Evviva! Ci è toccato Mazzini, di Gianfranco Murtas

Cinquantuno tavole, centosettanta volti dell’Italia monarchica (liberale, poi fascista) e repubblicana, fra cultura, politica e religione, in un libro di vignette satiriche di Francesco Granatiero.


E’ uscito da meno d’un mese, per i tipi dell’editore sipontino (foggiano) Andrea Pacilli, un libro di centoventi pagine e formato quadrato, bello di fuori e bellissimo di dentro. S’intitola Ricordo Chiaroscurissimo, con sottotitolo vignette satiriche, e di tanta fatica è autore Francesco Granatiero, un illustratore pugliese, giovane ancora con i suoi quarantacinque anni e già venti, anzi trenta quasi, tutti spesi in un cantiere di libertà creativa e, insieme, di crescente disciplina di mestiere, con tanto di pubbliche prove (superate alla grande) tanto nel disegno quanto nella saggistica storico-critica della satira. In ultimo, anche come collaboratore, qualificato e prezioso, della rivista Buduàr Almanacco dell’arte leggera che circola on line e dà spessore alla letteratura grafica sul versante umoristico, storico-politica per lo più, che vanta una bella tradizione da noi, con le sue produzioni autonome e con i suoi conferimenti di supporto alle opere (scritte) dei maggiori.

Le caricature politiche prima di Forattini

Si pensi a Giovanni Spadolini ed ai suoi migliori studi dopo quello fondamentale sull’Opposizione Cattolica, da Porta Pia al ’98, dico l’opposizione clericale allo stato liberale che finì portando in cella don Davide Albertario. Da allora, e dalle collaborazioni con Il Mondo di Mario Pannunzio, si aprì il doppio canale degli studi risorgimentali sul fronte dei contrasti al cavourismo e al moderatismo postcavouriano, e da parte appunto clericale e da parte democratica, radicale e repubblicana. Fu così che, lungo un quarantennio e più, il grande storico contemporaneista che per me è stato un costante riferimento offerse al mondo degli studi opere centrali, fondendo sempre la ricerca biografica allo scavo e alla dotta ricomposizione delle dinamiche evenemenziali, e… bussando alla porta degli illustratori storici: si pensi a Firenze capitale, nelle sue varie edizioni (già dagli anni ’50 del Novecento) di Le Monnier, con le due sopracoperte dedicate al Ricasoli ed al Peruzzi, acquarellati da Beppe Ciardi, o (un’altra volta) con un’apertura tutta centrata su barone di ferro, il Ricasoli appunto, rappresentato da Adolfo Matarelli nei panni del conte Ugolino che cerca di affogare, nel mare delle anime perse, il Rattazzi servitore obbediente degli interessi savoiardi… Si pensi ancora, dello Spadolini, ai grossi tomi sull’ Autunno del Risorgimento e su Le due Rome. Chiesa e Stato fra ‘800 e ‘900 , ancora per i tipi di Le Monnier, pure essi a edizioni replicate già dai primi anni ’70 del secolo scorso: le copertine sono tratte dal Pasquino e dall’Asino, una volta è la matita di Casimiro Teja che rappresenta di spalle Garibaldi, re Vittorio e Pio IX a braccetto ed illusoriamente riconciliati, nella Roma  post-20 Settembre, un’altra volta è G. della Guardia a “schizzare” Garibaldi, stanco e ammalato, alla vigilia quasi della morte, con i richiami nominali alle sue tante fatiche, da Roma 1849 a Marsala e Milazzo e Palermo, al Volturno ecc.; oppure il caricaturato, da Gaido, è, trent’anni o quarant’anni dopo, un Pio X che si rivolge all’accigliato segretario di Stato il cardinale Merry del Val, puntando il dito verso un quadro alla parete effigiante proprio il Generale, o ancora, stavolta però da Galantara, papa Sarto che stringe, alle soglie della grande guerra, la mano ad un microscopico e militaresco Vittorio Emanuele III… All’interno di ciascuno dei volumi – milleduecento pagine complessivamente – gli inserti con un’antologia abbondante e gustosa delle rappresentazioni caricaturali che investono il mondo ecclesiastico come quello politico, diplomatico e militare di quel sofferto, lungo e quasi interminabile passaggio di secolo dilacerato nel corpo sociale fra la coscienza del credente e quella del cittadino…

