L’Europa, la Democrazia e la Massoneria, di Gianfranco Murtas

L’esito del recente referendum popolare nel Regno Unito circa la permanenza o meno di questo nella Unione Europa, a 43 anni dalla firma dei trattati di adesione, ha riproposto alla attenzione della pubblica opinione anche continentale, e dunque anche nostra – italiana e sarda – l’attualità dell’ideale federalistico, quasi in bilanciamento delle considerazioni sovente amare circa come, nel concreto, la tecnocrazia di Bruxelles e delle altre sedi comunitarie ha tradotto, nell’economico e nel mercantile, aspirazioni e ambizioni etico-civili di tanto peso e tanto periodo.

Qui di seguito pubblico il testo completo (e inedito) della relazione – “Massoni nel percorso di unione europea” – che, di necessità andando per sintesi, presentai l’8 maggio 2010 al convegno organizzato dalla cagliaritana loggia massonica Europa n. 1165, all’obbedienza del Grande Oriente d’Italia, nel quadro del meeting allestito, nella capitale isolana, tappa di calendario degli incontri annuali fra le diverse logge di radice latina, anglosassone e slava, portanti il medesimo titolo distintivo (“3rd International Europe Lodges Symposium”) all’insegna di “Massoneria e unione dei popoli europei”.

Siamo ora quasi alla vigilia del 300° anniversario (24 giugno 1717) della fondazione della Grand Lodge of London, madre di tutte le logge regolari del mondo, e anche questa circostanza induce a riflettere, nell’ottica di una corporazione umanistica di tanta potenza valoriale, sull’attualità dei patti d’integrazione di nazioni e continenti – e al loro interno, fra territori regionali e soggetti socio-culturali e professionali collettivi –, contro frantumazioni ed egoismi centrifughi, sovente frutto soltanto di supponenze, autoreferenzialità e devastanti forzature nazionalitarie.

Si combina a tanto, sul piano anche della elaborazione politica venuta dalla migliore sinistra sarda del Novecento – mi permetto questa brevissima digressione che riflette il mio sentire personale di repubblicano – quell’idea alta di autonomia come sistema di “dipendenze reciproche” che fu proposta, non pensando soltanto a realtà statuali ma alle complessità della società civile, da un intellettuale del valore di Sebastiano Dessanay e da quei tanti massoni come Antonello Satta e Vindice Ribichesu che a lui furono, in vario modo, vicini: «… ogni popolo vive in un tessuto di rapporti, condizionamenti e cooperazioni, all’interno del quale soltanto si può diventare originali e indipendenti. Il che significa che, non in quanto si sia uno stato, ma in quanto si sia una vera autonomia, si può diventare indipendenti, cioè soltanto nel rapporto con gli altri, in una dipendenza reciproca. In altri termini, ogni popolo sarà indipendente, se troverà dentro di sé e ricreerà e reinventerà, nella sua storia, quei valori che potrà e saprà cogliere nel suo rapporto con gli altri popoli».

Tutto si tiene: universalismo e radicamento, sovranità devolute o condivise ed orgogli d’appartenenza. Come patrimonio sapienziale storicizzato per eccellenza, non dottrinario dunque e neppure politico in senso stretto, quello massonico ben può presentarsi al confronto con ogni altra scuola, per dare e per ricevere.

Massoni nel percorso di unione europea

La presente relazione tende ad illustrare la partecipazione dei massoni italiani agli ideali ed al progetto dell’Europa confederale, a partire dal risorgimento nazionale per arrivare all’epoca attuale.

La prima scena presentata, di valore emblematico, è quella degli anni ’30 del Novecento, quando in larga parte del vecchio continente la Libera Muratoria subisce persecuzioni ed a Parigi i dignitari di alcune Obbedienze costretti all’esilio si incontrano per firmare un patto di speciale solidarietà: la solidarietà delle vittime che vogliono reagire ai soprusi dei regimi illiberali e fondare, quando possibile e in democrazia, un nuovo sistema di relazioni che dalle Comunioni fraternali si estenda agli Stati d’Europa.

Le Massonerie Perseguitate

Solstizio d’estate 1937. A Parigi, in Rue Puteaux 8, sede della Gran Loggia di Francia, si svolge l’assemblea di fondazione della Alleanza delle Massonerie Perseguitate. L’iniziativa è stata presa dall’Autorità del Grande Oriente d’Italia che il giorno prima, nello stesso Tempio parigino, ha riunito i delegati delle logge all’obbedienza di Palazzo Giustiniani zittito in patria. Presenti i dignitari di officine incardinate a Parigi e a Londra, ma anche a Buenos Aires, e i rappresentanti di varie logge italiane di Tunisi e Alessandria d’Egitto, e di altri gruppi “clandestini”. Presenti in amicizia anche gli esponenti di tre Gran Logge o Grandi Orienti dell’America centro-meridionale: di Cuba, Venezuela e Uruguay.

Da ormai tre lustri il fascismo, complice la monarchia Savoia, ha infeudato lo Stato. I leader della democrazia italiana sono dovuti in gran parte emigrare, e la Francia raccoglie la maggior parte degli esuli. Né sono qui soltanto i fuoriusciti italiani, ma anche quelli di numerosi altri paesi che soffrono una analoga condizione di privazione delle libertà civili e politiche.

Le Massonerie nazionali hanno subito ovunque la medesima sorte, impedite di vivere il corso ordinario della loro missione umanitaria e civile dalle dittature che sono salite al potere il più delle volte radicandosi nelle istituzioni liberali, scalandole all’apparenza legalmente, ma progressivamente anche svuotandole del loro intrinseco contenuto. Riduzioni o sospensioni di diritti associativi si sono diffusi a macchia di leopardo anche in paesi dove i regimi politici hanno conservato tratti democratici, pur se a presidiarli sono governi reazionari, talvolta a copertura militare e clericale. Ci sono poi quelle Comunioni soffocate, ad oriente del continente, dal comunismo stalinista e già leninista e/o trozskista. «La Massoneria è la più disonesta ed infame truffa per il proletariato da parte di una borghesia indirizzata verso posizioni radicali. Noi ci vediamo costretti a combatterla fino ai limiti estremi»,così si pronuncerà nel 1938 la IV Internazionale Comunista.

Il quadro informativo sullo stato massonico europeo è drammatico, costituito come è da segnalazioni di persecuzioni, violenze, minacce, sospensioni… Così dunque, oltreché in Italia, in Germania, in Austria, in Svizzera, in Olanda, in Finlandia, in Polonia, in Ungheria, in Romania, in Russia, in Turchia…

In terra elvetica un referendum per lo scioglimento della Libera Muratoria è promosso dal movimento fascista regionale; in terra tedesca, anche prima dell’ascesa hitleriana al cancellierato nel 1933, una campagna di stampa e d’opinione contro la “sinagoga di Satana” (includente ebrei e massoni – purtroppo frazionati in almeno undici Comunioni che realizzano, di fatto, una “disComunione”–, e poi anche riformatori protestanti) è lanciata dagli ambienti reazionari e raccoglie crescenti adesioni, visibilmente sacrificando dall’«albo d’oro» – come lo definisce Aldo Alessandro Mola (1) – della cultura germanica nomi come quelli di Lessing, Goethe e Mozart, e poi riscrivendo la storia della prima guerra mondiale perduta a causa di «tradimenti massonici»… Esclusi e congedati gli ufficiali dell’esercito massoni, imprigionato e spedito in un campo di concentramento il Gran Maestro Bordes ed il Venerabile della più antica loggia di Amburgo, saccheggiati tutti i Templi, così come a Vienna e in tutta l’Austria di fatto annessa, anche prima dell’Anchluss del 1938, al Reich.

Non saranno momenti sereni quelli della Fratellanza cecoslovacca se nei cinque mesi quanto durò la “seconda repubblica”  (a cavallo fra 1938 e 1939) un terzo e più degli iscritti ai repertori viene imprigionato o inoltrato ai campi nazisti, e giusto una metà di questo terzo è torturato a morte. Né vive o vivrà serenamente la Fratellanza olandese, osteggiata prima dalle Chiese – sia quella cattolica sia quella calvinista –, quindi dalla pressione burgunda: distrutte le aule rituali, confiscata la preziosa biblioteca massonica Kloss, antica di più d’un secolo. E addirittura dal 1919 è impedita ogni attività latomistica in Ungheria, dove sono stati offesi e poi espropriati i beni della Gran Loggia e soprattutto umiliati gli uomini.

Per non dire, dopo l’Alzamiento falangista, della Spagna, dove il franchismo rivoltoso ha indicato nei massoni non meno che nei “rossi” i nemici da abbattere con maggior determinazione. In un manifesto dei primi del 1937 i Fratelli di Barcellona hanno denunciato quell’odio antimuratorio spiegandolo così: «Perché, nell’ordine delle idee, la Massoneria rappresenta l’antitesi al fascismo».

Numerosi liberi muratori italiani della corrente più segnata dall’imprinting mazziniano come Mario Angeloni, Romano e Giordano Bruno Viezzoli e altri sono accorsi a combattere e magari a morire per la Spagna democratica. Mentre un altro Fratello anch’esso mazziniano di formazione – Cipriano Facchinetti, a piedilista della neocostituita loggia parigina intitolata all’ex Gran Maestro in esilio Eugenio Chiesa  – è chiamato a tracciare sullo specifico argomento una Tavola all’assemblea massonica del 20 giugno 1937, che precede d’un giorno l’incontro delle rappresentanze perseguitate. Titolo: «La guerra civile in Spagna e la partecipazione ed il sacrificio di Fratelli massoni per la causa della libertà in Spagna».

Per questo già da un anno, vista la posizione attendista assunta dall’Associazione Massonica Internazionale, timorosa di riconoscere il Grande Oriente d’Italia operante fuori dal territorio patrio (onde non costituire un precedente di vulnus al principio proprio della esclusività territoriale), si sono date convegno le rappresentanze di alcune delle Libere Muratorie perseguitate: quelle portoghese e germanica, oltreché italiana. Tanto più attiva è quest’ultima, che ha assunto formalmente l’iniziativa chiamando Fratelli residenti in Orienti esteri, da Londra a Salonicco, e perfino fuori Europa.

Viene anche eletto un direttorio costituito: per l’Italia, dal Gran Maestro Alessandro Tedeschi – medico e già docente universitario in questa nostra Cagliari, emigrato poi in Argentina –  e dal Sovrano Gran Commendatore Giuseppe Leti;  per il Portogallo dai Fratelli Dos Santos e Lanca; per la Germania dai Fratelli Wagner e Gembel.

Per questo, tutti insieme i partecipanti concludono il loro incontro visitando le tombe di alcuni dei grandi della democrazia europea, neppure tutti massoni, come a dire che la Libera Muratoria, nella gravissima contingenza, allarga ancor più la sua visione ecumenica al servizio degli ideali di libertà e democrazia ai quali è integralmente votata, anche se la sua missione non si esaurisce nella prassi civile: celebra la memoria dell’illustre Fratello Eugenio Chiesa e dello stesso Fratello Garibaldi monumentato in Place Cambronne, ma onora anche i nomi, fra gli altri – a dir degli italiani –, di Filippo Turati e Piero Gobetti, Claudio Treves e Carlo e Nello Rosselli.

Gli anni ’30 – i primi come gli ultimi – non sono tempo, per la Massoneria, di chiudersi nei riposi spirituali o esoterici dei Templi, di limitarsi alle pratiche dell’Arte, della simbologia e dell’iniziatismo: sono tempo, per lei, di uno sforzo scoperto a sostegno di un piano politico nel segno franco dell’ umanitarismo e della democrazia.

Alla vigilia quasi del nuovo grave conflitto mondiale, nel pieno della sofferenza civile della Spagna ma nel pieno anche della asfittica politica delle democrazie occidentali nei confronti dei regimi di dittatura in via di crescente rafforzamento, nella incombenza sanguinaria della dittatura di Stalin, il patto fra le Comunioni perseguitate è un lume acceso da minoranze neppure veramente e interamente comprese e sostenute dai più vasti circuiti della Massoneria universale. Ed è un lume che parla non soltanto di democrazia sognata e da riconquistare, ma parla di Europa e di democrazia europea.

Ci vorranno altri otto anni perché il demone nazifascista persecutore – complice  tanta parte dei mondi religiosi antisemiti ed illiberali – delle idealità “giudaico-massoniche”, sia sconfitto. Perché le istituzioni degli Stati per lunghi anni sfiancati dalle dittature guerrafondaie, ripristinino sensi e contenuti democratici, e perché i regimi di tradizione e cultura liberale e sociale, come quelli inglese e francese riesaminino, contabilizzando i prezzi pagati, i passati comportamenti di acquiescenza, talvolta piegati perfino da insipiente fascinazione, verso  nefasti partner dell’Asse.

La pace costruita nel continente sopra le macerie morali e materiali della seconda guerra mondiale, porterà progressivamente a darsi contenuti non soltanto diplomatici ma d’intesa economica e finalmente anche di unione politica, riconoscendo valore d’intuizione ai lontani precursori dell’idea europeistica e valore di testimonianza ai più prossimi sostenitori dei patti umanitari e civili di minoranze associative.

La diarchia Tedeschi-Leti, il vertice massonico italiano in esilio che convoca il summit delle Massonerie Perseguitate, è integralmente mazziniana: e se il Gran Maestro profetizza, nel cruciale 1937, l’impegno totale e incondizionato della Libera Muratoria italiana per un «fine pieno di luce e forse anche pieno di sangue», il Sovrano Gran Commendatore si lega apertamente alla tradizione federalista, attualizzandola e proiettandola in un domani auspicato ormai prossimo, con il crollo «nella polvere  insieme» dei «troni Hohenzollern, Hasbourg e Romanoff» e l’impaurita residualità delle altre dinastie: sicché dalla combinata sconfitta delle monarchie reazionarie e dei sistemi di dittatura potrà finalmente porsi mano alla costruzione di uno stato democratico federale europeo attraverso tutta una serie di passaggi intermedi che vanno dalla condivisione delle linee di politica internazionale alla creazione di unioni doganali ed economiche. Perché – sono parole del Sovrano Gran Commendatore del 1932, vigilia della ascesa al cancellierato tedesco di Adolf  Hitler – «certe attitudini politiche internazionali, certi movimenti spirituali, e le unioni economiche possono a mano a mano trasformare codesta aspirazione in pratica realizzazione, dato che l’unione risponde a una necessità della produzione e a un bisogno generale di sicurezza».

L’europeismo mazziniano

Quando il leader scozzesista in cattività formula tali suoi auspici, quasi un secolo è ormai passato dal profetico lancio mazziniano della Giovine Europa, cioè della unione delle espressioni rivoluzionarie d’Italia, Germania e Polonia, insomma di nazionalità – quelle fra molte altre – che ancora non erano riuscite a trovare un riconoscimento statuale unitario.

«L’idea di una associazione dei popoli europei è presente e primaria in Mazzini dal principio alla fine della carriera», ha scritto Luigi Salvatorelli, uno dei maggiori storici italiani del Novecento, che della vicenda e del pensiero dell’Apostolo repubblicano avvertiva interamente il fascino etico e la portata di assoluta modernità (2).

Fra il 1846 ed il ’47 – tempo che per l’Europa intera, e non soltanto per gli stati italiani, è vigilia di rivoluzioni e costituzioni liberali –, Giuseppe Mazzini, quarantenne esule a Londra, pubblica sul “People’s Journal” una serie di otto articoli sul concetto chiave di “democrazia”, con ciò stesso inserendosi al massimo livello del dibattito continentale alimentato dai maggiori intellettuali del tempo, ad iniziare dal Tocqueville. Il settimo di tali articoli s’intitola “Nazionalità e Cosmopolitismo”, di cui riprendo alcune battute centrali:

«Quando si parla di Nazionalità, s’intende la Nazionalità quale la concepiscono i Popoli liberi e fraternamente associati… Il Cosmopolitismo ha dunque finito l’opera sua. Un’altra comincia. Quella dell’associazione dei Paesi; l’alleanza delle Nazioni per compiere in pace e amore la loro missione sulla terra; l’organizzazione dei Popoli liberi ed eguali, aiutantisi a vicenda, ciascuno approfittando delle risorse che gli altri posseggono nella civiltà e nel progresso, e procedendo liberi da ogni vincolo verso la realizzazione di quel capitolo della provvidenza di Dio che è iscritto sui luoghi della loro nascita, nelle loro tradizioni, nei loro idiomi nazionali, sulle loro sembianze… Il principio che regge ogni diritto pubblico o internazionale… sarà… il miglioramento di tutti per mezzo di tutti… Non sono gli individui che devono firmare il nuovo patto; sono i Popoli liberi, con un nome, un ideale e una propria coscienza».

L’unità della patria particolare costituisce per Giuseppe Mazzini – al cui pensiero guarderanno per più d’un secolo tutte le democrazie continentali (e non solo: si pensi a Ghandi, si pensi anche a Teodoro Herzl ed al sionismo) e grandemente anche la Libera Muratoria italiana – non un obiettivo finale ma un passaggio in vista del maggior traguardo dell’intesa e integrazione in una dimensione di “umanità” che prende consistenza nel riferimento territoriale all’Europa. Non nazioni in perenne competizione, ma necessariamente, o naturalmente, cooperanti «in nome dell’Umanità di cui ogni singola nazione è parzialmente manifestazione», per dirla con Denis Mc Smith (3). Ecco il sogno mazziniano: «una federazione fra tutti i popoli europei: unica condizione per eliminare le tensioni internazionali, portare a soluzione le questioni nazionaliste e garantire lo sviluppo, anche economico, dei popoli più poveri», come ha ben scritto Antonio Suraci (4).

