracciate aveva intrecciato un frenetico girotondo al suono di una fisarmonica suonata da un prigioniero russo sopravvissuto a migliaia di compagni in un lager adiacente al nostro. E mi sembrava, socchiudendo gli occhi, di rivedermi nell’interminabile tradotta che dopo tre giorni di viaggio da Dusserdolf era giunta al Brennero…

Mi feci forza e ripresi il cammino. Ora con crescente inquietudine cominciavo a chiedermi se non fosse sbagliato quel mio arrivo senza avvertimenti, pensieri cupi mi soverchiavano, temendo i colpi maligni della sorte che fino a quel momento mi era stata sempre, tutto sommato, favorevole. Temevo per mia madre che certo più di tutti aveva sofferto per la mia prigionia; ora sentivo il bisogno di telefonare, di dare in qualche modo, magari cauto, un preavviso del mio ritorno e di evitare un’emozione che avrebbe potuto fare del male. Ma anche le linee telefoniche a Roma erano in stato precario e nei due negozi in cui chiesi di usare l’apparecchio mi risposero sgarbatamente che non funzionava. Ero giunto intanto davanti al liceo Giulio Cesare e tornava la scia dei ricordi… Proprio in quel momento erano terminate le lezioni e una folla di ragazzi usciva nel viale vociando, ero circondato da adolescenti che scherzavano, si sfottevano o si davano appuntamenti per la sera…

Ora ero davanti al portone di casa; fermo sul marciapiede opposto sbirciavo il balconcino del secondo piano e con emozione scorgevo le piante di rose, il glicine, il caprifoglio che mia madre con puntiglioso amore coltivava da tanti anni. Io stato di quelle piante mi dava un senso di sollievo e di speranza; tuttavia ancora esitavo ad entrare nel portone… Poi pensai  che a quell’ora c’era certamente in casa mia sorella, che sarebbe stata lei ad aprirmi e ad avvertire con cautela la mamma. Mi feci coraggio attraversai di corsa la strada, salii correndo i due piani di scala, suonai il campanello. Ero senza fiato, pallido, il cuore mi batteva all’impazzata.

Fu proprio mia madre ad aprirmi, restai un attimo a guardarla incapace di dire una sola parola; mi sembrava più piccola, smagrita, con qualche ciocca bianca. Ma il sorriso che partiva dagli occhi azzurri senza traccia d’emozione era il suo, e sembrava riflettere tutte le gioie del mondo. Mi tese le braccia e con voce tranquilla mi disse: «T’aspettavo, ho sognato due notti fa che saresti arrivato oggi, in tempo per il pranzo»…

 

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    1 Comment to “Fabio Maria Crivelli: nell’estate 1945, la vita riconquistata nella libera patria, di Gianfranco Murtas”

    1. By Pietro CABRAS, 27 ottobre 2016 @ 11:42

      Bello e, soprattutto, intenso, come tutte le cose scritte da chi la guerra l’ha vissuta direttamente. Un grazie a Gianfranco. Pietro