Ma si potrebbe dire ancora, di questa modalità editoriale scelta dallo Spadolini (figlio di un pittore – acquafortista e incisore – di vaglia e sensibile come pochi alle suggestioni intellettuali dell’arte vignettistica, di cui sarebbe divenuto lui stesso motivo d’ispirazione di mille tavole, lui rappresentato in vesti cattedratiche o in quelle di carabiniere), si potrebbe dire di pressoché tutte le sue opere storiche, da Giolitti e i cattolici a Giolitti: un’epoca, a Il cardinale Gasparri e la questione romana, fino a I radicali dell’Ottocento da Garibaldi a Cavallotti, oppure a Gli uomini che fecero l’italia, ecc. in cui sempre le sopracoperte o le stesse copertine più o meno cartonate (come nelle edizioni di Longanesi) il prodotto dello storico è affidato, in quanto all’accompagnamento, alla maestria allusiva del disegnatore, ancora Golia dal Pasquino 1908, o un anonimo sul Mulo dello stesso anno cruciale. Né si tratta di tavole soltanto di autori italiani (collaboratori del Lampione, del Fischietto, ecc.), ché larga fornitura viene anche dalla Francia (il Charivari) o dall’Inghilterra (il Punch)…

E’ fin troppo noto come l’editoria umoristica, dall’Asino di Podrecca al Marc’Aurelio, passando per il Don Basilio ecc., costituisca un filone autonomo e d’oro della pubblicistica politica, non soltanto della creatività iconografica… Nelle biblioteche pubbliche e private – anche nella mia – un settore è sempre dedicato ai libri che riuniscono le tavole caricaturali, in prevalenza politiche, fra Risorgimento e Novecento umbertino, fascista (e antifascista) e repubblicano, fino a Forattini. E tutto questo si presenta spesso, direi sempre, come un riflettore, supplementare ed originale, sui repertori della saggistica storica.

L’arte vignettistica in Sardegna, ieri e oggi

E d’altra parte –  dovrei aggiungere – anche noi, in Sardegna e a Cagliari, abbiamo avuto fior fiore di disegnatori caricaturisti, vignettisti in generale che hanno accompagnato le nostre letture dei giornali quotidiani o periodici, già da quando, centoventi o centotrent’anni fa, cominciavamo, in parallelo alle esperienze del continente, a comprendere, di una vicenda complessa, la sostanza nella sintesi offerta dal tratto di matita di un artista pieno di grazia. Si pensi  a testate come Il Capricorno e La Cornamusa, fogli cagliaritani già degli anni ’50 dell’Ottocento – precedenti all’unità cioè –,  si pensi a Il Buonumore e più ancora, per la durata prolungata delle uscite (in due serie distinte), a Il Bertoldo del Sulliotti (con i “pupazzetti” di Cancedda), si pensi a Pibiri e Sali o a Su pibireddu, o a Sa Martinicca, ecc. Si pensi a quanti materiali, tratti poi da quotidiani e soprattutto settimanali o mensili, sono venuti ai Della Maria padre e figlio quando hanno dato corpo all’antologica (di grande formato) Casteddaius, forse una primizia, nel genere, da noi, con le decine e decine di tavole di Pippo Boero – magnifico scultore oltre che disegnatore (fu lui, allievo di Ettore Ferrari e suo seguace nella loggia massonica di Roma e poi di Cagliari, a plasmare il duplice Bovio cagliaritano nel 1905) – e Gaetano Ciuffo, Enzo Loi e Remo Fadda, Margherita Deplano Pes e Pippo Diaz, Pippo Sanguinetti e Beppe Marongiu, ecc. Dalla loro arte avemmo una galleria anche qui, per limitarci soltanto al primo e medio Novecento, di figure rappresentative e riconoscibili: notabili e artisti, scienziati e letterati, giornalisti e politici, protagonisti in vetrina della vita sociale, con quei tanti altri minori, senza cattedra e senza claque, che concorrevano beati alla massa, protagonista pure essa del travaglio civico.