«L’Europa nata dalla pace di Vienna del 1814-15 – egli ha meglio precisato – non avrebbe retto alle complesse sfide che si affacciavano all’orizzonte della storia: lo sviluppo economico, le classi emergenti, i problemi delle classi meno abbienti, l’aspirazione dei popoli ad avere una Patria libera e democratica». Di qui la stringente necessità ed urgenza dell’intesa cooperativa, come una corrispondenza di retto sentire e volontà alla superiore etica della storia: quella di provvidenza, che riconosce le identità e le carica di una missione che tutte trascende.

Tale riflessione che condizionerà molto del risorgimento d’indipendenza ed unitario italiano, pur restando, sotto il profilo politico-ideologico, patrimonio condiviso da una minoranza d’avanguardia – cospicua minoranza ma pur sempre minoranza –, sarà sentimento e sarà idea forse prevalente nella Massoneria italiana. La quale, nata sotto  un’ispirazione moderata – liberal-cavouriana e savoiarda –, conoscerà ampie stagioni di caratterizzazione democratica e progressista se è vero che, a far data dal 1864 – dai tempi di Firenze capitale –, numerosi Gran Maestri (da Francesco De Luca a Lodovico Frapolli, da Giuseppe Mazzoni a Giuseppe Petroni, da Adriano Lemmi ad Ernesto Nathan ed Ettore Ferrari) e con loro ampi settori dei Consigli dell’Ordine e delle Giunte così come dei Supremi Consigli, nella successione di oltre mezzo secolo, anche nella militanza civile e politica dichiarano la propria appartenenza, ed alzano la bandiera mazziniana.

Per questo importa insistere sul punto. E’ noto che il passo successivo all’esperienza insurrezionale (ma anche di pedagogia civile e patriottica) della Giovine Italia, iniziata nel 1831, fu, tre anni dopo, la Giovine Europa, la cui carta costituente venne firmata a Berna da tre organizzazioni rappresentative dei ceppi etnico-culturali (o «tre famiglie di popoli») del continente ben raccontati dal simbolo della foglia d’edera: la Giovine Italia per le genti latine o elleno-latine, la Giovine Germania per le genti anglo-sassoni, la Giovine Polonia per le genti slave.  Ma con ambizioni ancora maggiori. Fu lo stesso Apostolo a scriverne nei suoi “Ricordi autobiografici”: «Il nostro patto d’alleanza doveva stringersi dapprima fra i tre popoli iniziatori. La Grecia, la Svizzera, la Romania, i paesi Slavi del Mezzogiorno Europeo, la Spagna si sarebbero a poco a poco raggruppati intorno al popolo più affine ad essi fra i tre. Da questi pensieri nacque l’Associazione». E infatti in diversi luoghi si tentò di dar vita ad analoghe organizzazioni: talora mancando il risultato, come in Grecia, Austria, Francia, Spagna, Inghilterra e perfino Russia; riuscendovi, come in Svizzera.

E a proposito della Svizzera, che diventerà poi modello di coabitazione pacifica e produttiva di popolazioni di etnia e lingua diversa, merita ricordare – perché meravigliosamente espressiva delle alte ambizioni ideali di Giuseppe Mazzini – l’«Appello ai patrioti svizzeri», che costituisce il primo atto della costituenda Giovine Europa.

Ecco Mazzini: «Lo sviluppo libero e armonico di tutte le facoltà fisiche, morali e intellettuali del popolo costituito e preso nel suo insieme, è ormai il fine segreto o dichiarato dei lavori politici di ciascuna Nazione. Lo sviluppo “libero e armonico” della missione umanitaria, col concorso di tutti i membri che compongono l’umanità, è il fine riconosciuto dell’Europa attuale: il “progresso dell’Umanità”, per opera della Libertà, è la base della nostra credenza per tutti. Non v’è Libertà senza Eguaglianza; ogni ineguaglianza pone un impedimento alla Libertà…».

Contesta la Carboneria, Mazzini;  denuncia «formalmente l’Alta Vendita Universale come potere retrogrado, nemico della libera Federazione delle famiglie Europee» perché vagheggiante «l’Unità assoluta dell’Europa», «una teocrazia in pieno secolo decimonono, un Papato Repubblicano», «un sistema di Centralizzazione» inaccettabile. No, nessuna «unità assoluta di direzione, col segreto assoluto, in cui s’avvolge il (suo) nucleo supremo», ecc. Il «pensiero di emancipazione Europea» di Mazzini ha tutt’altra natura: «Vogliamo l’Unità, ma l’Unità libera, spontanea, quale deve esistere in una Federazione regolare, quale deve emanare da un Congresso Europeo, a cui tutti i Popoli convengano con patto d’eguaglianza, ciascuno recando la sua offerta…, ciascuno rimanendo padrone di regolare i suoi interessi particolari, i suoi affari locali, le sue facoltà individuali». E’ l’idea della Confederazione.

Ancora: «Vogliamo prima di tutto la coscienza della Libertà, perché ivi sta la garanzia più forte di durata. Ora la coscienza della Libertà non esiste là dove non è frutto di liberi lavori, di libere idee, di libere azioni. Crediamo all’Eguaglianza… Crediamo religiosamente alla fratellanza dei Popoli».

C’è in questa lettura vocazionale e missionaria un che di spirituale, quasi di mistico, che è scoperto come molla segreta della storia; tutto si muove nella dimensione popolare, e perciò repubblicana, non dinastica. E i giovani vengono chiamati a farsi protagonisti della nuova storia.

Se ripensiamo all’abbattimento del muro di Berlino, al protagonismo giovanile in quel passaggio epocale, 155 anni dopo le parole di Mazzini, non possiamo non avvertire come un sussulto di profetismo morale  che certamente ha dovuto affrontare e attraversare molte ed ostili prove.

«Il presente lavora a creare, e l’avvenire ci recherà una Giovine Europa. E’ la Giovine Europa dei Popoli che si sovrapporrà alla Vecchia Europa dei re. E’ la lotta della Giovine Eguaglianza contro gli antichi privilegi; la vittoria delle Giovani idee contro le vecchie credenze… Sarà una Confederazione Repubblicana di tutti questi popoli, ciascuno dei quali sarà costituito secondo il grande principio di Unità nazionale, legati fraternamente fra loro… Eguaglianza materiale e morale… perché ogni Popolo lavora al compimento della grande missione umanitaria con lo sviluppo d’una missione particolare».

I massoni all’appello dell’Europa

Mezzo secolo (e qualcosa di più) dopo il programma mazziniano della Giovine Europa, mezzo secolo (e qualcosa di meno) prima dei trattati di Roma istitutivi della Comunità Europea, sono numerosi i Fratelli massoni italiani che, radicati sul fronte della democrazia progressista, espongono idealità e progetti che al federalismo democratico continentale, come intuizione ed obiettivo di storia, fanno diretto riferimento, naturalmente svolgendolo in relazione alle opportunità del proprio tempo. Implicitamente, e talvolta esplicitamente, integrando in essi il sogno di fratellanza universale proprio della Libera Muratoria.

Ma se l’apporto del pensiero federalistico è incontrovertibilmente, e di sua natura, di parte democratica, è ora in omaggio al suo essere minoranza moderata dentro questa minoranza democratica che anticipo un cenno sul contributo del pesarese Fratello Terenzio Mamiani conte della Rovere, che fu filosofo e letterato, e ministro dell’Interno (anche se solo per cento giorni) e poi degli Esteri (per altri cento giorni) nientemeno che di papa Pio IX al tempo degli Stati della Chiesa (1848, l’anno della prima guerra d’indipendenza), e poi deputato e ministro della Pubblica Istruzione del terzo governo Cavour, nel 1860, alla vigilia cioè della proclamazione del regno d’Italia, ed ancora commissario all’Istruzione Pubblica nel 1870, nel passaggio del Lazio all’Italia unita, infine senatore e relatore a Palazzo Madama della legge sulle guarentigie pontificie.

Terenzio Mamiani

Se di lui, passato all’Oriente Eterno nel 1885, si ignora anno e loggia di iniziazione, si conosce invece un riguardo usato alla sua memoria, nel 1896, dalla pesarese “11 Settembre 1860” – data che fa riferimento alla celebre battaglia di Castelfidardo (5) fra le truppe sardo-piemontesi e quelle dello Stato della Chiesa, conclusasi con la vittoria della forza militare italiana e l’apertura delle fasi di libera annessione di Marche e Umbria al costituendo Stato unitario.

In un suo manifesto rivolto alla cittadinanza la loggia scriveva: «La Massoneria che ebbe Terenzio Mamiani, esiliato dai dominii pontificii, fra i suoi più illustri Fratelli, si associa con lieto animo e con entusiasmo alle degne onoranze tributategli dalla Città natale, e nel monumento a Lui eretto, splendida opera d’arte di Ettore Ferrari, ravvisa una nuova affermazione del pensiero italiano che ricongiunse per sempre Roma all’Italia, una solenne manifestazione di quei supremi principi di civile progresso, ai quali la Istituzione, nella sua mondiale operosità, s’ispira ». E a quel monumento fu pochi giorni dopo fissata una corona di bronzo con la dedica: «Al Fr. Terenzio Mamiani, la Massoneria Italiana» (6).

Moderato e cattolico liberale, al 1859 risale un suo saggio di tono federalista: «D’un nuovo diritto europeo», nel quale egli sostiene una moderna riformulazione del concetto stesso di relazioni internazionali fra Stati liberi e sovrani, intesi e definiti in quanto «espressione veritiera ed immediata dei pensamenti e dei voleri delle nazioni», qualificando queste ultime come «unità di stirpe, di lingua, di genio».

Per lui è proprio questa doppia qualificazione degli Stati liberi – liberi cioè da ogni pressione di ceti privilegiati e perciò volti a un interno inveramento democratico, e indipendenti da ogni pretesa di potenze estere, e dunque al riparo da quel “principio di intervento” sancito dal congresso di Vienna del Metternich – a renderli soggetti attivi del nuovo diritto europeo che si realizza su un piano di assoluta parità e consente anche, in assoluta libertà, ogni eventuale aggregazione federalistica.

Giuseppe Garibaldi

Se questa è la lucida elaborazione di dottrina giuridica e politica di un Fratello liberal-moderato, è dal fronte progressista – ho già detto – che viene la pressoché totalità dei contributi federalistici. Un memorandum  di poco successivo alla battaglia del Volturno (7) dell’ottobre 1860 – quel fatto d’armi che, nella combinata e felice partecipazione degli eserciti regio e garibaldino, portò le regioni meridionali d’Italia nella costituenda unità territoriale nazionale – reca la firma nientemeno che di Giuseppe Garibaldi e fu pubblicato su “Il Diritto” del 22 ottobre 1860 (8).

Garibaldi guarda all’Europa muovendo dal sodalizio privilegiato, dopo tanto reciproco sfiancamento, fra Francia ed Inghilterra, aperto ad ogni altra nazione libera – Italia unita per prima – e con l’ovvia esclusione, pertanto, delle autocrazie asburgica ed ottomana. Meriterà ripassare questo scritto di testimonianza ideale e visione politica di Garibaldi, non prima di aver però ricordato – sia pure per rapida sintesi – il suo cursus massonico.

Nizzardo classe 1807 egli fu iniziato massone a Montevideo – nel Tempio, pare, della loggia “Asil de le Vertud” all’obbedienza della Gran Loggia brasiliana con influenze uruguayane –, nel 1844, e fu quasi immediatamente dopo regolarizzato dalla “Amis de la Patrie”, officina anch’essa all’Oriente di Montevideo ma all’obbedienza del Grande Oriente di Francia.

Assiduo della newyorkese loggia “Tompkins”, al tempo della sua residenza statunitense (e del lavoro sbrigato nella fabbrica di candele impiantata dal Fratello Antonio Meucci per far lavorare gli immigrati italiani), nei primi anni ’50 del XIX secolo, raggiunse poi l’Inghilterra, ma ebbe ruolo e rango nella Massoneria italiana fin quasi già alla sua ricostituzione: la prima Costituente Massonica, svoltasi a Torino a cavallo fra 1861 e 1862, lo acclamò «primo Libero Muratore d’Italia», titolo che fu anche inciso nella massiccia medaglia d’oro coniata  per l’occasione: medaglia a lui consegnata nella prigione del Varignano, all’indomani del fatto di Aspromonte (9), dal Fratello Candido Augusto Vecchi.

Ebbe riconoscimenti (fino al 33° grado) dal Supremo Consiglio del Rito Scozzese sedente in Palermo ed è noto che nello stesso 1862 accompagnò l’iniziazione del figlio Menotti e dell’intero suo stato maggiore nella loggia palermitana “I Rigeneratori del 12 gennaio 1848 al 1860 Garibaldini”; eletto pressoché all’unanimità Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia nel 1864, rinunciò per la complessa e ancora indefinita relazione fra il GOI e il Supremo Consiglio scozzesista palermitano; fu rieletto Gran Maestro onorario a vita dalla Costituente riunitasi per la prima volta a Roma il 30 aprile 1872, e fu tra i promotori dell’unificazione dei due riti di Misraim e Memphis nel 1881, l’anno che precedette il suo passaggio all’Oriente Eterno (10).

Il suo appello «Alle potenze d’Europa» che si trova riprodotto nel primo volume degli “Scritti e discorsi politici e Militari (1838-1861)”, pubblicato nel 1934 a Bologna per i tipi di Cappelli, merita una ripresa per larghi stralci. Eccoli:

«L’Europa è ben lungi di trovarsi in uno stato normale e convenevole alle sue popolazioni», esordisce Garibaldi: fa la conta delle forze armate, per la sicurezza interna e/o dei possedimenti coloniali, di Francia e d’Inghilterra, di Russia e Prussia; «non foss’altro che per ispirito d’imitazione e per far atto di presenza», anche gli Stati secondari – egli sostiene – «sono obbligati di tenersi proporzionalmente sullo stesso piede».

A tutti guarda il Generale, non all’Austria e all’impero Ottomano però, «(con)dannati, per il bene degli sventurati popoli che opprimono, a crollare», quando prospetta una unità politica continentale che, conquistando spazi di nuova cultura civile, possa finalmente alleggerire il carico militare che squassa i bilanci e divora le risorse che meriterebbero di essere indirizzate al miglioramento sociale. «Potremmo pur passare la nostra povera vita senza questo perpetuo stato di minaccia e di ostilità degli uni contro gli altri», azzarda, e l’osservazione vale doppio proprio perché egli è un militare.

Procede nel suo ragionamento: «Supponiamo che l’Europa formasse un solo Stato. Chi mai penserebbe a disturbarlo in casa sua?». E poi ancora, con linguaggio morale spinto da un’ansia profetica: «Ed in tale supposizione, non più eserciti, non più flotte, e gli immensi capitali strappati quasi sempre ai bisogni ed alla miseria dei popoli per essere prodigati in servizio di sterminio, sarebbero convertiti invece a vantaggio del popolo in uno sviluppo colossale dell’industria, nel miglioramento delle strade, nella costruzione dei ponti, nello scavamento dei canali, nella fondazione di stabilimenti pubblici e nell’erezione delle scuole che torrebbero alla miseria ed alla ignoranza tante povere creature… ».

Non si tratta di una utopia astratta, tutto rientra nelle valutazioni di vera convenienza dei governi, oltreché nella loro moralità: «L’attuazione delle riforme sociali che accenno appena dipende soltanto da una potente e generosa iniziativa. Quando mai presentò l’Europa più grandi probabilità di riuscita per questi benefizi umanitari?».

Riespone i quadri socio-politici attuali d’Italia lodando Vittorio Emanuele che «getta il suo scettro sul campo di battaglia, ed espone la sua persona per la rigenerazione di una nobile razza e di una grande nazione»; lodando la «virtuosa» regina Vittoria Hannover e la sua nazione «generosa e savia, che si associa con entusiasmo alla causa delle nazionalità oppresse»; lodando la Francia che per «valore e prestigio» dei suoi soldati e la concentrazione della sua popolazione è «chiamata ad arbitra dell’Europa»; lodando perfino Alessandro II Romanov proclamante in Russia «l’emancipazione dei servi».

A chi dunque l’iniziativa della unità europea? Alla Francia, risponde Garibaldi. «Al paese che marcia in avanguardia della rivoluzione! L’idea di una confederazione europea, che fosse posta innanzi dal capo dell’impero Francese, e che spargerebbe la sicurezza e la felicità nel mondo, non vale essa meglio di tutte le combinazioni politiche che rendono febbrili e tormentano ogni giorno questo povero popolo?».

Ma come regolare e anzi superare la cinque volte secolare rivalità fra Francia ed Inghilterra? Essa è già in progressivo contenimento, anzi è già enormemente regredita: lo si può e deve constatare – scrive ancora Garibaldi – «a gloria del progresso umano»: essa è «infinitamente meno intensa di modo che una transazione che avrebbe per iscopo il bene dell’umanità, non può più essere posta tra i sogni e le utopie degli uomini di cuore».

«Dunque la base di una confederazione europea è naturalmente tracciata dalla Francia e dall’Inghilterra. Che la Francia e l’Inghilterra si stendano francamente, lealmente la mano, e l’Italia, la Spagna, il Portogallo, l’Ungheria, il Belgio, la Svizzera, la Grecia, la Romelia verranno esse pure, e per così dire istintivamente ad aggrupparsi intorno a loro. Insomma, tutte le nazionalità divise ed oppresse; le razze slave, celtiche, germaniche, scandinave, la gigantesca Russia compresa, non vorranno restare fuori di questa rigenerazione politica».

