Letteratura, a ciascuno il suo classico: elenco (incompleto) di una libreria ideale, di CORRADO AUGIAS

Riflessione sui testi che non dovrebbero mancare in una casa, seguendo le orme di Calvino. Ma ognuno ha le sue lacune

 

 

QUALCHE settimana fa, a Mantova per il festival della Letteratura, ho trovato sulla bancarella di un libraio antiquario la prima edizione francese illustrata (1855) del ‘Comte de Monte-Christo” di Dumas con tanto di ex-libris del ‘Notaro Marescotti Eligio’. Il prezzo era ragionevole, l’ho comperata. Perché? Per la sola ragione che conservo vivida memoria delle emozioni che la lettura di quel ‘classico’ mi procurò da adolescente e che spero ora si rinnovino.

Ho usato il termine ‘classico’ per definire quel romanzo sapendo di avventurarmi su un terreno dagli imprecisati confini. Che cos’è infatti un classico?  Domanda più volte riproposta, che s’è riaffacciata anche di recente quando Natalia Aspesi ha avuto il coraggio di confessare di non aver mai letto ‘A Zacinto’ di Foscolo, certamente un ‘classico’.

Esiste però una risposta ‘classica’ su che cosa sia un ‘classico’. La dette Italo Calvino sul settimanale L’Espresso del 28 giugno 1981 sotto il titolo “Italiani, vi esorto ai classici”. Parole che cadono a proposito avendo appena citato Ugo Foscolo. Infatti il celebre ammonimento “Italiani, vi esorto alle storie” venne lanciato all’università di Pavia proprio dal nostro Ugo nell’orazione inaugurale (gennaio 1809) della cattedra di Eloquenza quando discusse origine e ufficio della letteratura.

Che pensava dunque Calvino sulla natura del ‘classici’? Il suo ragionamento è articolato e diverse sono le motivazioni, ne riferisco alcune. Per esempio: “I classici sono libri che esercitano un’influenza particolare sia quando s’impongono come indimenticabili, sia quando si nascondono nelle pieghe della memoria mimetizzandosi da inconscio collettivo o individuale”.

Questo giudizio Calvino lo dà al punto 3 (su 14) del suo ragionamento. Anche ciò che scrive al successivo punto 4 è molto convincente: “D’un classico ogni rilettura è una lettura di scoperta come la prima”. Ecco una qualità che sicuramente distingue un classico non solo della letteratura ma di ogni grande e vera espressione artistica o del pensiero, dalla grande musica alla grande arte figurativa, alla grande saggistica. Infatti: “Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire”. La frase si adatta a Dante, alla Terza di Beethoven, alla ‘Venere’ di Tiziano al ‘De rerum natura’ di Lucrezio, insomma a una qualunque grande opera che ci parli oggi come e in qualche caso meglio che al momento della nascita.

Punto 9: “I classici sono libri che quanto più si crede di conoscere per sentito dire, tanto più si trovano nuovi e inaspettati quando si leggono davvero”. Su questo punto è possibile che Calvino si sia rifatto all’esperienza dello scrittore Michel Butor (da lui citato) che, insegnando negli Stati Uniti, s’era stancato di sentirsi chiedere di Emile Zola che non aveva mai letto. Si mise d’impegno a leggere l’intero ciclo dei Rougon-Macquart scoprendo un mondo tutto diverso da come se l’era immaginato: “Una favolosa genealogia mitologica e cosmogonica”.

Uno dei punti che più mi hanno interessato è il numero 11, dove Calvino afferma: “Il ‘tuo’ classico è quello che non può esserti indifferente e che ti serve per definire te stesso in rapporto e magari in contrasto con lui”. Ecco un’affermazione che a me pare definitiva anche perché, lungi dal chiudere, apre la questione a tante soluzioni quanti sono i soggetti interessati. Personalmente, per mie vicende biografiche, considero Il conte di Montecristoun classico e non vedo l’ora di poterlo ri-leggere.

Il mio vicino può benissimo considerarlo un romanzaccio di quelli che una volta si dicevano ‘da portinaie’. Alla fine del ragionamento veniamo insomma a scoprire che una definizione di ‘classico’ valida per tutti in pratica non c’è, il che non significa azzerare ogni giudizio di valore ma solo che, dato il compiuto livello espressivo e compositivo di un’opera, ognuno è libero di considerare ‘classico’ ciò che più si avvicina alla sua vita, sensibilità, esperienza, affetti, memoria.

Il che è bello, consolante, esime da ogni ipocrisia, riporta la possibile utilità di un ‘classico’ ad una dimensione personale, come racconta il famoso aneddoto di Socrate che, mentre preparavano per lui la bevanda mortale, s’ingegnava di eseguire un’aria sul suo flauto. “A che ti servirà?” gli chiesero. “A sapere quest’aria prima di morire”.

VENTI TITOLI, DA LEGGERE O MAI LETTI
Se è difficile rispondere alla domanda che cosa sia un ‘classico’, ancora di più lo è dire quali siano i classici indispensabili per chi ha fatto del leggere e scrivere una professione. Come si fa a non citare Shakespeare, che ritengo il numero uno della letteratura mondiale di ogni tempo? O Cervantes? O, per venire a noi, Dante, o Ariosto del cui poema celebriamo i cinquecento anni?

Tento l’aleatorietà d’una risposta restringendo in modo poco più che casuale il campo a dieci autori, tutti italiani o latini:

Lucrezio, De Rerum natura
Orazio, Le Satire
Boccaccio, Decamerone
Machiavelli, Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio
Giovanni Pascoli, Opere
Giosuè Carducci, Opere
Francesco De Sanctis, Storia della Letteratura Italiana
Gabriele D’Annunzio, Il Piacere
C. E. Gadda, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana
Italo Calvino, Lezioni americane

Addirittura penoso confessare le proprie lacune che rischiano, avanzando gli anni, di diventare permanenti, alimento per gli ultimi rimorsi.
W. Goethe, Viaggio in Italia
L. Tolstoj, Resurrezione
B. Pascal, Le Provinciali
H. de Balzac, La ragazza dagli occhi d’oro
Margareth Mitchell, Via col Vento
James Joyce, Finnegans

Ippolito Nievo, Le confessioni d’un italiano
Virginia Woolf, Gita al faro
Sainte-Beuve, Port Royal
T. Gautier, Capitan Fracassa

Potrei continuare a lungo, me lo impediscono lo spazio e il pudore.

LA REPUBBLICA, 29 settembre 2016

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