Né Sassari fu molto da meno del maggior capoluogo, quando la Sardegna era articolata – e lo fu per quasi un secolo – in due sole province amministrative per molti aspetti realtà separate l’una dall’altra, ciascuna con la sua università e il suo quotidiano, il suo arcivescovo e il suo prefetto. E dalla fine degli anni ’20 anche Nuoro provò a giocarsela con i fratelli maggiori. Basti qui ricordare appena che nel catalogo dei giornali sardi del primo quarantennio del Novecento (coinvolgendo pertanto anche la parte prevalente del ventennio fascista) le testate umoristiche isolane censite superano il centinaio, mentre forse una decina sono quelle, pionieristiche e più o meno fortunate, della fine del secolo precedente… E valga anche ricordare come il talento del disegnatore fosse, il più delle volte, talento vero d’artista riconosciuto per certo anche oltre il mare: si pensi a Enrico Gianeri (Gec), si pensi a Giovanni Manca, si pensi a Raoul Shareun (Sinopico), si pensi a Tarquinio Sini…

Direi di più: si pensi anche – saltando altri decenni e avvicinandoci al nostro presente –, a un Franco Putzolu serramannese, a un Gavino Sanna sassarese dalla doppia anima di creativo pubblicitario. Sono note le raccolte di tavole di entrambi, da Penna all’arrabbiata a Sardus filius e S.O.S. Sardos del primo a  Vipere insieme e L’inganno di un sorriso del secondo… Oppure si pensi ad un Giancarlo Buffa. Di quest’ultimo segnalerei, adesso che l’ho ripreso in mano per quanto vi compare di Bachisio Zizi postfatore, lo splendido Come la luna, uscito giusto vent’anni fa, nel 1996, ma attualissimo per la galleria comunque del meglio che la letteratura e la politica, la religione e la banca, l’archeologia e la musica, la medicina e il giornalismo, la televisione e la pastorizia, l’università e la magistratura, la critica letteraria o storica e il sardismo, l’editoria e la pedagogia, il teatro e l’arte stessa hanno largamente offerto alla vita collettiva dell’Isola e della nazione.

Io non ho competenze specifiche, professionali intendo, per recensire un libro di vignette satiriche, né questo m’è richiesto da alcuno. Ma un’affabulazione criteriata sì, me la posso concedere e la posso proporre. Ho così riunito qui qualche ricordo di letture remote ed aggiornate, e qualche riflessione rapida sul genere d’arte, io dico d’arte politica e sociale, piegata al vissuto sulla ribalta pubblica cioè, sollecitato da questo magnifico lavoro di Francesco Granatiero che mi è pervenuto, inaspettato, dalla Puglia in questi giorni e che esigeva, da uno privo di competenze in materia, ma capisce bene dov’è il valore non soltanto del tratto materiale ma dell’ideazione, almeno una segnalazione pertinente e motivata.

Il continuum storico dell’Italia

Dirò dunque, partendo dalla copertina, dove Granatiero ha voluto liberamente rielaborare la xilografia di Adolfo De Carolis a commento di quel motto funebre di Giuliano l’Apostata – «Bis pereo» – che Gabriele d’Annunzio aveva scritto destinandolo agli istriani di Pola, nel cui cielo volteggiava su un aereo un certo giorno d’agosto del 1918. La cronaca racconta che il poeta, salvatosi lui da un bombardamento nemico sul finire della grande guerra, aveva però perduto, in quello scoppio, un prezioso vaso di Murano custodito fra le cose più care: ne avrebbe allora raccolto i cocci e, avvolti in un drappo tricolore, li avrebbe lanciati sull’arsenale della città, unitamente al motto, appunto «Bis pereo», e a un dozzina di bombe… Questo per la storia (o la leggenda).