Da questo piano di riequilibrio presidiato finalmente più dalla fiducia interstatuale, dalla diplomazia e magari dalla logica del mercato aperto, che non dagli eserciti, deriverà la rispalmatura nelle attività economiche e nel lavoro civile della gran massa  armata. Infatti si chiede e si risponde Garibaldi sognatore politico: «Che cosa fare di questa innumerevole massa di uomini impiegati ora nelle armate e nella marina militare?…». Essa va reimpiegata nella «creazione d’istituzioni utili», sicché «lo spirito de’ sovrani, non più preoccupato dall’ambizione delle conquiste… discenderebbe dallo studio delle generalità a quello delle famiglie ed anche degli individui».

«D’altronde, con l’accrescimento dell’industria, con la sicurezza del commercio, la marina mercantile reclamerà dalla marina militare sul momento tutta la parte attiva di essa; e la quantità incalcolabile di lavori creati dalla pace, dall’associazione, dalla sicurezza, ingoierebbe tutta questa popolazione armata, fosse anche il doppio di quella che è oggi». Senza dire poi che le «milizie nazionali» ben potrebbero essere istruite e mobilitate «a reprimere i disordini e qualunque ambizione tentasse infrangere il patto europeo». Parola, o sogno di Garibaldi.

Giorgio Asproni

Rimanendo in ambiente risorgimentale, uno spazio tutt’affatto singolare meritano le riflessioni del nostro Giorgio Asproni, deputato della sinistra di diretto rimando insieme mazziniano e cattaneano. E’ del febbraio 1861, da Palermo, la seguente sua annotazione diaristica: «Nascerà senza fallo un nuovo ordine di cose, e accadranno mutamenti non previsti da veruno dei più eminenti uomini di stato. Oggi è per la nazionalità che si lotta, poi si penserà alla confederazione degli Stati Uniti d’Europa, e in mezzo a tutti questi moti, ora placidi ora violenti, la libertà non sarà dimenticata dai popoli».

Sembra una profezia: è una profezia ove noi guardiamo a quanto avvenuto giusto vent’anni fa nei paesi del continente slavo cui soprattutto, e in ragione anche di taluni suoi più intensi rapporti personali, guarda il parlamentare sardo.

Sardo e barbaricino di Bitti, classe 1809, dottore in diritto civile e canonico, sacerdote cattolico, docente di teologia morale al seminario di Nuoro, canonico del capitolo dei canonici della cattedrale di Nuoro, spirito nativamente libero, vicino alle posizioni federaliste del Gioberti prima del suo approdo definitivo nel campo della democrazia repubblicana, Asproni venne eletto la prima volta alla Camera subalpina nel 1848. Rimase in parlamento – fra Torino, Firenze e Roma – per 27 anni, fino al suo passaggio all’Oriente Eterno nell’aprile 1876.

Collaboratore di varie testate giornalistiche democratiche fra Genova e Napoli, direttore per due anni del mazziniano “Il Popolo d’Italia”, aderì alla Massoneria – leggendo il presente dell’Istituzione in chiave politica – nel 1867, nella loggia “Universo” che raccoglieva prevalentemente deputati, ministri e generali e assicurava il Maglietto allo stesso Gran Maestro Lodovico Frapolli. Fu quindi affiliato alla napoletana loggia “Rigenerazione”; nel 1869 venne eletto 1° Gran Sorvegliante e tre anni dopo Consigliere dell’Ordine.

Il suo approccio europeista si muove sulla scia della solidarietà con le nazionalità irredente dell’est del continente, quella rumena soprattutto, ma anche quelle magiara, polacca, serba, ecc., perfino quella greca. Alla loro sorte guardano con grande partecipazione, peraltro, l’intera democrazia italiana e, al suo interno, il filone dell’interventismo garibaldino.

Il suo celebre e monumentale Diario politico, che raccoglie note quotidiane dal 1855 al 1876, insiste molto proprio su questo versante: la sorte democratica dell’est continentale è intimamente connessa con il riconoscimento della piena legittima soggettività di ogni popolo costituente parte della galassia slavo-danubiana.

«La rivoluzione in Polonia tiene a scacco tutte le forze russe. E’ impossibile soggiogare un popolo che non teme la morte e insorge a nome della libertà e della religione», scrive il 4 maggio 1863.

E due giorni dopo: «Pare che Menotti Garibaldi abbia intenzione di recarsi in Polonia. La rivoluzione allarma anche l’Austria, che vigila con rigore quasi uguale alla Prussia». E per diversi giorni continuerà riferendo di voci riguardanti tale missione, fino al 3 giugno: «Alla spicciolata un duecentocinquanta giovani sono partiti per la Polonia…».

Chi ha dedicato molte documentatissime pagine al rapporto di Giorgio Asproni con l’Europa orientale e in particolare con la nazionalità rumena è Stefan Delureanu, uno studioso dell’università di Bucarest, spirito combattivo non soltanto nella ricerca storica ed appassionato del mazzinianesimo come dottrina di democrazia umanistica, cioè a matrice etica. A lui soprattutto si deve l’inquadramento del contributo dei democratici italiani – e fra essi eminentemente quello asproniano – alla causa dei popoli slavi costretti nelle divisioni, soggetti a domini autoritari o autocratici e/o stranieri.

«Per il programma e la conseguente linea di condotta dei democratici polacchi e romeni si rivelano di non comune portata – egli scrive nella relazione letta al convegno asproniano del 1992 (11) – l’assimilazione del mazzinianesimo e la successiva adesione alle varie forme organizzative in cui ha preso forma l’internazionale europea della Democrazia, dalla Giovine Europa alla Alleanza Repubblicana Universale». In tale contesto si pongono anche i «numerosi arruolamenti volontari nei corpi garibaldini» e quel certo «pullulare di disegni d’azione tessuti soprattutto intorno al mito di Garibaldi e alla speranza della partecipazione sua e dei suoi audaci a spettacolari risurrezioni nazionali nel proprio paese».

Ancora: «In concordanza con la sua scelta democratica mazziniana, Giorgio Asproni, testimone di imprese risorgimentali e fautore dei movimenti che ovunque tendono alla consacrazione del principio di nazionalità, non può non essere assertore convinto di una Europa di nazioni fraterne, uguali nei diritti, nei doveri e nelle opportunità, nonché del principio federalista, correttivo indispensabile dei limiti, delle esagerazioni e degli eccessi del nazionalismo. Mentre dunque, con questi sentimenti guarda con costante simpatia verso la ferma volontà ungherese di sottrarsi agli Asburgo, giudica sacro dovere il ricostruirsi della Polonia, come saluta il risveglio danubiano-balcanico e molto calorosamente l’ascesa dei principati romeni della Moldavia e della Valacchia. Milite dell’umanità al servizio dell’auspicata santa alleanza dei liberi popoli, il patriota sardo promuove uno spirito di solidarietà attiva con esponenti di varie emigrazioni politiche, non accetta che nascano contrasti e diffidenze fra i vari filoni della democrazia europea e nega il suo consenso alle persone che creano questi dissidi».

E soggiunge: «E’ la guerra di Crimea, il primo rilevante fatto continentale fecondo di sviluppi diplomatici sia per l’Italia che per la Moldavia e la Valacchia che diventa tema delle sue non casuali riflessioni su una zona geografica i cui destini furono legati a quelli italici sin dalla antichità romana e dai secoli di gloria delle repubbliche marinare nel bacino del Mediterraneo orientale, nel Mar Nero e al Basso Danubio» (12).

Asproni segue la questione moldo-valacca dapprima a Parigi, dove vive buona parte del 1855, quindi a Torino. Nel 1856 – l’anno del congresso di pace – egli chiama i «fratelli romeni» «fermi guardiani del Danubio contro la Tartaria, pronti a rinnovare con gli italiani “l’antica fratellanza”». Il suo interessamento al futuro di libertà di quelle popolazioni deriva molto dal clima filoromeno alimentato dalla pubblicistica risorgimentale italiana. Andrebbe anche ricordato che a Lorenzo Valerio – grande amico e sodale politico di Asproni – va il titolo di fondatore, a Torino, dell’Alleanza italo-slava, e difensore parlamentare della «comunanza di interessi e di fini tra questi popoli». Così come all’insegna degli “Stati Uniti del Basso Danubio” è ancora Valerio a far pubblicare nel 1850, sotto il comune titolo de “I moldo-valacchi”, vari articoli di Jon Ghica, «patriota liberale militante in esilio a Costantinopoli» e anima dei propositi unitari di tre nazionalità.

Il Diario asproniano rivela numerosi retroscena della vicenda politica interna al movimento irredento rumeno e della partecipazione solidale della democrazia e delle istituzioni politiche e diplomatiche sardo-piemontesi e poi italiane alla complessa questione. Bisognerebbe aggiungere che molte notizie dell’area romena giungono a Asproni dalla principessa Elena Ghica, una patriota esule fra Svizzera, Francia e Italia, e nota come Dora d’Istria che, si osserverà, «seppe unire la potenza e la capacità del brillante intelletto a quelle dei grandi spiriti europei del tempo in una mirabile battaglia di civiltà laicistica, di cui fu leale e generosa propugnatrice». Da questa intensa relazione, umana oltreché politica, nasceranno iniziative diverse volte alla emancipazione delle nazionalità danubiane e soprattutto rumena (13).

Delureanu ricorda a tal proposito come «L’idea di una fratellanza della fede politica da aggiungere a quella della stirpe viene ripresa, ridiscussa e finisce per produrre due appunti confidenziali redatti dalla interlocutrice per il gruppo di Genova. L’uno includeva lo schema di un disegno di dissoluzione dell’Austria, ridotta in ultimo ai propri territori attraverso la cooperazione militare italo-romena con la creazione di una “Italia orientale” che riunisse tutti quanti i romeni mentre poneva, come condizione di ogni alleanza leale tra italiani e ungheresi, il riconoscimento da parte di questi ultimi della legittimità dei diritti nazionali dei romeni transilvanici; il secondo appunto richiamava  l’attenzione sull’oppressione esercitata dai magiari sulle nazionalità non magiare e identificava in quella condotta, similmente a Mazzini, la responsabilità torica del trionfo asburgico…».

Sarà da ricordare che del 1861 è la lettera-appello di Garibaldi con l’esortazione ai romeni «ad unirsi alle stirpi della zona, a cooperare con gli ungheresi e a stringere un vincolo di fratellanza tra l’Europa centroorientale e quella occidentale». E da ricordare sarà pure il disegno che, nello stesso anno della terza guerra d’indipendenza antiaustriaca, nel 1866 cioè, prenderà corpo per la liberazione anche di albanesi, greci, bulgari, serbi oltreché di rumeni…

Si tratta di una storia interessantissima sol che la si guardi con il doppio riferimento al combattuto sforzo del riconoscimento delle nazionalità ed alla integrazione, in termini di democrazia, alle altre realtà nazionali e statuali dell’Europa continentale. Asproni è buon testimone e sostenitore attivo di tale duplice proposito. Insieme per la democrazia liberale e per l’Europa confederale comprensiva della parte orientale – Grecia inclusa del vecchio continente.

Non solo Romania. Una legione magiara allestita in Piemonte prima del termine della seconda guerra italiana d’indipendenza, continuerà ad esistere proprio al fine di contribuire alla liberazione dell’Ungheria. E nel 1860 si costituisce a Palermo – per volontà di Garibaldi – un secondo corpo con lo scopo anch’esso di replicare una “spedizione dei Mille”, in chiave liberatrice, in Ungheria.

E con l’Ungheria la Grecia. Delureanu riepiloga efficacemente i rimandi alla causa ellenica presenti nel Diario asproniano fra il 1862 (progettata spedizione garibaldina) e il 1867-68, «allorquando si sta configurando un movimento congiunto slavo-romeno-greco diretto contro l’Impero ottomano. Mentre le terre dell’Ellade insorgono e Garibaldi si propone di andare in soccorso agli insorti e liberare la Grecia, il disegno è mandato in fumo dalla monarchia sabauda in seguito a minacce asburgiche ed al diniego napoleonico e l’Asproni non potrà vedere la rivoluzione in Epiro e in Tessaglia, né in Oriente, impegnato quest’ultimo in guerra santa, né la Costituente greca convocata a Costantinopoli…».

Attiva è l’azione asproniana – tanto sul piano umanitario quanto su quello politico-diplomatico – soprattutto alla fine del decennio, a sostegno del  Comitato italo-ellenico e in coincidenza con l’insurrezione di Creta del 1867, conclusasi con una reggenza greca pur nell’ambito dell’impero ottomano. Asproni parteciperà «alle riunioni dal console greco Manos e alle varie deliberazioni anche con l’importante iniziativa di stabilire a Livorno il centro di soccorso ai partecipi all’insurrezione».

Anche gli slavi meridionali costituiscono un soggetto collettivo con il quale Asproni interloquisce in rapporto sempre  alla complessiva questione d’oriente ed ai programmi cospirativi contro la Turchia e contro l’Austria. E’ in tale contesto che entra, appunto, anche la Serbia. «Alle slave contrade spetta la funzione di prima base di operazioni nei disegni garibaldini da attuare attraverso lo sbarco in Dalmazia – sono ancora parole di Delureanu – e l’Asproni già vede l’eroe dei due mondi correndo di trionfo in trionfo, i croati, gli sloveni e gli istriani liberi. Un movimento sincrono greco-slavo contro la mezzaluna si intravede nel 1868 benché non manchino motivi di reciproca inimicizia tra i due popoli». Perché poi  «Il 1868 è l’anno nel quale Mazzini riprende la perorazione per un’alleanza slavo-romeno-ellenica accentuandola e dirige speciale attenzione verso Belgrado, Bucarest e Atene, il cui concorde agire avrebbe messo fine all’Impero ottomano sostituendogli una Svizzera orientale». Insomma, l’Alleanza Repubblicana Universale diviene lo strumento per la liberazione dell’intero continente – dalla Spagna alla Romania – come premessa necessaria alla successiva confederazione in democrazia.

In tale quadro ideale e politico di superamento del presente e costruzione di un futuro emancipato, anche «l’apporto polacco» ha posto, e non secondario, nella riflessione e nei contatti finalizzati all’azione di Giorgio Asproni: fra il 1863 e il ’64 egli si concentra sul «movimento concorde romeno-sudslavo-ungherese-boemo-galiziano in concomitanza con una azione nel Veneto». Nel 1863 l’insurrezione popolare sviluppatasi  in Polonia contro la Russia zarista incontra perfetta corrispondenza nei democratici a Genova, dove s’agitano comizi ed è allestito un apposito comitato di soccorso:  e intanto cade a Krzykawa il generale Francesco Nullo, garibaldino e Fratello iniziato nella palermitana “I Rigeneratori”… (14). Sono altre pagine ancora che raccontano non soltanto del pensiero, necessario e nobile, della libertà, ma anche del sangue sparso per la causa della libertà e della nazionalità, per la fraternità fra i popoli fino alla integrazione fra pari nella confederazione continentale…

«Tutto il discorso nazionalitario ed europeistico negli scritti memorialistici e giornalistici dell’Asproni, come l’intera sua attività di parlamentare, non sono che il riflesso – scrive Delureanu – di un credo che lo definisce e che ritorna: la democrazia non potrà vincere in Europa finché le nazioni continueranno ad essere serve, oppresse e divise… La meta dell’azione storica dei popoli, conquistata l’unità e l’indipendenza, la costituivano per lui gli Stati Uniti d’Europa… Le attese delle nazionalità centroeuropee e balcaniche furono percepite (da lui) con la mente di chi, prospettando un’altra Europa, intendesse contribuire al conseguimento dei loro fini programmatici risorgimentali: affermarsi nella libera disposizione di sé di ogni popolo, compimento del suo ideale politico unitario, indipendentistico, democratico. Nel guardare verso quelle nazionalità, egli identificò nella alleanza italiana con le stesse l’obiettivo fondamentale di una politica estera lungimirante della sua patria, pietra angolare del futuro edificio europeo. Contemplandone aspirazioni, senso di aspettative e trionfi, non gli sfuggirono né dissidi e rivalità, né odi, rancori e inimicizie che dividendole, rendevano insolubile il problema del far confluire in un unico alveo rivoluzionario tutti quei movimenti paralleli e mantenevano in vita gli imperi retrivi. Le divisioni e i contrasti osservabili non erano soltanto etnici e politico-territoriali ma anche religiosi, acuti talvolta persino all’interno di una medesima confessione».

Purtroppo, e sarebbe da dire e ripetere con le parole dello storico rumeno che ha conosciuto e sofferto la dittatura di Ceausescu ed ha poi conosciuto il dramma del disfacimento jugoslavo e della guerra –, «Il problema della riconciliazione delle nazionalità centro orientali e danubiano-balcaniche, trattato con leggerezza, con visione unilaterale o con ostinato fatale immobilismo», è rimasto insoluto. L’esasperazione nazionalistica, accentuata dalle divisioni religiose, è divenuta per lunghi anni tragedia per molti milioni di persone ancora alle soglie del terzo millennio…

Reso il giusto omaggio alla memoria democratica ed europeista del Fratello Giorgio Asproni, richiamerò adesso, dei decenni a cavallo fra Ottocento e Novecento, i contributi federalistici di altri autorevolissimi Fratelli italiani: Giovanni Bovio, Ernesto Nathan, Napoleone Colajanni, Arcangelo Ghisleri, Eugenio Chiesa e Cipriano Facchinetti, Giuseppe Chiostergi e Mario Pistocchi, tutti impegnati – direttamente o indirettamente – in attività politiche nelle istituzioni del loro tempo.

