Attorno a su scannu’e tabas, ad Arbus: un racconto lungo di Gianfranco Murtas.

 

 

Una famiglia, fra le mille circa della comunità paesana nel mezzo secolo che cavalca Ottocento e Novecento: di quell’Arbus che declivia dalla sommità di Genn’e Frongia  spalmandosi in un territorio amplissimo e fascinoso come pochi, vario nella tipologia dei suoi compendi, da montagna a marina, da bosco a spiaggia; che campa di miniere ed agricoltura, che conosce i conflitti sociali di Ingurtosu, e anche quelli politici del tempo, alla vigilia del risucchio nel nuovo regime politico. Proprio quando il riformismo socialista, in municipio, faceva pensare a un superamento definitivo delle consolidate leadership notabilari. L’Arbus delle tradizioni rurali, delle devozioni (anche in qualche modo pagane) ai suoi patroni del Cielo, l’Arbus dei giochi semplici dei suoi bambini: ora sono le ombre di una cinematografia dal vero, ora l’inutile chincaglieria venduta alla bottega naif, ora i pupazzi di stoffa giostrati come frignoni… L’Arbus delle scuole affollate di piccoli istruiti da insegnanti che valgono come istituzioni, l’Arbus dei preti e dei mangiapreti, dei telai e dei forni in casa…

Protagonista della storia è una famiglia che va in boccio nella parrocchiale di San Sebastiano nell’anno 1905, e si proietta, con caute speranze, innocente e laboriosa, in un avvenire che sarà ampiamente ingrato. Fecondità e lutti frequenti, accettati nella loro ciclicità naturale… I commerci allestiti negli spazi domestici, ora è per il latte ancora caldo di mungitura, ora per la carne macellata nella stessa corte, per la frutta e gli ortaggi provenienti dal salto tutti i giorni accudito… Il racconto della esperienza di vita degli Aru-Figus e degli Aru-Atzeni – tutta combinata sull’intreccio degli affetti parentali, che associa fra di loro più generazioni – prende l’avvio nell’anno 1923, per rientrare subito nel flash back della memoria. Con le partenze per il fronte della grande guerra, e i ritorni attesi…

 

«Mater purissima, castissima, inviolata, intemerata, amabilis, admirabilis, boni consilii…». Tutt’attorno alla salma di Severa Aru, nella casa ancora più incupita di sempre, le donne si consolano a vicenda con il latino orecchiato fin dalla prima infanzia e memorizzato come un ritmo di filastrocca. «Virgo prudentissima, veneranda, praedicanda, potens, clemens, fidelis…». Nel mistero delle formule sembra esserci come un magico lasciapassare offerto alla defunta per il Paradiso ed un balsamo per chi è in lutto. «Rosa mystica, Turris Davidica, Turris eburnea… Domus aurea, Foederis arca, Ianua caeli, Stella mattutina, Salus infirmorum…». Sì, salus infirmorum… Il pensiero vola al lungo tempo della malattia e a quel fiotto agonico così assurdamente indifferente alle preghiere non meno che alle cure. E’ un rito tutto al femminile. L’assemblea orante convoca, con fede, la benignità della Vergine e Madre di Nostro Signore, implorando la salvezza eterna per colei che è cresciuta nell’amore ed amore ha generato fino a consumarsi.

«Deus ti salvet Maria… Mamma de Deus, pregai po nosatrus peccadoris, imoi e in s’ora de sa moti nosta, i aici siada». Un’altra delle pie donne attacca, rapida, l’Ave Maria nella lingua conosciuta, pensata e parlata dalle generazioni. Da sotto gli scialli neri si levano, a sbotti intermittenti, anche is attitidus della tradizione. In un attimo se ne riempie l’affollato ambiente e un’eco straripa verso la strada che non ha voce ma soltanto udito, e dalle case tutto raccoglie e registra. Dal campanile della parrocchiale i tocchi funebri della campana de is Animas avvertono coloro che ancora non sono informati.