Ebbene, la xilografia celebrativa del gran gesto – una mano che, emergendo dal mare affollato di barche (immagino la baia di Buccari), alza al cielo una ghirlanda circolare di fronde espressione della flora del Belpaese – è qui raccolta da Granatiero il quale dà compimento a quell’atto dal sapore già patriottico: quella stessa ghirlanda allusiva ad un’Italia geografica egli la riempie infatti dei ritratti, e delle storie, dei padri della patria risorgimentale integrando, nazionalmente, le anime liberal-monarchica e democratico-repubblicana: con il profilo di Garibaldi, volto al Tirreno e alla sua lontana Caprera, che riempie l’Italia centrale, quello di re Vittorio – volto invece ad oriente –  che copre il sud della penisola (formando con le sue gambe sgraziate la Calabria ed il suo pizzo abbondante la Puglia), con Cavour sdraiato a terra che materializza la Sicilia e segnala la superiore dignità sabauda, ed il profeta dell’unità, Giuseppe Mazzini, meditabondo, che identifica la Sardegna: la Sardegna che egli difese nel 1860 dai mercanteggiamenti con la Francia, la Sardegna dei Tuveri ed Asproni entrata nella corrispondenza del Profeta con i piccoli di casa Soro-Pirino… Pio IX, a nuoto, lascia Roma temporale, lui sconfitto andando chissà dove (si era parlato, in quel tempo, di una domiciliazione proprio in Sardegna, nella chiesa cagliaritana di San Lucifero vescovo…). Ecco qui, da parte di un Granatiero in gran spolvero, illuminato e patriottico, la rappresentazione del santo, santissimo 20 settembre, o della breccia provvidenziale quale la avrebbe giudicata, cento anni dopo, il grande papa Paolo VI.

Mentre la coccarda tricolore rimanda, mi parrebbe, a quella repubblica cispadana (o a quella cisalpina) che un Bossi balordo avrebbe chiamato, nell’era disgraziata e quasi surreale di forza italia e della pappa… separatista/devoluzionista/federalista (con rincalzata dei similfascisti), Padania, una striscia sdoppiata ribattezza i mari: l’Adriatico con l’incipit «Dai “ristretti” padri», il Tirreno con la chiusa «al “largo” Pio IX». Formula commentabile in molti modi tutti pertinenti, ma che a me, repubblicano azionista, piace anche vedere in riferimento alla prigionia a Gaeta di Mazzini e al domicilio coatto (in verità a Caprera) di Garibaldi in quel gran giorno, il più grande del secolo decimonono secondo Gregorovius. Un assurdo: proprio Mazzini e Garibaldi apostoli della Repubblica del 1849, in cui cadde per il fuoco francese, ventiduenne, il poeta (di sangue cagliaritano) Goffredo Mameli… Granatiero – ne ignoro la collocazione ideale/politica, ma la immagino democratica, sulla scia magari degli azionisti pugliesi come i Calace, i Fiore o i Cifarelli, dei redattori perfetti di Nuovo Risorgimento – mi ha reso un gran favore celebrando, senza enfasi ma con molta luce, insieme il momento ed il memento…

Un libro di 51 tavole satiriche che raccontano, per scene e protagonisti emblematici, la storia d’Italia dall’unità ad oggi, marcando più il passato recente ed anche l’attualità ingloriosa che non le nobili fasi costituenti ora dello Stato, nel secondo Ottocento, ora della Repubblica, giusto alla metà del secolo scorso. Una galleria dunque di cento, quasi duecento (con le repliche nelle nuove associazioni) figure e allegorie dell’Italia nelle diverse stagioni della sua vita complessa e complicata. Una decina sono queste immagini simboliche, o metaforiche, del nostro paese nel tempo della rinuncia del Picconatore e del quasi contemporaneo tragico attentato di Capaci, nel tempo della morte di Pavarotti e in quello dell’ultima intervista di Biagi a Montanelli, nel tempo della sconfitta parlamentare – 161 voti contro 156 – del secondo governo Prodi e in quello degli incerti festeggiamenti del 150° dell’unità nazionale, come infine in quello dell’elezione presidenziale di Sergio Mattarella. Nel giro però non mancano i riferimenti alle speranze (e alle illusioni, o ai miracoli se si guarda all’oggi miserevole) della Cassa per il Mezzogiorno, o alle revolverate delle Brigate Rosse in risposta al patto possibile del cosiddetto compromesso storico, o ancora alla nascita del PDS dopo il crollo (internazionale) comunista, nell’attesa poi delusa dell’Ulivo… Non mancano gli sguardi allo scenario dell’Unione Europea ed al fare di qualche supremo leader del continente, dalla Merkel a Sarkosy, o del mondo, per dire magari di Barak Obama (quella volta in visita a L’Aquila)…