Aurelio Saffi

A precedere tutti chiamo però il nome del Fratello Aurelio Saffi, uno dei tre triumviri della Repubblica Romana del 1849 – la repubblica che abolì la pena di morte e affermò il principio del suffragio universale, la repubblica per la quale morì 21enne il poeta che aveva sangue sardo nelle sue vene Goffredo Mameli, autore del testo dell’inno nazionale italiano.

Romagnolo, insigne studioso di diritto internazionale, di Saffi si ricorda in particolare – con riferimento all’istanza europeista – una lettera datata 1889 e indirizzata al Comizio milanese per la fratellanza dei popoli. Il titolo del suo scritto è tutto un programma: «Gli Stati Uniti d’Europa garanzia di pace per l’Europa» (15).

Egli rappresentò i voti di Forlì all’Assemblea Costituente degli Stati Romani e quindi fu con Mazzini ed Armellini a capo della Repubblica Romana. Costretto all’esilio dalla sconfitta repubblicana per l’intervento degli eserciti stranieri convocati da Pio IX, fu esule, visse e insegnò letteratura italiana ad Oxford; rientrato in Italia, fu eletto deputato al primo parlamento nazionale rifiutando successivi mandati; direttore del mazziniano “Il Popolo d’Italia”, continuò a patire sospetti di polizia e perfino carcere. All’università di Bologna ebbe la cattedra di diplomazia e storia dei trattati, pubblicando anche diversi saggi giuridici ed accompagnando ogni volume delle opere di Giuseppe Mazzini con ampie introduzioni.

Massone dal 1862 (ma forse da molto prima: dal 1848 in Italia, o dagli anni dell’esilio a Londra), fu affiliato – dopo che nella loggia scozzesista torinese “Dante Alighieri” (che aveva una impronta democratica, a fronte del moderatismo delle simboliche “Ausonia”, della “Progresso” e della “Cavour” allo stesso Oriente) – nella romana “Propaganda Massonica”. Passò all’Oriente Eterno nel 1890, all’età di 71 anni.

Ecco alcuni passaggi del suo scritto europeista, da cui anche emerge una netta contrarietà a posizioni neutraliste «e di pace ad ogni costo» che sarebbero – scrive –   «ratificazione d’ogni iniquità esistente», consegna  degli «inermi… alle prepotenze dei forti ed armati»: «Noi invochiamo – aggiunge – un’Europa nella quale all’impero della forza succeda la ragion del diritto, ai resti delle vecchie conquiste la Federazione delle patrie libere e indipendenti, insieme congiunte nelle feconde mutualità del pensiero e del lavoro».

Egli entra nel merito e nella concretezza delle situazioni storiche date. «Vi sono insurrezioni e guerre sante: sono sacri il sacrificio e il martirio, la lotta per la redenzione d’un popolo oppresso, per la difesa della patria da esterni invasori, per l’abolizione di qualsiasi forma di schiavitù. Se lotte sì fatte non fossero, la Grecia giacerebbe tuttavia sotto il giogo ottomano, l’Italia sarebbe sempre una “espressione geografica”; la schiavitù dei negri contaminerebbe ancora l’Unione americana, ed i pesi di un cieco fatalismo arresterebbero la vita e il moto dell’umanità. Non dunque pace come “fine” a se stessa, ma pace come “conseguenza” delle rivendicazioni della giustizia e della libertà».

Ancora, contro la Triplice che schiera l’Italia con l’impero austro-ungarico, oltreché con la Prussia, sacrificando gli interessi legittimi e sacri delle nazionalità irredente italiane ma non solo italiane: «L’alleanza austriaca contraddice a tutte le tradizioni del nostro risorgimento: ci fa complici delle usurpazioni della casa d’Asburgo nella penisola dei Balcani; tronca la missione dell’Italia verso le stirpi che aspirano, nell’oriente de’Europa, a indipendenza e libertà… Egoismi di governi e di popoli, borie militari, interessi di classe e di parte prevalgono sulla ragion comune…».

Perfino il colonialismo, nella lettura fra storia e profezia che ne propone il Fratello Saffi, può emanciparsi in formule liberali e federali: «I popoli precursori, i popoli che sorsero primi in Europa a coscienza di libertà e di personalità nazionale, sono quelli che hanno stanza nelle contrade bagnate dalle acque del Mediterraneo e dell’Atlantico – Italia, Francia, Spagna, Inghilterra. Riscossa a’ dì nostri, insieme con noi, da secolari divisioni ad unità politica, la Germania entra, potente d’intelletto e di forze, nell’arrigo comune… E’ proprio dei popoli ai quali accenno imprimere alle loro colonizzazioni un carattere federale di cooperativa civile; alieno da preoccupazioni di monopolio o di conquista…».

E finalmente: «Fra due mondi di formazione – il mondo slavo da un lato, il mondo americano dall’altro – è per essi questione di vita, sotto il doppio aspetto politico-economico, il porre nell’Europa, occidentale e media, le basi di un’equa unione delle genti, e sicurtà d’indipendenza, di pace e di progresso universale».

All’avanguardia del rinnovamento europeo sono chiamate a collocarsi, per natura di cose, la Francia e l’Italia: «la prima – scrive Saffi – come interprete dei principi di sovranità popolare, di libertà e d’eguaglianza civile, nella loro forma più lata; la seconda come rappresentante del principio di nazionalità nella sua forma più pura e più distinta. Onde è stretto obbligo di entrambe, dinanzi al fine della civiltà e dell’umanità delle nazioni, il darsi la mano nell’opera grande commessa loro nella vocazione del secolo. Ma perché l’accordo sia più saldo e fedele, spetta ai migliori di una parte e dell’altra l’avvertire i torti scambievoli, adoperarsi a correggerli, respingere moralmente ogni atto dei rispettivi Governi che tenda a turbare le relazioni fraterne fra i due paesi».

E’ la missione, questa, soprattutto delle forze democratiche e di progresso. E la Massoneria c’entra in tutto questo. Scrive Saffi: «In questo senso parvemi concepita la circolare del Gran maestro della Massoneria italiana, da molti tra noi fraintesa, da taluni fatta segno a indegne diatribe: pur tale da dover porgere argomento ai più sinceri fra i nostri amici di Francia, non di risentirsene, ma di considerare quanto importi al comun bene delle due nazioni sorelle il sopprimere ogni seme di discordia… e togliere a chi cospira a dividerle a ogni pretesto di future liti». Il riferimento è alla crisi tunisina, che vede la contrapposizione fra Italia e Francia. E il richiamo del Gran Maestro Lemmi è pertinente: «V’è una pietra di scandalo fra noi; rimuoviamola… siamo compagni non emuli, nella buona e feconda espansione delle nostre forze civili».

Le ragioni della unità fra Francia e Italia sono infinitamente più rilevanti di quelle del contrasto. Conclude Saffi: «La pace fra noi e i nostri vicini assicura la pace sul Reno, investe l’Italia dell’insigne ufficio di mediatrice d’eque composizioni rispetto all’Alsazia-Lorena, non impossibili il giorno – forse non lontano – in cui alla Germania cesarea e feudale subentri la giovane Germania del pensiero e del lavoro. E l’unione dell’Occidente confinerebbe il cattivo genio dell’avventure belliche nell’Oriente d’Europa»… naturalmente sperando nella virtuosa contaminazione!

Giovanni Bovio

Filosofo del diritto e per lunghi anni parlamentare (dalla 13.a alla 21.a legislatura, fra 1876 e 1900), Giovanni Bovio è ritenuto l’erede più autorevole di Giuseppe Mazzini.

Pugliese di Trani in quanto ad origini, visse per larga parte della sua vita a Napoli, nel cui ateneo insegnò materie giuridiche, storiche e filosofiche: Enciclopedia del diritto, Storia del diritto, Scienza del diritto, Filosofia del diritto. Esponente della sinistra parlamentare prima della formazione dei partiti Socialista e Repubblicano, e di quest’ultimo leader naturale dopo il 1895, il suo prestigio morale e l’altezza dell’ingegno espressa anche in numerose opere letterarie e teatrali, furono costantemente riconosciuti ed onorati dall’intero arco dei gruppi politici della Camera dei deputati.

Fu iniziato 26enne fra le Colonne della loggia “Caprera” all’Oriente della sua Trani. Due anni dopo venne eletto Oratore, e nel 1882 assunto nel governo del Grande Oriente d’Italia; presiedette nel 1887 la Costituente di Roma (quella che avrebbe sancito l’esclusività di relazione con il GOI da parte del Rito Simbolico e del Rito Scozzese). Dal 1889 al 1894, cioè negli anni della Gran Maestranza Lemmi, ricoperse la carica di Grande Oratore. Intanto nel 1888 era stato regolarizzato presso la loggia “Losanna” all’Oriente di Napoli, città nella quale già da vent’anni aveva preso residenza a motivo dei suoi già richiamati impegni i studio ed accademici.

Fra gli artefici dell’Anticoncilio laicista del 1869 – convocato in contrapposizione al Concilio Vaticano I di Pio IX –, nel 1889 fu oratore ufficiale, in Campo de’ Fiori, per l’inaugurazione del monumento a Giordano Bruno, realizzato da Ettore Ferrari, futuro Gran Maestro di Palazzo Giustiniani. Passò all’Oriente Eterno nel 1903, all’età di 66 anni.

E’ stato ricordato che, argomentando una sua interpellanza al presidente del Consiglio e ministro dell’Interno marchese di Rudinì (Fratello anch’egli) circa taluni provvedimenti di legge ed amministrativi riguardo alle società cosiddette segrete, sostenne essere la Massoneria una «istituzione universale quanto l’Umanità ed antica quanto la memoria. Essa ha le sue primavere periodiche, perché da una parte custodisce le tradizioni ed i riti che la legano ai secoli, dall’altra si mette all’avanguardia di ogni pensiero e cammina con la giovinezza del mondo».

In quanto alla politica internazionale ed europea, si ricorda che in un discorso che tenne nell’aula di Montecitorio il 3 maggio 1888 (16) contestò anche lui – come avrebbe fatto Saffi – la Triplice Alleanza sottoscritta con Vienna e Berlino, per lo strazio imposto alle minoranze italiane (ma non solo) entro i confini asburgici, e per contro – giusto come Saffi – rilanciò la prospettiva della più naturale intesa italo-francese, in logica di “lega latina”, come nucleo fondante di una più larga confederazione continentale, comprensiva dei popoli via via liberatisi dalle oppressioni interne ed esterne.

A fronte di una scienza che «vien riducendo a forze impersonali le leggi delle società civili, oggi appunto, più che in ogni altro tempo – egli sostiene – la politica sembra abbandonata all’arbitrio personale di quattro o cinque potenti, dal cui sopracciglio, dal cui umore, dalla cui fortuna dipendono le guerre, le paci, le tregue, i trattati, la fortuna delle nazioni… Togliete alla Russia la tendenza e, direi, la gravitazione verso il panslavismo, e lo Czar non resisterebbe un’ora al nichilismo. Il concetto pangermanico spiega come contro tanti odii stranieri ed interni tengasi ritto il principe di Bismarck che all’unità slava medita contrapporre l’unità delle genti germaniche, fomentando in casa una Germania irredenta e lentamente spingendo l’Austria verso l’Oriente. Mentre da Pietroburgo si guarda a Costantinopoli, da Berlino si guarda a Vienna… A Vienna lo sanno, (e) temono più una Germania irredenta che un’Italia irredenta».

Ma, soggiunge ancora Bovio, «Se è vero, come disse il principe di Bismarck, che è Germania sin dove si parla la lingua tedesca, anche a Parigi e a Roma s’intenderà, tra poco, che le lingue congenite dal ceppo romano fanno gente latina». Infatti è da domandarsi: «E’ superato, dunque, il principio di nazionalità dal principio di razza, ed un altro diritto pubblico si annunzia all’Europa?».

Bisogna saper guardare con senso storico il presente, preparando il futuro. Ed è nella utopia, che non significa indifferenza ai dati di fatto, che si prepara il domani: «Non è dunque che il principio di nazionalità sia superato in senso di “cancellato”; è invece il germe di quelle più vaste agglomerazioni che saranno le prime federazioni europee, annunziatesi in forma di razze, le quali a loro volta sono i germi di quella vasta federazione europea che dall’intelletto divinatore di Cattaneo fu detta “Stati Uniti d’Europa”».

Così approfondisce il Fratello Bovio la sua tesi con modernità di concezione che colpisce: «mentre da una parte i Comuni, i piccoli centri, e, sotto certo rispetto, le regioni reclamano giusta autonomia, dall’altra le nazioni tendono e gravitano verso grandi agglomerazioni non casuali, sì bene prefinite da convenienze etnografiche, geografiche e linguistiche.

«Queste non lontane federazioni o leghe sono ordinate a naturalmente trasformare l’Europa, e a darle quell’equilibrio e quell’assetto delle grandi razze, che ha duplice scopo: il primo, liberarci della pace armata, risultamento delle alleanze artificiali; il secondo, creare una possibile concorrenza europea di fronte alla grande federazione dell’America del Nord».

Perché la barriera doganale degli stati federati del nord America avrà, per le dimensioni e soprattutto i dinamismi di quella società e di quel mercato, una forza dirompente rispetto alle molte fragilità del vecchio continente rappresentabili o riassumibili in tre aggettivi: «falsa, diplomatica ed affamata» Europa.

Dice Bovio al presidente del Consiglio Crispi: «Bel vanto di ministro è annunziar pace, specialmente agli uomini di buona volontà che sono i deputati delle docili maggioranze; ma è vanto più saldo preparare in modo le alleanze che la pace sia vera e non compagna de’ sospetti e della fame». Concludendo: «se l’Italia fu prima nella proclamazione del diritto di nazionalità, non può restare ultima nel periodo politico delle grandi federazioni europee». Il «diritto federale a cui l’Europa è destinata… (costituisce) una evoluzione imminente del diritto di nazionalità».

Per questo s’imporrebbe al governo e alla sua maggioranza parlamentare di uscire dalle strettoie delle contingenti convenienze, una rettifica profonda dei propri indirizzi sia in politica interna che in politica estera: «Da una savia e liberale politica interna dipende gran parte della politica estera».

Il pensiero si volge alla condizione di vita degli irredenti italiani, i trentini, i triestini (né va dimenticato che Bovio è presidente dell’Associazione per l’Italia irredenta, e la questione rappresenta parte non marginale della maggior problematica delle alleanze fra Stati): è rimasta infatti lettera morta e dimenticata – denuncia l’oratore – «una legge presentata da Benedetto Cairoli, firmata da Francesco Crispi, votata da’ due rami del Parlamento, e non promulgata mai»: «quella legge accorda i diritti politici agli italiani delle provincie non facienti ancora parte dello Stato. L’alleanza (la Triplice cioè) non vi permette di evocar quella legge, ma vi raddoppia il dovere di tutelare quei cittadini».

Dovere storico del governo è quello di «ravviare le nostre relazioni con la Francia, specialmente rispetto al trattato di commercio. E ravviando le buone relazioni avrebbe modo di fare intendere alla Francia che come Roma offre amica ospitalità a tutti i pellegrini del mondo che vengono a contemplare la beata prigionia del pontefice, così la Francia voglia non venir meno alla sua tradizione di civile e di generosa (accoglienza) verso gli operai italiani».

Ernesto Nathan

Inaugurando la sede di Palazzo Giustiniani, il 21 aprile 1901, il Gran Maestro Ernesto Nathan sostenne: «La Massoneria vive e fiorisce per essersi di volta in volta tuffata nell’acqua lustrale del progresso, assimilando ogni nuova fase di civiltà, il più delle volte divenendone banditrice… Siamo noi, che in nome di quel principio  di fratellanza, abbiamo iniziato, spinto innanzi il movimento per la pace e l’arbitrato… Siamo il germe dei vagheggiati Stati Uniti d’Europa».

Piace sottolineare questa fede alla dimensione continentale di un protagonista assoluto della storia massonica italiana, nato cosmopolita per educazione e religione. Londinese di nascita e di famiglia ebrea («figlio di Sem» per i clericali della “Civiltà Cattolica”) con madre pesarese e mazziniana, anche lui mazziniano (collaboratore in gioventù del giornale “L’Unità italiana” ed amministratore, per volontà dello stesso Mazzini, de “La Roma del Popolo”), fu dal 1907 al 1914 sindaco della capitale, alla testa di una larga coalizione democratica e progressista, segnalandosi per la lucidità e la moralità dell’azione amministrativa tanto più in campo edilizio (contro la mala pianta della speculazione fondiaria posta in atto dal patriziato clericale) e scolastico, per la diffusione della istruzione, con programmi laici, nei ceti popolari. Fu anche tra i fondatori della Società Nazionale Dante Alighieri, per l’accompagnamento scolastico dei flussi degli emigranti italiani.

Iniziato forse nel 1887, accreditato del 33° grado scozzese e cooptato nel Supremo Consiglio nel 1889, affiliato nel 1893 alla romana “Propaganda Massonica”, nel 1896 subentrò, per un ottennio, al Gran Maestro Lemmi; riebbe il Supremo Maglietto nel triennio 1917-1919. Passò all’Oriente Eterno, 76enne, nel 1921.