 

Quia pulvis es…

Deposta sopra il letto nuziale ornato dal bellissimo drappo di pizzo bianco che lei stessa aveva finemente lavorato, la morta ha, secondo l’usanza, i piedi volti in direzione della porta, forse a voler alludere al viaggio verso lo sconosciuto ma senz’altro miglior mondo degli eletti. Veste un abito lungo e scuro, forse quello da sposa, adeguato alla solennità di quel transito ed ai toni di quel tramonto protrattosi per alcuni mesi. Sul capo e le spalle porta un grande scialle nero ricamato. Sotto lo scialle, a proteggerle i capelli, un altro fazzoletto marrone. Fra le mani congiunte le sono stati posti il rosario e un piccolo crocifisso. La veglia funebre pare una scena teatrale, dove copione e recita a soggetto giocano mescolandosi. L’acqua benedetta dell’aspersorio di prete Lampis, le sue preghiere mormorate e quelle proclamate, l’indomani, convertono quindi in un che di cristiano un congedo dalla paradossale apparenza pagana. Sia un monito per tutti e per ciascuno, «quia pulvis es et in pulverem reverteris, chi ses terra e chi a terra has’a torrai! Totu es terra e tristura…».

Giungono in casa i confratelli con la loro preziosa croce d’argento e si ordina la mesta processione. La salma viene accompagnata al nuovo camposanto di San Paolo. Il corteo riunisce umili e benestanti: c’è il riguardo alla famiglia, nota e stimata in paese, ma c’è soprattutto la pietà che tutti provano, sincera, e intendono manifestare per chi è stata battuta dal destino crudele.

Il giorno seguente l’appuntamento è nella chiesa modesta e pur bella di San Sebastiano, che profuma di fiori e d’incenso. Al centro è il catafalco, coperto da un largo telo nero e circondato dai ceri accesi. Paludato nei suoi abiti liturgici di lutto, il celebrante intona il salmo 129 – «De profundis clamo a te, Domine…» – ed il salmo 50 – «Miserere mei, Deus, secundum misericordiam tuam…» -, e la suggestione, nel tempio quasi in penombra, nonostante il recentissimo impianto del sistema elettrico, coinvolge tutti i presenti.  Sono versetti potenti, parole che avvolgono, riassorbendola, ogni paura e restituiscono una certezza: Domineddio non è terribile e tutto perdona. Cento, mille volte di più la sua indulgenza raggiunge chi ha patito, chi ha dedicato le sue sofferenze a una causa più grande della propria vita, alla gloria di Dio stesso, alla fortuna spirituale e sociale dei più cari, soprattutto dei figli generati e cresciuti con amore.

Setticemia. La moglie di Giovanni Aru ha ceduto ad un’infezione che i medici non hanno saputo domare, un’infezione che s’è sviluppata come strascico dell’ennesimo parto, anche questa volta, come altre precedentemente, infausto. Per molte settimane, dopo quel 1° agosto data della sfortunata nascita, non s’era quasi mai alzata dal letto. La febbre costantemente alta ed il malessere provocato da una dolorosa e persistente emicrania all’origine di un certo ottundimento della coscienza – peraltro mai sconfitta del tutto – avevano cadenzato l’incontenibile declino di un organismo già segnato dalle troppe gravidanze. Per tutto il lungo periodo suo marito l’aveva assistita, vegliandola con l’anziana suocera, con Santina Onnis e altre amiche del vicinato.

Quando lo scadimento delle sue condizioni s’era fatto più evidente allarmando tutti, qualcuno aveva anche pensato di trasferirla, per un intervento estremo, all’ospedale di Cagliari, ma la mancanza di una vettura subito disponibile aveva impedito quel disperato tentativo di strapparla alla morte. Allora Giovanni Aru era stato preso da un impeto di rabbia furiosa che aveva sfogato armeggiando le cesoie come un nemico. Rapido s’era scagliato contro quel carico spontaneo di grappoli d’uva dagli acini grossi come noci che, con ostinazione, aveva voluto lasciare ad ornamento del pergolato domestico, sperando di poterli cogliere presto con la moglie risanata. Con l’animo arreso del perdente aveva assistito al trapasso e lo choc gli aveva cambiato, in un giorno solo, il colore dei capelli: da rossicci s’erano fatti tutti bianchi.