La folla dei numeri uno

In larga maggioranza si tratta dei nostri contemporanei non soltanto della politica, dei partiti e del governo, che pure conquistano più vetrine, ma anche della cultura a largo spettro – cinematografo e teatro inclusi – e della religione, dell’economia e della scienza, della magistratura e del giornalismo, il che l’autore ha brillantemente concluso raccogliendo e riordinando i tratti pensati e ripensati di Umberto Eco e Rita Levi Montalcini, dei papi in lunga sequenza da Pio XII a Francesco passando per  Giovanni XXIII e Paolo VI,  Giovanni Paolo II (in visita al Parlamento italiano) e Benedetto XVI (neoeletto fra gli zuavi democristiani), di Totò e Benigni, Fellini ed Eduardo, Sordi (al suo congedo) e Proietti (forse il suo erede), Fo il giullare del mondo e Banfi consumata maschera pugliese, oltreché di Montanelli e Biagi – si perdoni l’accostamento – anche di Feltri e Boffo, e di Giovanni Falcone ed Antonio Di Pietro, e Fazio il governatore screditato e sfiduciato… Come un giornale più che un libro: le immagini e le didascalie scorrono riportandoci al nostro stesso ieri e forse all’oggi neppure completamente e esaurito e sono Babbo Natale e Pinocchio, soprattutto Pulcinella ad aggiungere le voci di dentro, non univoche ma oneste, chi per avvertire della cattiva gestione del passaggio all’euro, chi per ammonire o avvertire dell’imparzialità del presidente quirinalizio. Anche Dante e Leopardi – il Leopardi della “ginestra” e della sua giovin vecchiezza – hanno il loro spazio, che è più d’una nicchia: è una presenza che bisogna saper cogliere nel trambusto dei tempi nuovi.

Cronaca e storia si danno la mano. Il passato è riletto con gli occhi di oggi, l’oggi è misurato con il metro della miseria in cui pare sprofondato lo spirito pubblico e il senso dello Stato. Aprono i risorgimentali e gli umbertini, da Mazzini a Garibaldi, da Cavour a Ricasoli, da Depretis a De Sanctis, per arrivare, passando per Pio IX e Verdi (e V.E.R.D.I.),  a Giolitti e poi a Mussolini il guerrafondaio, in accompagnamento della successione Savoia (fino agli ultimi innobili rampolli istanti un improbabile risarcimento dalla Repubblica), si copre la stagione costituente dei De Gasperi e Togliatti, per arrivare ai presidenti del gran Palazzo – da Einaudi a Leone, da Pertini a Cossiga, a Scalfaro (quasi mitrato e bacolato) e Ciampi fino a Napolitano e Mattarella, ed a quelli dell’esecutivo, da Fanfani e Moro ad Andreotti l’eterno (dallo «statalismo dinamico» al «modellismo statico»), misterioso e forse anche misterico sovrintendente (piduista?), da Spadolini il professore a Craxi il collezionista (il Craxi del «bis pereo» anche lui), agli ultimi duellanti Prodi e Berlusconi fino a Monti, Letta il camapanaro e Renzi, nel mezzo Dini, Amato e D’Alema e d’intorno anche Padoa Schioppa e Marini, Brunetta e La Russa, Tremonti e Casini, Russo Iervolino e Grillo tutto barba e capelli, Fassino, Bersani e Padoan con – si perdoni anche questo accostamento – Denis Verdini, Fini e Maroni, Bossi ed Alfano, Veltroni (il babbo, o anzi la mamma del PD) e Bertinotti, Pera il filosofo e la Bindi, i pugliesi Nichi Vendola neopapà di Tobia creatura bella e Michele Emiliano…

S’affacciano anche Massimo d’Azeglio (mercanteggiato da un’Alitalia in predicato di farsi francese) ed Alfonso della Marmora, Benedetto Croce il monumento di saviezza e Sgarbi il centraliere omnibus, s’affacciano i pessimi inimmaginabili come il Fuhrer esplosivo ammazzamondo ed i leggeri pensanti come Forattini e lo stesso autore immortalato nelle sue buone azioni: ammirato e ancora sagomato ora da Manganaro il suo maestro ora nientemeno che da Michelangelo il Buonarroti.