Napoleone Colajanni

Del Fratello Napoleone Colajanni conosciamo, con chiari riferimenti europeistici, uno scritto del 1906 apparso per le edizioni della “Rivista Popolare”, con il titolo provocatore di «Latini e Anglosassoni (Razze inferiori e razze superiori)».

Siciliano di Castrogiovanni, garibaldino fin dall’adolescenza, negli anni dell’impresa dei Mille e poi di Aspromonte (quando anche – 15enne appena – fu fatto prigioniero dalle truppe governative), combattente nel 1866 (terza guerra d’Indipendenza) e ancora nel 1869, valoroso in battaglia, decorato perfino, e poi però nuovamente arrestato per una cospirazione repubblicana in Napoli, visse per qualche tempo, all’indomani della laurea in Medicina, nell’America del sud. Rientrato in Italia associò lo studio della sociologia – divenendo anche professore di Statistica all’università di Palermo – all’impegno politico, cominciato 25enne con il consiglierato civico nella città natale e proseguito nel Consiglio provinciale di Caltanisetta, fino all’approdo nel 1890 (e confermato per dieci legislature) nel Parlamento nazionale.

Tra i fondatori del Partito Repubblicano Italiano, si distinse – allo scoppio della grande guerra – fra gli interventisti di parte democratica, nella logica del compimento dell’unità nazionale, e fu autore di numerose monografie scientifiche.

Venne iniziato massone giovanissimo nel Tempio della catanese “I figli dell’Etna”: loggia che rappresentò, nella configurazione civile e patriottica della Massoneria risorgimentale, al congresso dei democratici d’area radicale e repubblicana del 1878. Passò all’Oriente Eterno nel 1921.

L’obiettivo dell’interesse politico di Napoleone Colajanni, all’interno di un quadro di cooperazione internazionale, è la relazione fra i popoli latini e quelli anglosassoni, scorgendo in essa una via di superamento del sentimento di razza per il compimento invece di quello che egli chiama «il grande edificio della civiltà umana».

Alcune pagine del suo saggio del 1906 aiutano a seguirlo nello sviluppo della sua elaborazione che ha nel passaggio federalistico europeo un momento centrale.

Ecco la prima: «Quei rapporti di giustizia e di uguaglianza che sono indispensabili tra le classi sociali di uno Stato per assicurarne l’evoluzione progressiva, lo sono ugualmente tra le varie nazioni… E la successiva formazione delle nazioni è il mezzo più sicuro per allontanare ed eliminare gradatamente gli antagonismi nazionali, e le cause di guerra e di supremazia degli uni sugli altri. La formazione dello Stato italiano e dello Stato germanico ha allontanato ed eliminato gradatamente gli antagonismi nazionali… Permangono gli antagonismi e le cause di guerra in Oriente e nei Balkani perché gli Stati non vi sono ancora formati in base al principio di nazionalità…

«Nell’organismo internazionale, pur rispettandosi le individualità nazionali, non saranno possibili le lotte tra la Francia e la Germania , tra l’Italia e l’Austria, come non sono più possibili le guerre tra Genova e Venezia, tra Firenze e Pisa, tra la Borgogna e la Normandia, tra la Scozia e l’Inghilterra, ecc. ».

E dato per acquisito che «Più gli aggruppamenti sono grandi, più la guerra è resa impossibile», ecco lo sguardo proiettivo verso la solidarietà internazionale: «Il primo aggruppamento logico e razionale tra le nazioni si dovrebbe scorgere nell’unione tra le nazioni, che hanno tra loro affinità etnica se non rigorosamente antropologica: le affinità linguistiche, religiose, politiche, la comunanza delle tradizioni e dei costumi, la mentalità…».

Ma non sarà la razza il motivo aggregante finale: sarà l’economia. Scrive Colajanni: «Giudicando dal passato non c’è da fare serio affidamento che si arrivi all’internazionalismo attraverso l’unione delle razze… alla meta si arriverà più facilmente sotto la pressione dei moventi economici… Si fanno sempre più vive le simpatie tra i Latini e tra gli Anglosassoni in Europa e in America…».

«Ciò ch’è una realtà confortante – è questa “tendenza” sicuramente constatata: le razze tutte tendono a livellarsi ed a modellarsi le une sulle altre in quanto al tenore di vita ed alla civiltà… Questa ”tendenza” se continuerà nell’avvenire farà sì che le razze numerose e diverse nei primordi della storia e della vita sociale, assimilandosi e avvicinandosi sempre più nei bisogni, nei sentimenti, nella mentalità, finiranno per costituire l’umanità, che non è ancora, ma che continuamente diviene. Le nazioni sono state il crogiuolo, in cui si sono fuse e confuse le razze, dando ad esse comune impronta psichica e lasciandone immutati i caratteri antropologici; e le nazioni, sotto l’influsso della civiltà e dei crescenti bisogni ed interessi economici preparano l’avvento del grande organismo internazionaleuesta Q».

Arcangelo Ghisleri

L’europeismo del Fratello Arcangelo Ghisleri, insegnante liceale e geografo-cartografo, tra i fondatori del’Associazione Nazionale del Libero Pensiero “Giordano Bruno”, trova momento e luogo di espressione soprattutto alla vigilia della grande guerra, sulla scia dell’interventismo democratico e all’insegna «O sui campi di Borgogna per la sorella latina o a Trento e Trieste. E a guerra finita per gli Stati Uniti d’Europa».

Originario del Cremonese, Ghisleri svolse da giovane una intensa attività giornalistica, come fondatore o collaboratore principale di diverse testate fra loro unificate dalla comune matrice democratica: “La rivista repubblicana”, “Cuore e critica”, “L’educazione politica”.

Militante e dirigente repubblicano – prima del movimento, poi anche del partito – , combinò tale impegno alla promozione di iniziative civili nel segno del più rigoroso laicismo. Fondatore e anima della cremonese Società dei liberi pensatori, partecipò al congresso internazionale del Libero Pensiero svoltosi nel 1880 a Bruxelles da cui sarebbero venuti gli statuti della Federazione Internazionale del Libero Pensiero. Di particolare interesse è l’interpretazione che egli offre del movimento: il contrario esatto del settarismo e di una dottrina , ma un metodo aperto «alla fede come all’incredulità».

Egli si segnalò anche come uno dei più decisi sostenitori della prassi della cremazione, e fu per merito precipuo della sua loggia “Pontida” se Bergamo ha avuto uno dei primi forni crematori d’Italia, nonostante le fortissime resistenze della maggioranza politica di stampo clericale presente in città.

Era stato iniziato alla Massoneria, giovane di 23 anni, nel 1878, nel Tempio della loggia “La Ragione”, aderente al Rito Simbolico, all’Oriente di Milano. Qui sviluppò la sua militanza passando poi nella loggia “Pontida” all’Oriente di Bergamo, di cui fu tra i fondatori: un’officina tutta volta al lavoro civile, senza rituali, e destinata a rapido declino se venne demolita due anni dopo (per riprendere dopo alcuni anni con maggiore continuità e fortuna). Riprese la frequenza dei lavori de “La Ragione” che egli sentiva, al pari di numerosi liberi muratori lombardi del tempo, come «nucleo politico vivo che sotto forme dissimulatrici, fa propaganda e beneficenza efficaci».

La propensione marcatamente razionalista e positivista, con quanto ne derivava in termini di diffidenza verso la tradizionale religiosità iniziatica e, in politica, mazziniana, lo tenne per qualche tempo ai margini della Istituzione massonica, fino a quando – nel 1906, all’indomani cioè della assunzione del Supremo Maglietto da parte del Pot.mo Ettore Ferrari e della celebrazione in Roma del nuovo Congresso internazionale del Libero Pensiero, con la partecipazione formale del GOI e delle logge all’obbedienza – venne affiliato alla milanese “Carlo Cattaneo”.

Antifascista intransigente, migrò all’Oriente Eterno, 83enne, nel 1938.

Il suo manifesto europeista è databile all’agosto 1914, e cioè all’indomani dell’episodio di Sarajevo (17). Esso recita fra l’altro: «i voti degli Italiani non degeneri di ogni regione e di qualunque classe volano irresistibili a confortare i popoli oppressi o minacciati di tutte le patrie, e si stringono fraternamente solidali, colla Francia, col Belgio, coll’Inghilterra, le quali, in quest’ora terribile, combattono pel diritto e per la civiltà.

«Non rappresenta l’anima d’Italia il Governo che dichiara la propria neutralità con una formula equivoca ed egoistica. L’Inghilterra , che interviene nella lotta per difendere la neutralità di una piccola nazione invasa, avrebbe oggi il plauso di Garibaldi che, se potesse levarsi dalla tomba, volerebbe, come nel 1871, in soccorso della Francia.

«Guai a chi non governa, se continuando la sua politica a ritroso dei sentimenti della Nazione, con subdoli pretesti d’equilibrio e di compensi… s’illudesse di trascinare i nostri soldati a combattere altrove, per imprese di pirateria, non per la sua causa della libertà.

«O sui campi di Borgogna per la sorella Latina o a Trento e Trieste.

«E a guerra finita, per la nuova santa alleanza dei popoli, per gli Stati Uniti d’Europa: questa è la parola propria dell’Italia».

Eugenio Chiesa e Cipriano Facchinetti

Ai Fratelli Eugenio Chiesa e Cipriano Facchinetti dobbiamo, datato da Bordeaux nell’ottobre 1928, un «Appello all’Europa»  sottoscritto con i filosofi e poeti spagnoli Miguel De Unamuno ed Eduardo Ortega Y Gasset.

In Italia Mussolini governa da ormai sei anni; in Spagna è Miguel Primo de Rivera (18)– un generale andaluso andato al potere con un golpe favorito da alti gradi dell’esercito, proprietari terrieri e forze economiche catalane – a dirigere autoritariamente la politica del paese, un decennio prima di Francisco Franco. Ed è lui, Primo de Rivera, nel 1927 a scrivere, ai generali puntello del suo regime, di «Massoni, Comunisti e politicanti affaristi, che sarebbero capaci di vacillare nel loro amore per la Spagna».

Meriterebbe ricordare, a tal proposito, la reazione del Gran Maestro Esteva rivendicante, al contrario, l’incorrotto patriottismo della Istituzione: «Se ci facciamo vivi più spesso, ciò è da attribuire al fatto che, in Spagna, la nostra Associazione è costretta a vivere grazie alla tolleranza, che riconosce il nostro diritto alla vita, ma non così come il nostro buon diritto lo richiederebbe… L’internazionalismo della massoneria si fonda, invece, sul concetto cristiano della necessità di unire tutti gli uomini di buona volontà, per lavorare insieme alla creazione di un accordo fra tutte le nazioni… onde assicurare le premesse per quella pace generale che permetterà di volgere tutte le energie al miglioramento dei rapporti sociali». Parole valide per la Spagna del tempo, ma non solo per la Spagna, e verrebbe da dire neppure solo per quel tempo.

I Fratelli Eugenio Chiesa e Cipriano Facchinetti sono come la rappresentazione della comunione ideale fra uomini appartenenti a generazioni diverse: nel 1928 Chiesa ha 65 anni, Facchinetti soltanto 39.

Il primo, milanese, pubblicista e militante politico già da adolescente secondo l’imprinting mazziniano, costretto ad espatriare in Svizzera quando nel 1898 giornali ed associazioni furono chiusi d’autorità e i cannoni di Bava Beccaris colpirono i popolani in rivolta contro il carovita, venne eletto successivamente consigliere comunale di Milano e dal 1904 e fino al 1921 deputato al Parlamento. Poté godere, nel consenso popolare, il favore eccezionale degli stessi anarchici di Lucca e Massa Carrara, che soltanto per i repubblicani avversari della monarchia Savoia disattendevano al tradizionale voto di astensione elettorale. Volontario nella grande guerra, commissario dell’Aeronautica nel governo di unità nazionale nel 1917, fu antifascista fra i più rigorosi.

Iniziato nel 1913 presso la romana “Propaganda Massonica”, fu anche, nel primo semestre del 1930, 2° Gran Maestro aggiunto del GOI in esilio (essendo costretti al confino di polizia in patria sia il Gran Maestro Torrigiani che il 1° Gran Maestro aggiunto Meoni). Passò all’Oriente Eterno nello stesso 1930, in esilio.

Giornalista fu anche il Fratello Cipriano Facchinetti, molisano di Campobasso, direttore ad appena 19 anni del giornale repubblicano “Cacciatore delle Alpi” e quindi redattore del “Secolo” di Milano, una fra le maggiori testate nazionali. Volontario di guerra anch’egli, e ferito in combattimento, promosse ed animò il Comitato d’Azione per la resistenza interna e il soccorso di mutilati e invalidi. Nel 1924 venne eletto deputato e due anni dopo, con gli aventiniani, dichiarato decaduto dal regime fascista. Espatriato a Parigi qui divenne il segretario del PRI in esilio. Nel secondo dopoguerra fu deputato costituente e quindi senatore, e più volte ministro (della Guerra o) della Difesa nei gabinetti De Gasperi.

In Massoneria venne iniziato 22enne presso la varesina “XXIV Maggio”  e nei primi anni ’20 fu membro di giunta del Grande Oriente d’Italia. Venerabile della loggia parigina intitolata a compianto Fratello Eugenio Chiesa, passò all’Oriente Eterno nel 1952.

Il manifesto-appello all’Europa, cioè alle democrazie europee, cofirmato dai Fratelli Chiesa e Facchinetti unitamente a Unamuno e Ortega Y Gasset, denuncia il rischio crescente del continente ad essere asservito alla tirannia, e l’urgenza di un’intesa fra tutti i credenti nella libertà. Coinvolge perciò in un impegno di primo piano i militanti di un’Alleanza Repubblicana Italo-Spagnola ed addita alla Società delle Nazioni «l’usurpazione dei pubblici poteri compiuta – a loro personale profitto e a profitto delle loro particolari clientele – dai dittatori attuali in Italia e in Ispagna», disconoscendo l’asserita loro rappresentatività delle popolazioni di riferimento, che anelano anzi alla libertà.

Esso infine lancia l’obiettivo di «una Lega europea» che – testualmente – «sia in grado di cooperare instancabilmente ed efficacemente – in adempimento al vaticinio di Giuseppe Mazzini e di Emilio Castelar (19) – alla formazione degli Stati Uniti d’Europa, premessa indispensabile di ogni più vasto ordinamento della vita internazionale dei popoli».

Giuseppe Chiostergi e Mario Pistocchi

Un cenno merita, in questa rapida sequenza, anche il manifesto che, undici anni dopo, nella primavera 1939, e perciò alla vigilia dell’aggressione nazista e della Polonia, diffondono, sotto il titolo di «Con le armi per battere la dittatura fascista», i Fratelli Giuseppe Chiostergi e Mario Pistocchi, insieme con i Fratelli Facchinetti, Pacciardi e altri ancora loro sodali politici.

Marchigiano di Senigallia, docente universitario e pubblico funzionario, anche Chiostergi fu volontario nella grande guerra, con la legione garibaldina, e gravemente ferito e mutilato, imprigionato dai tedeschi.

Affiliato, negli anni della cattività, alla ginevrina “Fidelité et Prudence” ed alla parigina “Italia Nuova”, ebbe in patria, nel secondo dopoguerra, diversi incarichi politici, e parlamentari e governativi, migrando all’Oriente Eterno nel 1961.

Anche Mario Pistocchi frequentò varie logge negli Orienti francesi, già dal 1930: la “Giovanni Amendola”, l’“Italia” – di cui divenne Venerabile – e la “Italia Nuova”. Egli fu tra coloro che con maggiore entusiasmo sostenne il progetto che nel 1929 i ministri francese Briand e tedesco (ante-nazismo) Stresemann lanciarono per una “unione europea” nell’Ambito della Società delle Nazioni. Sorse allora, infatti, una Federazione dei comitati degli italiani all’estero per la Società delle Nazioni e per gli Stati Uniti d’Europa.

Il «Manifesto» del 1939, che aggiorna il giudizio sullo stato del mondo («L’imperialismo tedesco… ha trovato non soltanto alleati, ma complici e servi i fascisti italiani. La repubblica spagnola è stata assassinata. L’Etiopia, l’Austria, la Cecoslovacchia, Memel (20), l’Albania sono sparite dalla carta geografica… Mussolini ha già accettato la barbara filosofia nazista, il razzismo… Dopo molte capitolazioni, esitazioni, rinunzie, le grandi democrazie europee tentano di innalzare una grande barriera all’imperialismo germanico…»), rilancia l’ideale più alto di Mazzini e Garibaldi: «una comune coscienza europea, la federazione dei popoli, gli Stati Uniti d’Europa», felice risultato del pur tragico cozzo dei peggiori nazionalismi.

Randolfo Pacciardi

Si insinua temporalmente fra i manifesti e saggi o risoluzioni politiche dei Fratelli Chiesa e Facchinetti, Chiostergi e Pistocchi, la testimonianza documentata del Fratello Randolfo Pacciardi.

Toscano maremmano della provincia di Grosseto, classe 1899, volontario combattente – ancora adolescente! e pluridecorato al valore militare nella guerra 1915-18 –, Pacciardi entrò in politica, affascinato dall’idea mazziniana, già alla smobilitazione postbellica. Militante repubblicano e aderente al movimento antifascista clandestino “Italia libera”, dovette fuggire nel 1926 in Svizzera, da dove fu espulso otto anni dopo, quando migrò in Spagna assumendo il comando del battaglione Garibaldi, successivamente trasformatosi in Brigata internazionale. Divenne allora uno dei capi politici e militari dell’antifascismo europeo, non soltanto italiano, esule e combattente.