Alle 10.30 del mattino di giovedì 8 novembre 1923 il cuore della sua dilettissima compagna di vita aveva cessato di battere, e subito erano venute a casa, una dopo l’altra, e a gruppi, le amiche, e dopo gli altri, tutti quanti dovevano partecipare le proprie condoglianze. Ed ora eccole, le donne, e da un’altra parte gli uomini, a pregare ed a bisbigliare le parole di conforto ai parenti.

E le bambine? Esse erano preparate alla notizia: Derigna soprattutto, la maggiore, ormai quattordicenne, che in quei giorni e mesi aveva condotto la casa, ma anche Clelia, che aveva soltanto 11 anni. Le altre, le piccole, da alcuni giorni erano state allontanate. Le crisi convulsive della madre, resesi via via più frequenti, avevano creato un’aria di morte incombente che non era giusto far respirare alle bambine, le quali però avvertivano egualmente la sensazione della tragedia ormai prossima. Meno consapevoli, forse, Idina e Gesuina, rispettivamente di 9 e 4 anni, anch’esse mostravano d’intendere la penosa malinconia del lungo momento.

Era stata Idina, forse, la prima ad accorgersi del decesso della madre. Quel giorno stava aiutando, con le sorelle, suo padre nella “vendemmia” di s’otixeddu che era iniziata molto presto. Eccitata era corsa a mostrare a sua madre il rigoglio di un grappolo che avrebbe dovuto deporre nel grande canestro approntato là accanto. «Castiri, mamai…». Ma Severa Aru, giusto in quell’istante, aveva reclinato il capo, aprendo il suo colloquio, faccia a faccia, con Domineddio, il Signore della vita e della morte. Una dopo l’altra erano accorse le sorelle: «Mamai, rispondeimì…», avevano implorato, ma nella camera era già sceso il silenzio.

Ora qualcuno le ha accompagnate a vedere la salma composta in camera; qualche altro, dopo, ha deciso di risparmiare loro il trambusto di quelle visite e di quegli strepiti, e quindi stabilito di distribuirle fra alcune famiglie, sempre di parenti o del vicinato. Per alcuni giorni, forse qualche settimana, la solidarietà paesana alleggerisce i pesi dei più stretti congiunti. Idina va dallo zio Bissenti, Gesuina – che in braccio alla nonna assisterà a qualche breve scena del funerale – è accolta dall’altro zio più grande, Loi, che avrebbe desiderato crescerla insieme con sua moglie che non poteva dargli figli. (Era stata la stessa Severa Aru – secondo quanto se ne sarebbe riferito post mortem – a raccomandare a suo marito di affidare la più piccola a Loi ed Assunta e le altre, possibilmente, alle rispettive madrine, che erano anche sue e fra di loro, pur diversissime, cugine).

Esse riprenderanno presto, comunque, a vedersi: i cortili delle singole case mancano di qualsiasi muro divisorio e costituiscono un solo ampio spazio che è luogo d’incontro e, per chi ha l’età, di gioco.

 

Stremata dai parti

E’ ancora giovane Severa Aru quando se ne va: ha 42 anni, li ha compiuti nella prossimità quasi della morte e può ben dirsi che quello sia stato il compleanno più anomalo, e anzi misero, che potesse immaginarsi, senza sorrisi e mesto. Ella ha trascorso l’intero arco della sua età fertile, appunto fino al compimento, cercando di dare figli al suo sposo. Ha consumato la propria breve esistenza nella fissità del ruolo che le era stato ritagliato dal costume del suo tempo e che aveva accettato come il solo, per lei, appagante: moglie e madre. A questo s’era preparata nel disciplinato apprendistato che aveva svolto in casa dei suoi. Un certo sabato dell’autunno 1905 (l’11 novembre per la precisione) aveva poi sposato nella parrocchiale arburese quel compaesano e coetaneo – 24 anni anche lui – che portava il suo stesso cognome, pur non essendoci alcuna parentela fra le due famiglie.    