Ce n’è, ce n’è tanta di storia e di cronaca, di intelligenza critica e di comunicazione allusiva in queste centoventi pagine di Granatiero. Valgono un Saitta, uno Spini, un Villari della nostra storia e della nostra università… Tu sfogli, risfogli e risfogli ancora, metti in rapporto una tavola con l’altra, hai capito tutto o quasi tutto, puoi andare infine tranquillo a sostenere l’esame. Il 30 è garantito.

Granatiero e la Sardegna

Intanto, in conclusione… una premessa. L’autore di questo gustosissimo Ricordo Chiaroscurissimo vignette satiriche, Francesco Granatiero cioè, l’ ho incrociato sulla strada di Efisio Marini, il nostro celebre medico pietrificatore dei cadaveri, eroe della scienza non amato dalle accademie sarde e nazionali ma apprezzato e quasi venerato da quelle straniere, francesi ed austriache, tedesche ed inglesi… Si sa che, sperando nella cattedra e ricevendo all’incontrario soltanto l’offerta di un insegnamento annuale, ancorché con promessa (verbale) di conferma sine die, in cambio del disvelamento di quella formula chimica che superava il disfacimento della morte, il Nostro lasciò Cagliari, trentatreenne, nel 1868, per trasferirsi a Napoli. Dove entrò in grandi relazioni – anche Bovio fu sulla sua strada, Bovio il grande filosofo del diritto e numero uno del mazzinianesimo italiano dopo la morte del Profeta –, dove sperò d’ottenere quel che gli si negava nella sua Isola, dove contò all’inizio (soltanto all’inizio) su un certo benessere, dove replicò attese, illusioni anzi, frustrazioni e sfinimenti morali. Dove anche pietrificò il cardinale arcivescovo Sanfelice, di cui ho recuperato recentemente, nel mare magnum delle carte e dei files, una immagine estrema, lui mitrato sul catafalco…

Della vicenda partenopea di Marini, vicenda che durò fino alla morte, giunta nell’autunno 1900,  ebbi modo di occuparmi, con lunghe letture e riunione di documenti, negli anni scorsi, quando fortuitamente scopersi anche dell’esistenza di una vignetta caricaturale che, con la didascalia «non c’è che lui, non c’è che lui», lo ritraeva già quasi anziano, con ampia calvizie e due grandi baffi a manubrio, uno sguardo mesto e pensoso, una piccola borsa scura a tracolla sul rendigote, e le mani dietro la schiena a reggere un bastone che in capo ha (ma qui è rovesciato e gioca fra le gambe) una lunga mezzaluna – la falce della morte – con la scritta del memento del mercoledì santo delle ceneri: «et in pulverem reverteris». Mi detti a cercare quel disegno, ignoto forse a tutti qui da noi e chi mi soccorse fu quest’anima gentile e onesta e talentuosa in proprio di Francesco Granatiero, nativo di Manfredonia, la stessa cittadina che aveva dato i natali, cento anni prima (meglio… 131! cinque generazioni), a quel disegnatore ingegnoso e brillante, ad Antonio Manganaro cioè, l’autore del preziosissimo Montecitorio-Album dei 500, rappresentazione descrittiva di parlamentari della Camera alta e di quella bassa, dei ministri e dei loro presidenti, ma anche di Il Palazzo S. Giacomo–Album degli 80 al Municipio di Napoli (1876 /1877) e di molto altro

Come detto, Granatiero è, oltre che vignettista con una geniale abilità tutta sua – vedere per credere – un cultore dotto e profondo della materia, uno studioso di larghi spogli, che ha anche scritto e non soltanto disegnato, ed è anche fra i biografi più sapidi di Manganaro che ha saputo inquadrare nella temperie culturale ed artistica tanto più del meridione pugliese e campano del secondo Ottocento e del primo Novecento.