Dopo esser riparato in Algeria e Marocco, raggiunse nei primi anni ’40 gli Stati Uniti dove svolse una intensa attività propagandistica contro le dittature del vecchio continente. Rientrato nel suo paese nel 1944, cioè alla liberazione di Roma per opera degli anglo-americani, l’anno dopo fu eletto segretario del Partito Repubblicano Italiano e incaricato della direzione del quotidiano dello stesso PRI. Deputato alla Costituente, entrò quindi come vice presidente nel IV governo De Gasperi, che portò alle elezioni per la prima legislatura repubblicana (aprile 1948). Nei tre gabinetti successivi a presidenza ancora De Gasperi ricoperse  le funzioni di ministro della Difesa e restò deputato fino al 1968.

Fu iniziato massone giusto ventenne, nel 1919, presso la grossetana loggia “Ombrone” . Passo all’Oriente Eterno nel 1981, e la sua orazione funebre fu tenuta dallo stesso futuro Gran Maestro di Palazzo Giustiniani Gustavo Raffi, che gli fu allievo ed amico.

Da buon mazziniano l’ideale europeo è testimoniato dal Fratello Pacciardi fin dall’inizio della sua attività politica, sul fronte dell’antifascismo. Richiamerò a tal riguardo sei articoli da lui pubblicati, con sigla o pseudonimo, fra il 1928 ed il 1940: il primo su un numero unico di “L’Italia Libera”, organo di stampa dell’omonimo gruppo romano (21), titolo «Il programma»; il secondo, del 1929, su “Libera Stampa”, sotto il titolo di «Il moto federativo europeo»; idem il terzo, titolo «In stile telegrafico»; il quarto, del gennaio 1940, su “La Giovine Europa – La Jeune Europe”, titolo «Fini di pace»; idem per data e testata, il quinto, titolo «Dopo l’accordo Stalin Hitler»; ed il sesto, del marzo successivo, sulla medesima testata, titolo «Al di là della mischia» (22).

A proposito di questa ultima testata giornalistica che lo accolse, meriterà dire che il doppio riferimento italiano e continentale – “Giovine Italia” e “Giovine Europa” – intendeva segnalare la missione che attendeva, più di tutti, le giovani generazioni dell’Italia finalmente liberate dalla doppia oppressione, politica e ideologica, della dittatura e del nazionalismo imperialista.

Presenterò rapidi stralci di tali robusti interventi del Fratello Pacciardi come parti di un unico ideale articolo di riflessione democratica e proposta europeista, lungo un decennio e più di storia drammatica (e si scorgerà in esso il prima e il dopo degli avventi hitleriano e falangista).

«La Jugoslavia ha sempre sognato di riunire le stirpi balcaniche in una Confederazione che le conservi una specie di predominio morale. Oggi la sua crisi interna, sotto l’aspetto jugoslavo gravissima, ma in fondo un’applicazione… in casa propria del principio federativo, e il riapparire sulla scena politica balcanica di uomini di grande prestigio… e di riformatori ed organizzatori… hanno trasportato altrove il centro di gravitazione dell’idea… ».

«Il giuoco di influenze fra l’Italia, la Francia e l’Inghilterra e i non spenti appetiti della Russia, ora, come prima della guerra, fanno sì che non si sposta una pedina nello scacchiere balcanico senza provocare un generale disordine nelle relazioni europee».

«Niente di strano che a qualcuno sia venuta l’idea di affrancare la penisola dalla gara incomposta di egemonie, stringendo tutti i piccoli popoli, diversi per lingua, storia, tradizione, ma uniti nei costumi, nel grado di civiltà e negli interessi, in un grande popolo solo».

«Si comprende anche l’avversione delle grandi potenze a questa idea… Questo sarà il secolo degli Stati Uniti di Europa… Il secolo diciannovesimo cullò, ai suoi primordi, la grande utopia di Mazzini, di Kossut, di Cattaneo, e riuscì a realizzare – e solo in parte – le unità nazionali… Il nostro secolo si è iniziato al canto dell’Internazionale… e realizzerà gli Stati Uniti di Europa…».

«Il nostro continente ha l’urgenza economica di abolire le interne barriere per sostenere la vittoriosa concorrenza degli altri continenti, e specialmente dell’America. Tutte le manifestazioni economiche e politiche, dai cartelli industriali alle organizzazioni dei lavoratori, alla Società delle Nazioni, l’Ufficio del lavoro, l’internazionale parlamentare ecc. ecc, hanno sapore continentale. La stessa crisi interna delle più grandi nazioni e la febbre politica che ne deriva è un anelito a nuove organizzazioni nazionali per rendere sempre più possibile l’avvicinamento internazionale».

«Naturalmente, per vedere tutto ciò occorre spogliarsi della veste di uomini di parte e fare un po’ di filosofia della storia in anticipo… la storia la creano gli uomini e i popoli coi loro entusiasmi, le loro passioni, le loro virtù, i loro difetti, le loro esaltazioni, le loro fiacchezze, le loro necessità economiche, morali, sentimentali, i loro ideali e le loro utopie».

Così invece nel 1940, a guerra esplosa:  «Un fenomeno estremamente confortante deve essere registrato. L’Inghilterra… è il paese dove si discute oggi con più slancio di Stati Uniti d’Europa e di Federazione europea… La Francia riacquista coscienza della sua alta missione europea… Le due grandi potenze d’Europa hanno esteso la loro solidarietà militare al campo politico, economico, finanziario fino a costituire di fatto un primo esempio di collaborazione interstatale che è aperta a tutti gli Stati alleati o eventuali alleati e che non deve finire con la fine delle ostilità. Mano mano che gli schieramenti politici e militari nel nostro continente saranno fatti, e le posizioni saranno prese, si preciserà sempre meglio e con più calorosa intensità il movimento di unione europea come fine di guerra, o meglio di pace…».

«Al mito barbaro dell’imperialismo tedesco, al mito russo di una palingenesi sociale sotto una ferrea e brutale dittatura imperialista asiatica, bisogna opporre la visione umana di una grande città futura nella quale tutte le genti, conservando le loro caratteristiche di razza e di genio collaboreranno costituzionalmente nella pace, nella libertà, nel progresso sociale. Del resto, dopo le rovine della guerra, non esisterebbe civiltà europea, non esisterebbe l’Europa indipendente se non risorgesse dalle ceneri guarita dalle follie nazionalistiche».

«Chi desidera che l’Europa sia provvisoriamente spartita tra Stalin e Hitler e soffocata sotto la dittatura rossa e nera, fino alla nuova guerra per sottomettersi a un solo padrone, non ha che da dire francamente di essersi trovato per sbaglio nel campo degli uomini che lottano per la libertà… Se vince l’Europa democratica non può limitarsi ad arrestare le aggressioni, deve eliminarle per sempre. E come? evidentemente non spazzando dalla faccia della terra due popoli utili alla civiltà, ma liberandoli dalla schiavitù e associandoli a una missione più alta e più vasta di ciascuno di noi e di loro».

Ancora 1940: «La spedizione in Abissinia ha spezzato tutti i legami tra il nostro paese e l’Europa della Società delle Nazioni, l’Europa democratica e pacifista. La spedizione in Spagna ha portato per fatale conseguenza i tedeschi al Brennero. Isolata in Europa l’Italia fascista doveva subire la ferrea legge hitleriana. Hitler spingeva poi il governo alleato a formulare … immense rivendicazioni mediterranee e sottoponeva intanto alla legge della jungla, dopo l’Austria, i Sudeti, Memel, la Cecoslovacchia e infine la Polonia… la Germania spazzava gli Stati indipendenti dalla carta geografica… col disegno evidente di sottoporre tutta l’Europa, direttamente o indirettamente, alla propria dominazione».

«Il nostro è stato il solo gruppo politico dell’emigrazione democratica… nettamente avversario dei comunisti… Li avevamo visti alla prova in Spagna. Avevamo ammirato centinaia di giovani di buona fede dominati da uno spirito dogmatico e capaci di sacrifici di religione, ma avevamo disprezzato la macchina burocratica ai servizi della fazione che innalzava a “capi” tutti i villani unti dal signore… Certo non potevamo rifiutare a priori il concorso e l’alleanza di alcuna forza, specialmente quando si metteva a servizio degli ideali nazionali, ma negavamo fermamente il diritto ai comunisti di dirigerla. Tuttavia, malgrado la nostra avversione e diffidenza nemmeno noi avremmo supposto che i dirigenti comunisti russi compissero un tradimento così vile e sfacciato contro l’Europa democratica, contro la pace, contro il proletariato internazionale».

Ancora 1940: «Repubblica, libertà, socialismo mazziniano, autonomie regionali italiane nella Federazione europea. Questa fu e resta la nostra meta».

«Per fortuna questa orribile tragedia, questa guerra, non può avere un senso così strettamente negativo… Quando, or non è più di qualche mese, si parlava di Stati Uniti d’Europa i ben pensanti del conservatorismo e dell’oltranzismo sorridevano di quel riso che vuole essere superiore. Si assiste oggi a una vera ondata trascinante di “utopie” federalistiche che partendo dalle trincee, dalle officine, dalla stampa, dai cenacoli dei letterati, dai parlamenti, dalla piazza, non si arresta sulla soglie dei palazzi governativi».

«L’idea dell’emancipazione totale dei lavoratori resterà e farà il suo cammino, ma cadono definitivamente le illusioni del “socialismo” dall’alto, statolatra, autoritario, accentratore tirannico e nel campo sociale come in quello politico, il proletariato si riaffezionerà alle difficili e dolorose ma sante e definitive conquiste della libertà nella libertà».

Ancora il Fratello Pacciardi, ma in un altro contesto. Nell’agosto 1944, due mesi dopo la liberazione di Roma dai nazifascisti, su “La Voce Repubblicana” – il giornale che, soppresso come tante altre voci libere dal fascismo, è ora tornato a circolare – esce il testo del primo discorso che gli tiene nella capitale al ritorno dall’esilio. Si tratta di un discorso molto lungo e molto impegnato sotto diversi profili. Qui interessano i riferimenti soprattutto alla causa europeistica, che dovrà essere condivisa dalle forze politiche tornate cittadine d’un paese libero e auspicabilmente repubblicano.

«Sono uno dei tanti giramondo che nelle solitudini dell’esilio ha vivamente e lungamente pensato ai problemi della sua terra e della sua gente…». Questo confida, in un teatro gremitissimo, il Fratello Pacciardi: non deve chiedere voti ma riflessione e impegno per la nuova Italia. Tutto si concluderà poi con il canto corale dell’Inno di Goffredo Mameli.

Il primo suo sguardo è allo scenario mondiale: per due volte l’intervento in guerra degli Stati Uniti ha salvato l’Europa nel cui seno i contrasti fra nazioni e governi sono scoppiati allargandosi anche oltre il territorio continentale. Però adesso – egli sostiene  – «L’interesse degli Stati Uniti è di non essere obbligati ogni venticinque anni a inviare i loro figli a rischiare la vita e a profondere i loro tesori nelle pazzie guerresche di questa Europa… (Essi) hanno un supremo interesse: quello di aiutarci a guarire questo nostro continente malato e il solo modo di guarirlo radicalmente dalla sua follia guerriera è quello di organizzare gli Stati Uniti d’Europa… Se l’America accetta invece che l’Europa sia divisa ancora in zone di influenza e di rivalità, si deve aspettare che le sue future generazioni si facciano ancora scannare in guerre più tremende di quella che stiamo soffrendo».

«Ho sentito fare – aggiunge poco dopo – il nome di Mario Angeloni. Permettetemi che stacchi un fiore da questa ghirlanda eroica. Fu tra i primi a partire, fu il primo a morire. Era repubblicano e morì in quella atmosfera internazionalistica fischiettando l’Internazionale. Nel letto di morte comune, nella trincea comune, aveva superato i confini dei partiti e delle nazioni. La battaglia era allora come oggi superiore alle forze di un solo partito: era la battaglia dell’internazionale della libertà contro l’internazionale della tirannide».

Meriterà aggiungere che anche Mario Angeloni era un massone di massima virtù: andato a morire per la causa spagnola, così come facevano nel secolo precedente i garibaldini, mossi dalla convinzione che ogni patria che soffre è la propria patria che soffre. Umbro di nascita, iniziato fra le Colonne della “Concordia” all’Oriente di Perugia nel 1922, al ritorno cioè dalla grande guerra valorosamente combattuta come volontario. Quella loggia sopravvisse, in clandestinità, fino al 1931.

Più volte aggredito dai fascisti, arrestato, confinato a Lipari e ad Ustica, processato e condannato a un anno di carcere, assolto ma nuovamente confinato per tre anni a Ponza, il Fratello Angeloni emigrò infine a Parigi, frequentando la loggia “Italia Nuova” ed attivandosi per il rafforzamento della Lega Italiana dei Diritti dell’Uomo che avrebbe cooperato con i partiti politici nell’azione antifascista fuori dai confini della patria.

Fu nel 1936 che partì per il fronte spagnolo in difesa della repubblica e fu ucciso appena un mese dopo.

Meuccio Ruini

Siamo adesso, in Italia, al tempo della Costituente. A ventidue anni dalle ultime “libere”  elezioni politiche, la popolazione maggiorenne – compresa la parte femminile – viene convocata alle urne per la elezione dell’Assemblea che, su base proporzionale, dovrà approvare la costituzione repubblicana, secondo la volontà elettorale espressa il 2 giugno 1946.

All’interno dell’Assemblea una commissione detta “dei 75” è chiamata alla redazione del testo costituzionale. Ne è presidente un uomo politico di minoranza ma di larga esperienza e largo credito personale, l’avvocato Bartolomeo, detto Meuccio, Ruini: massone dal 1901.

Sarà importante premettere che la questione europeista non entrerà direttamente nelle discussioni dell’Aula di Montecitorio, restando piuttosto inserita all’interno del più vasto tema del “pacifismo”, o della scelta di ripudio della guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali che la costituzione consacrerà per l’Italia. Ruini tratterà la materia, e anche in anni successivi alla esperienza costituente riprenderà la questione in vari saggi.

Reggiano, laureato a Bologna, entrò giovanissimo nell’Amministrazione dei Lavori Pubblici divenendone direttore generale per il Mezzogiorno; fu poi consigliere di Stato. Di area radicale, in Parlamento venne eletto la prima volta nel 1913; volontario nella prima guerra mondiale e decorato al valore militare. Nel primo dopoguerra fu sottosegretario al Lavoro (governo Orlando) e quindi ministro delle Colonie (governo Nitti): a lui si devono importanti iniziative come la creazione dell’Istituto Case Impiegati e dell’Ente Nazionale per il Turismo, dell’Istituto nazionale per l’Esportazione.

Avviandosi l’Italia verso l’avventura fascista, fu tra gli organizzatori di una formazione di opposizione, denominata Unione Nazionale per la Nuova Democrazia (23) che resta legata particolarmente al nome del Fratello Giovanni Amendola, assassinato dai fascisti nel 1926, e il cui manifesto politico del 1924 fu firmato da moltissimi massoni, fra i quali due prossimi Gran Maestri: Guido Lay e Umberto Cipollone, e fra i sardi dai Fratelli Mario Berlinguer ed Ezio Mereu.

Esponente, nel secondo dopoguerra, del Partito Democratico del Lavoro, riformulazione del radicalismo prefascista, partecipò come ministro a diversi governi di CLN (Bonomi I e II, Parri) prima di essere eletto, nella lista dell’UDN (rassemblement fra liberali e demolaburisti), all’Assemblea Costituente e di svolgere quel ruolo di primo piano nella redazione della carta costituzionale della repubblica. Fu quindi senatore di diritto (essendo fra quei parlamentari dichiarati decaduti nel 1926 dal fascismo) e negli stessi anni ’40 rappresentò l’Italia nel Consiglio d’Europa; per alcuni anni presiedette anche il Senato ed infine il Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro.

La sua appartenenza massonica si lega, già dall’inizio del Novecento, alla loggia “Rienzi” all’Oriente di Roma. Del Grande Oriente d’Italia di Palazzo Giustiniani fu pure  Consigliere dell’Ordine. Passò all’Oriente Eterno, 93enne, nel 1970.

Come ho detto, la questione europea trova collocazione, nei lavori della Costituente e dei “75”, all’interno della più ampia e complessa questione del pacifismo, quando ci si pone il problema di individuare per esso – avvertito come una urgenza dagli esponenti di tutti i partiti che vivono la esperienza tragica dei superstiti di una guerra rovinosa – un riferimento teorico, già consacrato nella dottrina costituzionale. V’è allora chi guarda alla costituzione spagnola del 1931, dunque precedente all’esperienza franchista, e chi già al cosiddetto patto Kellog-Briand, datato 1928, cui la stessa costituzione spagnola del 1931 s’è ispirata, che condanna la guerra come mezzo di politica nazionale.

Ritenendo la formulazione di quest’ultimo – sono parole di Ruini stesso – inadeguata per non avere essa «un senso chiaro e determinato, mentre la Costituzione si rivolge direttamente al popolo e deve essere capita», ci si piega al concetto del «ripudio della guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli».

La Costituente ritiene che la sola guerra accettabile per la nuova Italia sia quella di difesa legittima da un attacco esterno. Importante è questa intuizione: occorre trasferire sul piano internazionale «quei principi di libertà, uguaglianza e sostanziale rispetto della persona umana, che si (vogliono) affermare ed attuare nell’ordine interno».