La loro era stata un’unione feconda: sei figlie, anche se soltanto quattro viventi, per non contare i parti infausti… Uno era stato addirittura gemellare, verso la fine del 1910, un altro – il primo della serie, nel 1906 – podalico, rischiosissimo anche per la puerpera, e quindi era toccato a quello agostano del 1923 che aveva portato la sua tragica conseguenza.

Nessuna delle gestazioni di Severa Aru – se si esclude forse quella mediana di Clelia – era stata, in verità, facile: per tutte ella aveva dovuto richiedere l’assidua assistenza del medico, il dottor Tuveri, oltreché dell’ostetrica signora Mariangela Altea, una guspinese che aveva fatto famiglia ad Arbus… Il sovrappeso dei nascituri rendeva problematici i parti, per cui non poteva bastare la perizia della levatrice. E per i maschi – il sogno di Giovanni Aru – le difficoltà si erano sempre moltiplicate ancor più, tant’è che nessuno ce l’aveva fatta, di quelle creature chiamate a vivere, a respirare anche solo un attimo della vita… Forse era questione di conformazione del bacino della donna, certo è che i travagli si erano allora prolungati fuori norma determinando una sofferenza fetale non recuperabile. Ogni parto, puntualmente preparato dai salassi di sanguisughe che le “anziane” del vicinato le applicavano al braccio allo scopo di abbassarle la pressione arteriosa, si era poi trasformato in un autentico blackout per la sua salute, e lei ne usciva ogni volta sempre più provata e spossata. Lentamente iniziava quindi la risalita, puntualmente destinata a una brusca interruzione quando una nuova gravidanza s’annunciava per l’anno.

Secondo l’usanza non presenziava al battesimo della sua creatura e invece compitamente partecipava al successivo rito di s’incresiamentu, o “purificazione”, che in quanto puerpera la vedeva protagonista. La cerimonia si svolgeva circa al quarantesimo giorno dopo il parto: ella riprendeva ad uscire di casa proprio allora e, accompagnata dalla levatrice e col piccolo – anzi la piccola – in braccio, raggiungeva la chiesa. All’ingresso era accolta dal sacerdote che la conduceva all’altare per la preghiera di ringraziamento e la speciale benedizione.

Una volta, proprio dopo la funzione, era stata molto male. Rincasata aveva voluto occuparsi di qualche faccenda nei pressi della sua abitazione. Era però svenuta per la troppa debolezza e fortunatamente qualcuno che passava in quella strada l’aveva scorta e subito soccorsa.

Con l’ostilità della sorte Severa Aru aveva dovuto fare i conti, in verità, da sempre. Né, peraltro, era diverso nelle altre famiglie, nelle altre case del paese, e questo, in qualche modo, consolava, perché‚ abituando all’idea dell’ineluttabilità del male – fosse malattia o addirittura morte – ne relativizzava il portato. Secondogenita di Giovanni Maria Aru Schirru, originario di Gonnosfanadiga, e di Angela Atzeni Racis, da ragazza era vissuta nell’abitazione che i suoi possedevano nella zona dell’ospedaletto, dove per lungo tempo aveva avuto la sua sede il presidio sanitario della miniera di Ingurtosu e dove poi erano state ospitate alcune classi scolastiche maschili. Qui era cresciuta, con la sorella Angelica, impegnata nelle quotidiane faccende domestiche ed imparando da qualche amica esperta a cucire e ricamare. Avrebbe pur dovuto, un giorno, prepararsi il corredo!

 

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