Da allora, sono diversi anni ormai, ci siamo frequentati, Granatiero ed io, e, come oggi avviene sempre più di norma, via email – cento invii da parte mia, cento da parte sua con i corredi sempre generosi e abbondanti delle sue creazioni. E nel dibattito impostato fra le tastiere e i visori dei pc di casa o di studio è emersa la prepotenza interrogativa, convessa, da parte mia, e la disponibilità accogliente, concava, da parte sua, di cogliere e valorizzare – nella logica dei “ponti” – quel che può unire la Sardegna al vasto mondo dei caricaturisti nazionali ed europei, e anche, naturalmente, dei caricaturati. Sicché, se il dottor Efisio Marini ci dette, a suo tempo, il la su quella strada del raccordo tematico, ci siamo messi a pensare alle occasioni della storia, agli ambienti ideali e materiali che possano essersi connotati come motivo di relazione. E in cambio di quel che lui ha fatto, con questo Ricordo Chiaroscurissimo, in onore della mia terra a lui «artificiere della satira», come è stato definito, offrirò infine qualche spunto per nuovi affondi d’arte…

Dov’è la Sardegna, dove sono i sardi – Francesco Cossiga ed Enrico Berlinguer in rappresentanza di tutti – fra le cinquantuno tavole adesso al giudizio del pubblico? Detto della raffigurazione liberal-unitaria, finalmente senza papa Mastai e con Mazzini fatto sardo e anzi Sardegna stessa nel gran mare dirimpetto alla nuova capitale, è da dirsi dello sforzo combinato dei capi supremi della DC e del PCI per la “ricostruzione” postbellica dell’Italia e per le suture delle aree deboli a quelle più forti: Togliatti spilla la Sicilia al continente, De Gasperi, in piedi sopra una cassa (forziere)… del Mezzogiorno,  lo fa del meridione con le regioni del centro-nord, tenendo con la mano libera una Sardegna da meglio collocare nel nuovo disegno della storia repubblicana.

La sagoma della nostra Isola ritorna nell’inforcatura del piccone cossighiano, alle dimissioni anticipate, il 28 aprile 1992, del presidente che, uno stivale per gamba, s’allontana rapido calcando la Sicilia.

E a dire adesso della Sicilia. Anche nella scena della gloria di Giovanni Falcone, il 23 maggio di quello stesso 1992, la Sardegna compare, minuscola rispetto alla Sicilia della malefica carneficina, con il cappuccio dei banditi, disgrazia minore, dell’Isola minore, rispetto alla cultura e al fuoco della mafia. (Ma questa, preciso subito, è una mia libera interpretazione, all’autore forse interessando soltanto aggiungere, alla scena dell’agguato mortale sulla strada di Capaci, un altro elemento allegorico: e la falce in mano all’incappucciato rimanda a un messaggio ancora di morte).

Discutono e s’intendono Moro il pugliese di Maglie con Berlinguer il sardo di Sassari – l’ho detto più avanti – ignari sopra la pistola minacciosa delle Brigate Rosse. Sullo sfondo un quadro precario ritraente papa Montini, sconfitto anche lui e prossimo alla morte. Il giudizio di Andreotti è di bocciatura netta e s’esplicita in un cartello che pare una sentenza di tribunale, accanto a un bossolo di revolver.

Qualche ponte fra l’Isola e la Puglia

I ponti interregionali, di cultura e varia umanità, per concludere. Così fra la Puglia e la Sardegna, fra la Sardegna e la Puglia. L’avevo promesso una volta a Francesco Granatiero…

Si parte sempre dai santi, e dire che San Nicola vescovo – turco di nascita ma barese di approdo devozionale post mortem – è patrono onorato in Sardegna in più di cento siti, ora urbani ora campestri, ora montani ora costieri, è raccontare di un culto quindici volte secolare, che ha portato ad intitolazioni addirittura di cattedrali, come è stato a Sassari (egli è il patrono del capoluogo turritano) ed anche ad Ottana (edificio storico, medievale, sul quale sono ormai numerose e felici le pubblicazioni di riscoperta e descrizione). Il carisma del santo è assunto a protezione di centri d’ogni subregione dell’Isola, da Baunei a Tadasuni, da Simala a Bortigiadas, da Siapiccia a Guspini, da Irgoli a Semestene, da Santadi a Loiri San Paolo, da Narcao a San Vero Congiu, ad Ortueri… a, naturalmente, San Nicola d’Arcidano e San Nicolò Gerrei, a Nughedu San Nicolò…