Nel suo «Nazione e comunità di nazioni: dal nazionale al sovranazionale», che è opera del 1961, Ruini prefigura gli scenari nuovi in cui quell’impostazione giuridico-costituzionale condurrebbe l’Italia nel contesto della comunità internazionale: dapprima l’ONU (in cui l’Italia è ammessa nel 1955), quindi l’Unione Europea in cui agisce un regolato passaggio di sovranità appunto dal «nazionale al sovranazionale».

Ancora nel suo «Le confessioni pel domani (da un ultraottuagenario). Ricordi di pensiero e di vita e per la storia di domani» (24) egli sostiene quanto segue:

«Andare risolutamente dall’internazionale al sovranazionale… Parlando per primo nella seduta del Senato della Repubblica Italiana, sostenni l’unione federale europea…., fra le posizioni estreme di dipendenza ed indipendenza vi è quella di interdipendenza; si può far capo a formule di integrazione e di comunità, a sistemi che, mentre sono di unità interna fra gli Stati nazionali, sono di solidarietà, di unione (piuttosto che di unità) nei rapporti fra gli Stati nazionali: rivedere, senza rinnegarli, i concetti di Stato e di sovranità nazionale… Bisogna che noi italiani ci prepariamo a sostenere una politica sovranazionale e, in correlazione, modificazioni della nostra struttura economica interna; non dovremo procedere a sbalzi in fretta, ma considerare i problemi del credito, della moneta e perfino delle imposte. Comunque sia, se vi saranno rischi inevitabili, non va dimenticato il dilemma: Garibaldi direbbe “o si fa l’Europa o si muore”. Facendo l’Europa salviamo noi stessi; evitiamo di essere travolti in una umiliante decadenza».

Giovanni Conti

Alla stessa fase storica dell’impegno politico, fra democrazia, repubblica e federalismo europeo, del Fratello Meuccio Ruini appartiene anche il lavoro istituzionale e politico del Fratello Giovanni Conti, che della Assemblea Costituente fu tra i vicepresidenti.

Marchigiano della provincia di Ascoli Piceno, avvocato e giornalista, repubblicano di educazione, fu anch’egli interventista e combattente nella grande guerra. Eletto deputato nel 1921 e nel 1924, fu specialmente legato, a Montecitorio, al collega e Fratello Eugenio Chiesa. Dichiarato decaduto da parlamentare come aventiniano, fu nel secondo dopoguerra fra i rifondatori del Partito Repubblicano Italiano e direttore ed editore del periodico “La Costituente”, sostenitore delle più radicali posizioni del mazzinianesimo moderno. Dopo che deputato alla Costituente, fu senatore di diritto nella prima legislatura repubblicana.

In quanto alla sua carriera massonica si sa per certo che dopo l’iniziazione fu affiliato con il terzo grado, nel 1905, presso la fermana loggia “Tenna”. Passò all’Oriente Eterno, 75enne, nel 1957.

Dell’europeismo di Giovanni Conti è significativo riscontro in un impegnativo discorso da lui tenuto al Senato della repubblica il 25 marzo 1949 nel quadro della discussione sull’adesione dell’Italia al Patto Atlantico. Appare in questa ottica estremamente interessante e politicamente acuta e preveggente la posizione da lui sostenuta: la maggiore necessità di una alleanza politico-militare fra l’occidente europeo e gli Stati Uniti d’America pone l’esigenza e l’urgenza di un rafforzamento dei vincoli che fra loro debbono unire nazioni e stati del vecchio continente. L’adesione al Patto Atlantico impone che l’Europa occidentale – data la permanente influenza sovietica in quella orientale – divenga soggetto politico unitario.

Anche dalla sua lunga disamina si possono trarre elementi preziosi per ricostruire in sintesi la proposta federalista del Fratello Conti, che parte da un accordo all’apparenza soltanto militare per arrivare a definirne invece l’alto profilo politico: «Il secolo decimonono – afferma – è stato il secolo delle monarchie, degli Imperi Centrali, dello zarismo. Il secolo ventesimo è stato nella sua seconda parte il secolo delle repubbliche, delle rivoluzioni popolari».

«Ci fu la Triplice e noi la avversammo perché fu più che un trattato internazionale per la concordia dell’Europa, un trattato di politica interna, e questo è risaputo: sanno tutti che era un trattato per la difesa delle monarchie contro la repubblica sociale».

E alla parte comunista che assimila il Patto Atlantico alla Santa Alleanza di triste memoria, ribatte: «non si rinnova nessuna Santa Alleanza, perché mancano gli imperatori, mancano tutti i presupposti di una tale alleanza». Aggiungendo poi: «Il Patto può essere considerato anche un patto difensivo da un punto di vista bellico. Se ci fosse una situazione nella quale i paesi collegati fossero aggrediti è evidente che il Patto sarebbe difensivo perché l’aggressione lo vorrebbe».

E ancora: «Basta con le esaltazioni insensate del militarismo… sono diseducatrici del nostro popolo che ha bisogno di una nuova educazione virile ma pacifica, educazione che può derivare soltanto dalla tradizione, alta davvero, del Risorgimento».

«Il Partito repubblicano un secolo fa con frase epigrafica di Carlo Cattaneo affermò gli Stati Uniti d’Europa. Venti anni prima con le manifestazioni del suo pensiero Mazzini aveva affermato il programma della Giovine Italia. Tutta l’azione mazziniana ha avuto sempre di mira l’organizzazione di quell’organismo politico europeo che è la speranza degli italiani e la speranza di tutto il mondo. Questa Europa divisa per secoli, campo di battaglia di re, imperatori, principi per le loro conquiste territoriali, per la ripartizione di territori e la soggezione dei popoli, questa Europa, che finalmente è oggi quasi tutta repubblicana, questa Europa si avvia finalmente verso la sua unità. Noi l’auspichiamo e siamo tutti impegnati nell’azione per realizzarla. Unità europea, Stati Uniti d’Europa, questo è il programma del Partito repubblicano: questo deve essere il programma degli italiani».

Ai comunisti che temono la soggezione del vecchio continente alla politica degli USA, e rispolverano e reinterpretano pagine mazziniane per trovare conforto polemico alle proprie tesi, Conti obietta che «la Russia è estranea a questo movimento» di unità federale in democrazia e che la scelta neutralista sarebbe di assoluta intempestività, anzi «suicida» per definizione; il Patto Atlantico, infine, costituisce – a suo avviso – la naturale espansione del patto economico Marshall.

«Voi un giorno – avverte – dovrete essere lieti di constatare che le nostre vedute sullo sviluppo storico dell’Europa sono vedute che hanno in sé l’equilibrio della intelligenza costruttiva del popolo italiano ispirato da spiriti altissimi, assistito dall’equilibrio che salva i popoli dalle deviazioni rovinose e li avvicina alla più alta civiltà… Sono libertario, e per ciò sono per forza vostro avversario».

E ancora: «Neutralità! la neutralità è veramente una grande cosa, non c’è dubbio! mentre da una parte e dall’altra è il macello, si sta tranquilli nel mezzo! ma conosciamo bene la neutralità anche tra litiganti, i neutrali sono davvero il vaso di coccio in mezzo ai vasi di ferro».

Infine: «Terracini… ha letto un brano di Mazzini a proposito della guerra di Crimea del 1854. Io dirò subito quello che ho detto prima: se ci riferiamo al secolo decimo nomo, ai secoli passati, anche a cinquanta anni orsono, evidentemente sbagliamo. Quello che Mazzini disse per la guerra di Crimea è un pensiero che forse avremmo condiviso con lui. La lotta che il partito repubblicano sosteneva in quel momento contro Napoleone, contro la monarchia sabauda, contro le forze della Santa Alleanza, che funzionava nella rivoluzione italiana, dava a quel pensiero luce e legittimità. Allora si voleva sistemare l’Europa secondo i principi  dell’equilibrio e dei compensi: cioè per ispirazione di una dottrina che respingiamo in pieno perché noi respingiamo l’idea del mercato dei popoli».

E’ di Giuseppe Mazzini la seguente frase: «La neutralità d’uno Stato primario adottata come linea di condotta e senza reciprocità da parte degli altri Stati non è se non l’abdicazione, il suicidio di quello Stato», e per certi aspetti sembra di riascoltare le parole di Aurelio Saffi… «Politicamente la neutralità di uno Stato – sostiene Conti – è il suo annullamento. Essa non allontana un solo pericolo, ma condanna lo Stato ad affrontarlo nell’isolamento».

A questo punto l’oratore dimostra inoltre tutta la modernità di pensiero del Mazzini autentico, ricordando una sua lettera del 1865 inviata «ai nostri amici degli Stati Uniti»: «“Se è vero che i doveri sono in proporzione del potere, nuovi doveri sorgono per gli Stati Uniti. Il potere degli Stati Uniti, non solo nel grande continente americano, ma in Europa è, dopo la guerra e l’abolizione della schiavitù, immenso… Per tutta Europa ed oltre l’Europa, s’agita una gran lotta tra gli Stati costituiti dai re nel modo più arbitrario e nazionalità definite dai bisogni e dalle aspirazioni dei popoli: tra la fede repubblicana e gli interessi monarchici. Voi dovete scendere in campo e prendere la vostra parte nella battaglia… I poteri monarchici sono federati a promuovere i loro interessi. E’tempo ormai che abbandonando un sistema d’isolamento il quale involge un indegno sentimento d’inferiorità, i repubblicani stringano dappertutto alleanza”».

Ma dentro il quadro nuovo dell’intesa occidentale, il Fratello Conti colloca l’auspicio di una revisione del Trattato di pace (« Possiamo, se la Russia non si opporrà, riavere Trieste») e di una nuova concezione dei rapporti con i territori ex coloniali: «il nostro ideale è quello dell’espansione del lavoro italiano, dell’intelligenza italiana, dell’operosità degli italiani, non quello delle colonie militari… Sono illusioni quelle dei colonialisti, e oggi col sorgere del sentimento nazionale tra i popoli che abbiamo considerato barbari, l’intervento in quei territori di nazioni che pretendono di essere civili è una violazione del principio di nazionalità… Dobbiamo provvedere perché i nostri connazionali siano tutelati, perché i loro interessi non vadano in malora, perché le loro vite non siano minacciate e non siano oggetto di aggressione: ma rettifichiamo propositi e linguaggio».

Ricorda in proposito che «in Italia non è più possibile la guerra per decisione di un uomo. L’Italia – dice Conti, che arricchisce il suo intervento di un largo spettro di considerazioni che connettono la nozione stessa di democrazia alle più ampie espressioni della politica estera – è libera: la sovranità è nel popolo… Nel passato monarchico, per l’articolo 5 dello Statuto, il re era l’arbitro della politica estera. Lo Statuto autorizzava ogni azione del re aperta o segreta… Nitti nel suo libretto prezioso così scrive: “la responsabilità della guerra (quella 1915-18) è stata di un piccolo numero di uomini. E’ incredibile come finora la politica estera sia stata spesso occultata non solo ai Parlamenti, ma anche ai Ministeri. In Italia i trattati di alleanza, compreso quello della Triplice alleanza  non furono mai conosciuti dai ministri, né presentati alla loro approvazione. La guerra di Libia del 1911, la partecipazione alla guerra europea avvennero senza alcuna deliberazione del Consiglio dei Ministri… Quando in Italia il Parlamento fu chiamato a deliberare per fornire i mezzi per la guerra europea nel maggio 1915, la partecipazione dell’Italia era stata decisa un mese prima col Patto di Londra e gli accordi erano stati fatti due mesi prima. Ma i ministri non conobbero mai il Patto di Londra, come prima non avevano mai conosciuto il Trattato della Triplice Alleanza… Carlo Cattaneo diceva che le case regnanti sono tutte straniera: esse si fanno interessi a parte, anche contro i loro popoli».

Conclusione: «L’articolo 11 della Costituzione afferma che l’Italia ripudia la guerra come mezzo di politica internazionale, Dunque noi non potremmo mai approvare una guerra di aggressione. Chi è, oggi, il padrone della situazione in Italia?…. il popolo italiano è sovrano e il Parlamento è interprete del suo volere».

Nuovamente Pacciardi

Nel gennaio 1952 il ministro della Difesa italiano, ancora il Fratello Randolfo Pacciardi, tiene una relazione al convegno organizzato a Roma dal Movimento Federalista Europeo, alla presenza fra gli altri del presidente della Repubblica Luigi Einaudi.

Siamo proprio allo sbocciare delle istituzioni comunitarie: si comincia, fra 1951 e 1952 e con la firma di Italia, Francia, Germania ovest e BeNeLux, con la CECA, e nel suo ambito – prettamente economico-industriale – si vuol sviluppare, per pressione soprattutto francese, una intesa anche nella politica di difesa: la CED, coinvolgente anche la Germania sconfitta (interdetta al suo riarmo) e prefigurante già le coordinate, con apposite istituzioni parlamentari, di governo e perfino giudiziarie, della futura federazione continentale.

Talune novità sopraggiunte nelle fasi elaborative (dall’indebolimento della pressione sovietica sull’occidente per la morte di Stalin, l’avvio della guerra di Corea ecc.) porteranno, infine, alla rinuncia della Francia e all’abbandono del progetto.

Tema della relazione del ministro Pacciardi è «Dall’esercito europeo agli Stati Uniti d’Europa» ed in esso si riflette ancora l’ “ottimismo della volontà” che in materia europeista ha sempre mosso la migliore Italia – fortunatamente non più soltanto quella laica ma anche quella cattolica, si pensi a De Gasperi, mentre fuori dalla prospettiva dell’unità continentale rimangono ancora per molti e molti anni sia la sinistra comunista che la destra neofascista.

Nella sua relazione Pacciardi rifà l’intera storia del pensiero federalista fino alle intese interstatuali più prossime: dalla conferenza di Strasburgo al trattato doganale tra l’Italia e la Francia, dal piano Schumann del carbone e dell’acciaio all’«accordo fra le Potenze di occupazione per dare alla Germania una sempre maggiore autonomia politica e nazionale». Punta quindi, ovviamente, alla rivoluzionarietà della comunità armata di difesa.

Dice: «La sovranità sugli eserciti diventa associata, collegiale, collettiva. Mettere gli eserciti sotto autorità supernazionale significa qualche cosa di più: significa praticamente… mettere in comune la politica estera delle nazioni che firmano il trattato. Perché mettere in comune gli eserciti voglio dire amministrarli, disciplinarli e dirigerli in comune è come sottoscrivere un patto di alleanza militare fra le nazioni aderenti… Da questi patti di alleanza perpetua nacquero le federazioni internazionali. Come si può tornare indietro?».

E’ da dire che si tornerà indietro, ma si recupererà per altra via. Qui vale però considerare la partecipazione anche umana, non soltanto politica, dei protagonisti di quella stagione pionieristica rispetto a quella che noi viviamo nel terzo millennio.

Testimonia ancora il Fratello Pacciardi: «Mai avevo assistito prima, o partecipato, nel Consiglio dei ministri a discussioni così alte, così drammatiche come quelle che decidevano in fondo del destino della nostra nazione. Anche per un federalista convinto come ero io, come sono, si poteva scorgere il dissidio tra il sentimento nazionale, così radicato nell’animo nostro, e l’idea che se non è realizzata non può diventare sentimento… Dopo la conferenza di Parigi il problema ha mutato completamente aspetto ed ha placato tutti i nostri dubbi… Quando il Trattato sarà firmato – confida Pacciardi con un pizzico di illusione –, la macchina costituzionale europea sarà in moto ed è già fissato un termine di sei mesi durante i quali essa deve preparare i lineamenti costituzionali dell’Europa futura e c’è anche un termine di tre mesi fissato ai Governi perché essi mettano in moto il meccanismo costituzionale per creare la Federazione. L’Europa comincia a divenire visibile…».

L’europeismo del circuito neoferano

Negli ultimi decenni si sono ripetute le dichiarazioni europeiste delle varie Obbedienze massoniche presenti ed attive in Italia, segnatamente il GOI e la Comunione di Piazza del Gesù/Palazzo Vitelleschi.

Di quest’ultima, risale al 1968 – quando ancora l’Unione Europea è nella dimensione della Comunità Economica Europea a sei partner e il quadro internazionale è ancora quello della guerra fredda, segnato dal conflitto vietnamita in estremo oriente e dal sovietismo imperialista nell’est europeo – il seguente enunciato incluso all’interno dell’allocuzione tenuta dal Gran Maestro Giovanni Ghinazzi alla Grande Assemblea del 31 marzo (25). Il decimo paragrafo si intitola proprio «Per una organica Europa delle patrie».

Eccone alcuni stralci: «Non minore deve essere l’influsso nostro nella politica estera, poiché ormai le distanze, non sol terrestri ma oseremmo dire anche universali, si sono talmente ridotte, per cui tutto pare che debba e possa divenire un unico Paese, onde le differenziazioni tra politica interna e politica estera sempre più si attenuano, tendendosi all’integrazione e al vicendevole condizionamento…

«Il nostro primo intento deve essere tenacemente rivolto alla pace fra tutti i popoli… La pluralità di organismi internazionali ora operanti sia munita di maggior forza e di maggiori poteri, onde sia in grado di frustrare, fin dal nascere, le velleità belliciste che dovessero insorgere in contrasto con gli scopi degli stessi.

«In questa superiore visione universale, nostra prima cura deve essere che finalmente… si costituisca una Europa unita che, trascendendo le frontiere dei singoli componenti, formi un tutto organico morale, sociale e politico, così come esige la sua antica civiltà, maestra e guida di tutto il mondo moderno.