E a proposito di devozioni e religione. Come mancare di accennare a un sardo illustre che fu vescovo amato a Foggia – diocesi contermine a quella di Manfredonia –, per sette fruttuosi anni? Il nostro caro e indimenticato monsignor Paolo Carta (che allora, saltando l’algido e diffidente collega ordinario appunto di Manfredonia, coltivò il rapporto con il cappuccino padre Pio da Pietrelcina, tanto da promuovere poi e animare i “gruppi di preghiera” nella Isola, dove Giovanni XXIII l’aveva riportato nel 1962 per governare l’archidiocesi di Sassari). Vescovo sardo in terra pugliese, successore, per fare soltanto un nome, di quel frate Giovanni Maria Sanna, e predecessore di don Salvatore Isgrò, che governarono entrambi a lungo la Chiesa di Gravina e Irsina…

Ma non potrebbe dire la Puglia, per contro, di un tranese come Giovanni Bovio, papa laico e santo in proprio, così amato nei circoli repubblicani e massonici della Sardegna del secondo Ottocento? Quel Giovanni Bovio che dettò le epigrafi per lo stellone cimiteriale di Giovanni Battista Tuveri, e per la lapide di Vincenzo Brusco Onnis, sempre nel monumentale di Bonaria, o ancora – nel 1902 – per ricordare sul marmo… imperituro, all’università di Cagliari, Efisio Marini? Giovanni Bovio alla cui morte un comitato cagliaritano si dette a raccogliere, e raccolse, ampie contribuzioni per un monumento che dal 1905 e fino a che i fascisti lo sopportarono, avrebbe guardato, dallo square presso il porto cittadino, verso la stazione ferroviaria, accogliendo attorno a sé, per i loro comizi, i giovani bruniani ed anticlericali cagliaritani degli anni anni 1908-1910, Antonio Gramsci ancora liceale fra essi?

Sacerdozio religioso e sacerdozio laico. Aggiungo, omaggio all’arte dottamente leggera di Granatiero, un altro sacerdozio: quello sportivo. Chi si ricorda – io non c’ero – che nei primi campionati di rango nazionale, il Cagliari se la combatté più e più volte contro il Foggia ed il Lecce? Semifinali Lega sud girone A, anno 1929. Vittoria del Cagliari nella partita d’andata, al campo di viale Trieste (poi via Pola), pareggio alla gara di ritorno a Foggia; doppia vittoria del Lecce contro i rossoblu…

E potrei dimenticare, degno di San Nicola, San Mario Martiradonna, barese terzino destro del Cagliari dello scudetto, nella stagione 1969/70 e di altri, mi sembra, dieci campionati e prima e dopo? Ma con San Martiradonna – un gentiluomo semplice, figlio del popolo davvero, buono e corretto (che abbiamo avuto con noi fino ad una età ormai matura, fino al triste e doloroso congedo), quanti altri dovremmo ricordarne di atleti di talento pugliese che abbiamo visto giocare sui nostri campi cagliaritani e sardi? Ne ricordo qualcuno, e sia anche questo omaggio speciale a Granatiero e, insieme, al Cagliari tornato oggi in serie A: Giovanni De Rosa da Cerignola, ala sinistra/centravanti; Carlo Cornacchia da Altamura, stopper; Nicola Di Bitonto da Barletta, secondo portiere (cinque stagioni con i rossoblu); Francesco Moriero da Lecce, ala destra; Antonio Bitetti da Ginosa, centrocampista; Vincenzo Lambertini da Molfetta, difensore; Eupremio Carruezzo da Brindisi, attaccanti; Nicola Deliso da Palese, difensore; e chissà ancora quanti di ulteriori ne troveremmo a sfogliare con pazienza gli album generosi della Panini…

Di anni addietro, ricordo una collezione di caricature dei giocatori del Cagliari, pubblicata da qualche giornale locale. La storia, quella grande della politica sì, ma anche quella minore (?) dello sport e delle emozioni collettive, si può davvero raccontare anche con la penna del vignettista.

 

 

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