«Dobbiamo riconoscere il declino di tutto un clima intellettuale passato e renderci conto che le nuove esigenze economiche e tecnologiche chiedono una risposta globale al meccanismo dello sviluppo, a cui l’Europa, pena la sua decadenza dapprima e la sua sparizione come entità politico-sociale dipoi, non può sottrarsi.

«L’Europa deve ritornare un centro autonomo di civiltà e, per ottenerla, deve ergersi ad unità politica con unico potere.

«Già esiste un federalismo economico-industriale e ci si domanda perché non si debba riuscire a completarlo in un federalismo politico… Ed il modello a cui attenersi, al di fuori e al di sopra di ogni specifica caratterizzazione politica, ci pare evidente non debba essere quello comunista…

«Per noi l’Europa unita sarà la nostra Patria allargata a nuovi confini, con una allargata sovranità, che assumerà il retaggio di tutte le glorie e di tutte le tradizioni delle singole Patrie che la costituiranno».

A quattro anni dopo risalgono invece le dichiarazioni europeistiche del CLIPSAS/Centre de Liaison et d’Information des Puissances Signataires de l’Appel de Strasbourg, il circuito internazionale (non soltanto europeo) cui aderisce la Comunione di Piazza del Gesù/Palazzo Vitelleschi. L’arma atomica definisce ancora la politica delle superpotenze, e l’Europa continua ad essere divisa in opposti campi di influenza ideologico-militare.

Ecco il CLIPSAS (26): «L’ambizione degli uomini è stata sempre quella di costruire degli imperi… Se da un lato può deplorarsi che la storia non fu se non una serie di combattimenti, di conquiste e di disastri, d’altra parte bisogna riconoscere che alcuni popoli e alcune classi sociali desiderarono unirsi per formare delle intese economiche, delle confederazioni e anche degli Stati Uniti, che servissero d’esempio e fine agli uomini di buona volontà…

«Certamente l’idea europea potrebbe essere ricollegata a concezioni antiche, quali quella della cristianità o del Sacro Romano Impero germanico. Bisogna però convenire che l’Europa allora preconizzata, asservita alla forza elle armi, sottomessa a dogmi, era l’opposto di quella intesa secondo il concetto moderno…

«Cosa sarà l’Europa di domani?… Costruttori pacifici, i Massoni si associano decisamente alla costruzione di un’Europa allo stesso tempo prospera, giusta e fraterna.

«Sarebbe deplorevole che l’europeo di domani fosse un uomo asservito, dalla personalità annientata dalle comunità del progresso materiale, dall’intelligenza atrofizzata, interamente offuscata dalla percezione condizionata dei messaggi pubblicitari di massa. I Massoni sono concordi nell’affermare che bisogna preservare la dignità dell’uomo.

«Nell’Europa di domani saranno adottate delle libere scelte morali comuni. Esse derivano da condizioni preliminari, proprie di ogni associazione di uomini liberi. E’ su un piede di uguaglianza dei diritti che gli europei possono riconoscersi come tali….

«Nell’Europa di domani, i problemi dell’educazione dovranno essere riesaminati. Attualmente, in numerosi paesi, esiste ancora un insegnamento confessionale… Questa situazione non permette a tutti i ragazzi di giungere ad un ugual grado di istruzione senza esser costretti a subire un insegnamento dogmatico che non sempre corrisponde alle loro convinzioni e alla loro coscienza. Soltanto la neutralità dell’insegnamento può garantire il vero rispetto della libertà di coscienza. L’ambizione dell’insegnamento deve essere quella di formare l’individuo e non di deformarlo…

«I Massoni, consci di essere particolarmente sensibili all’idea di libertà, pensano nondimeno che la libertà non deve servire da maschera. Essa non sussiste quando vi sono uomini che muoiono di fame, permangono nell’ignoranza e vivono nel terrore. La libertà autentica è quella che garantisce all’uomo la sua sussistenza, la sua salute, la sua istruzione ed il pieno sviluppo delle sue qualità intellettuali….

«La solidarietà è una delle virtù massoniche più costanti… Nell’Europa di domani, saremo invitati ad una solidarietà senza frontiere, ad una simpatia attiva verso tutti i popoli, in particolare quelli del Terzo Mondo…

«La nostra solidarietà si deve affermare in maniera costruttiva associata alla profonda trasformazione di una società ancora troppo egoista, troppo parziale e nella quale il diritto del più forte, camuffato o palese, è ancora troppo fiocamente moderata dal calore dell’antica carità.

«I Massoni tradizionalmente si vietano di “fare politica”. La loro stessa diversità, che arricchisce la loro unione, garantisce loro di non ridursi giammai ad un gruppo ideologico rigido. Non possono però disinteressarsi dell’organizzazione della Comunità, delle norme che la reggono e dell’azione che deve guidare i cittadini verso la felicità di vivere».

L’esperanto massonico

Né può mancare, nel report  delle produzioni europeistiche, un riferimento al gruppo francese della Universala Framasona Ligo cui, piace ricordarlo, aderì una delle figure più singolari ed amate (e anche sfortunate) della Libera Muratoria cagliaritana degli anni ’60: Hoder Claro Grassi, pittore metafisico assolutamente singolare nel panorama artistico isolano (27).

Risale al 1991 il rinnovo dell’atto di fede europeistica della Universala Framasona Ligo: «C’è un patrimonio di materiale cultura comune dentro l’Europa. Dovrebbe essere valutato e reso operativo a favore dell’Europa».

I riferimenti più immediati sono agli scambi universitari, all’urgenza di una educazione civica comune. Ma naturalmente la questione della lingua – l’esperanto come «idioma comune» perché «lingua neutrale» – ha il suo spazio, pur se essa possa considerarsi oggi questione superata, dato l’irreversibile primato dell’inglese e la sua accettazione come lingua storica condivisa.

Sulla Rivista del GOI

La stampa del Grande Oriente d’Italia è tornata numerose volte sul tema dell’Europa Unita. L’annata clou è il 1969, e ad ospitare alcune riflessioni sul tema è la “Rivista Massonica”  a direzione dell’allora Gran Maestro Giordano Gamberini.

Eccone i titoli: “ Gli Stati Uniti d’Europa”, “A che punto è l’Europa”, “Convegno calabro-siculo sul tema L’Unità Europea a Messina”.

Il Gran Maestro Corona

Agli ultimi anni della sua Gran Maestranza giustinianea risale un impegnativo discorso di pregnanza europeista, all’insegna di «Per l’Europa del 2000» del Fratello Armando Corona, uomo di matura esperienza politica ed esercizio professionale sviluppato nella sua Sardegna, che mi è caro qui ricordare ad un anno e un mese dal suo discreto passaggio all’Oriente Eterno.

Concludendo il convegno internazionale di studio su “La liberazione d’Italia nell’opera della Massoneria”, svoltosi a Torino il 24 e 25 settembre 1988 (28), egli – richiamate molte pagine di una storia nazionale fatta di divisioni ed ansie unitarie molte delle quali incanalate proprio dalla Libera Muratoria nel processo risorgimentale e postrisorgimentale – , volge il suo sguardo al futuro:

«Abbiamo oggi due grandi obiettivi e li ribadiamo qui nella prima capitale d’Italia. Anzitutto puntiamo all’unione europea come fulcro della liberazione, del progresso, di più ampia giustizia, di dialogo tra tutti i popoli, di confronto tra tutte le civiltà.

«Per noi Europa significa l’incontro fra culture, tradizioni storiche, modelli civili. Non vi è Paese di questo continente che non conservi i segni manifesti delle relazioni da esso avute con ogni altro popolo: dall’architettura al costume, dalla lingua agli stessi usi alimentari. Esiste già dunque una unione di fatto, materiale e soprattutto spirituale, più vasta e più forte di ogni barriera doganale, di ogni ufficiale passaporto. La Massoneria ha contribuito in modo determinante a crearla e oggi si impegna a darle spazio e voce anche perché l’Europa è in debito col mondo di ben due guerre mondiali… e deve quindi saldare un così pesante fardello con una era di pace che parta da qui: dalla smilitarizzazione e dalla lotta contro ogni forma di inquinamento morale e materiale».

Ancora: «In secondo luogo – e proprio in connessione con l’unione europea – la Massoneria, a cominciare da quella italiana, dovrà compiere uno sforzo nuovo e maggiore, da un canto per misurarsi con le singole realtà nazionali, stemperandole nella nostra universalità, in modo da superare i nazionalismi; dall’altro, allargare l’orizzonte, introducendo nuove forme di coesione fra le diverse comunioni, in modo che dinanzi a sempre possibili controffensive, carissimi Fratelli d’Austria e di Spagna, non ci si trovi come fummo noi nel 1922-25, e voi nel 1936-39 e nel 1938. Sappiamo, in particolare, di dover guardare all’America centro-meridionale – affine per lingua e tradizione storica – e all’Africa. Se un tempo l’Europa deportò, colonizzò e impoverì quelle terre, oggi la Massoneria si deve sentire impegnata nell’opera quotidiana della loro ricostruzione, in nome della comune umanità: un compito che sentiamo più urgente e bruciante per il vicino Oriente, ove il Grande Oriente d’Italia contò per decenni un alto numero di Logge».

E più oltre: «Mentre operiamo nel presente, fecondiamo il futuro, e teniamo in serbo lo sviluppo, il germe del suo avvento. Ancora una volta il raffronto con la storia ci aiuta a sciogliere l’enigma. Mentre si costruivano gli Stati nazionali germinavano le federazioni tra i popoli. I nostri lavori – rivolti alla costruzione del Tempio ideale – conducono a un ripiegamento su se stessi, a quelle riflessioni che sole precorrono e sanno far scaturire i tempi nuovi.

«Immersi in una società pulsante come l’attuale… noi sappiamo conservarci forgiatori di idee, essere pensanti anziché automi gesticolanti: e così ci proponiamo senza arroganza, bensì col senso di chi vuol testimoniare, come sapevano fare gli eremiti dei secoli passati… Consci della storia cui abbiamo posto mano, consapevoli di essere espressione autentica della parte più impegnata della società contemporanea, da questa prima capitale d’Italia la Massoneria… punta a costruire l’Europa del duemila, di cui, nei secoli avvenire, i nostri futuri Fratelli possano andar fieri come noi andiamo di quella costruita nei millenni passati dai nostri precursori.

«Noi abbiamo ereditato da essi le cattedrali del Mille, le libertà del Sei-Settecento, gli Stati nazionali sovrani dell’Otto-Novecento come espressione di superiore libertà per tutti. Ora dobbiamo lavorare per una maggiore giustizia sociale, per preservare la dignità di ogni uomo, per difenderne i diritti inalienabili, per far coincidere il progresso e la civiltà col contenuto dell’art. 1 della nostra costituzione che così recita: “La Massoneria intende al perfezionamento ed alla elevazione dell’uomo e della Umana famiglia”».

Conclusioni

Già dalla fine degli anni ’80, il Grande Oriente d’Italia di Palazzo Giustiniani ha pensato ad un più organico raccordo con le altre Obbedienze del circuito di regolarità anglosassone.

Tale spirito comunionale pervade anche altri “centres de liaison” internazionali. Il calendario di incontri sia a livello di Gran Maestri e Grandi Dignitari che di leader massonici con esponenti delle istituzioni politiche della Unione Europea si va infittendo e ne resta ampia traccia sia nella stampa obbedienziale che su internet.

Soltanto a titolo di esempio possono qui rapidamente richiamarsi il meeting londinese del 5 e 6 novembre 2007, che ha visto il raduno di ben 44 Gran Maestri, e interventi ampi e importanti delle rappresentanze nazionali.

Sir Archibald D. Orr Ewing, Gran Maestro di Scozia, ha ricordato fra l’altro l’esistenza di un Forum Massonico Europeo con un segretariato permanente annoverante, fra i suoi obiettivi, il supporto alla «progressiva integrazione europea», per l’individuazione dei modi «di contribuire alla costruzione europea, cittadinanza e ruolo futuro della Massoneria» (29).

Circa gli ALAM, meriterà ricordare il recente incontro (26 giugno 2009) delle rappresentanze di numerose Gran Logge (e federazioni di Diritto Umano) col presidente della Commissione Europea Barroso (30). Si è saputo, al riguardo, dell’impegno di questi ad avviare lo studio di una direttiva europea sulle associazioni, che uniformi le norme regolatrici di tale materia negli stati membri attribuendo uno status giuridico anche alle cd. associazioni non riconosciute fra le quali è, in diverse nazioni fra cui l’Italia, la Massoneria nelle sue varie formulazioni organizzative ed appartenenze a circuiti internazionali.

 

Note

1        Aldo Alessandro Mola, Storia della Massoneria italiana dalle origini ai nostri giorni, Milano, Bompiani, 1992, pp. 631-632. Al prof. Mola (e con lui, in epoca più recente, al prof. Santi Fedele) dobbiamo la più accurata ricostruzione, finora, della esperienza antifascista della Massoneria di Palazzo Giustiniani. Oltre che la citata Storia della Massoneria ecc. (che tratta l’argomento segnatamente alle pp. 607-644), cf. anche Il Grande Oriente d’Italia dell’esilio (1930-1938), con prefazione di Armando Corona, Roma, Erasmo Editore, 1983.

2        L’imprinting mazziniano è presente in tutta la vicenda intellettuale ed etico-civile di Luigi Salvatorelli. In chiave di attualizzazione europeistica, meriterebbe un riferimento specifico il capitolo post-bellico che vede il grande storico impegnato sul piano politico nelle fila del Partito d’Azione (seguendo l’indirizzo democratico riformatore non socialista, dunque lamalfiano) e nella pubblicistica civile alla direzione de “La Nuova Europa”, con la partecipazione determinante di un altro grande storico di area democratica come Guido De Ruggiero. Cf. al riguardo Luigi Salvatorelli (1886-1974), a cura di Angelo d’Orsi, Torino, Aragno, 2008.

3        Allo storico inglese si deve una delle migliori biografie dell’Apostolo repubblicano, particolarmente interessante ove si consideri l’importanza del suo esilio londinese: Cf. Mazzini, Milano, Rizzoli, 1993.

4        Suraci – direttore di “Diario 21.net” – è autore di numerosi articoli e saggi sulle tendenze democratiche del mondo contemporaneo. Repubblicano di formazione, ha dedicato al pensiero ed all’opera di Giuseppe Mazzini numerosi interventi, anche e soprattutto sul suo mensile on line, suscitati dalla ricorrenza due volte centenaria della nascita del Genovese. Cf. il numero di settembre 2005 del suo periodico (“L’Europa di Mazzini”).

5        Nella vasta bibliografia riguardante gli episodi bellici del Risorgimento merita segnalare, con specifico riferimento al “caso” Castelfidardo, il recente studio di Lucio Martino, L’11 settembre della Chiesa. Intrighi, brogli e crimini per l’annessione di Umbria e Marche. L’assedio di Ancona e la battaglia di Castelfidardo, Genova, Eidon Edizioni, 2010.

6        Su Mamiani massone cf. Vittorio Gnocchini, L’Italia dei Liberi Muratori, Roma, Erasmo Editore, 2005, pp.175-176.

7        Sul “Memorandum” e in generale l’europeismo di Giuseppe Garibaldi cf. fra l’altro la relazione svolta da Anna Maria Isastia al convegno “Pace, Stati Uniti d’Europa e diritti dell’uomo nell’esperienza del risorgimento europeo e nel presente della carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea” svoltosi il 18 aprile 2002 presso la facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi La Sapienza di Roma.

8        Si noti che “Il Diritto”, quotidiano politico torinese, proprio nel 1860 fu acquistato dall’industriale e banchiere sardo Giovanni Antonio Sanna, al tempo anche impegnato in politica e ripetutamente parlamentare nelle file della sinistra.

9        Il forte di Santa Maria al Varignano, presso La Spezia, accolse il Generale nel 1862 per le cure “da prigioniero” (ancorché di riguardo), dopo il ferimento alla gamba ad Aspromonte. Il Fratello Candido Augusto Vecchi aveva ospitato Garibaldi, nella propria casa di Villa Spinola a Genova, nelle fasi di preparazione della spedizione dei Mille. Egli – ufficiale del’esercito piemontese, ma anche deputato alla Costituente Romana del 1849! – venne iniziato nella loggia “Ausonia” ed ebbe una ricca vita massonica come fondatore e/o Venerabile di varie logge in Ascoli Piceno e Torino.

10    Il Rito di Memphis e Mistraim, uno dei più diffusi nei circuiti massonici internazionali, rimanda agli antichi misteri ed all’esoterismo egizio. Anche a Cagliari esso fu conosciuto e praticato, forse in forme ancora provvisorie, già dalla fine degli anni ’70 dell’Ottocento (loggia “Giuseppe Mazzini” del Ven. Bonaventura Ciotti con riferimenti nazionali alla Obbedienza di Domenico Angherà).

11    Titolo della relazione “Aspettative e problemi dell’Europa centro Orientale attraverso il Diario Politico di Giorgio Asproni con particolare riferimento al mondo romeno”, pubblicato in Atti del convegno internazionale “Giorgio Asproni e il suo Diario politico, Cagliari 11-13 dicembre 1992, Cagliari, Cuec, 1994.

12    Rilevante fu la partecipazione di soldati isolani, inquadrati nell’esercito sardo-piemontese, alla guerra di Crimea: una terra… lontanissima, ma vista dal Cavour come occasione per inserire definitivamente il Piemonte nel concerto delle potenze europee, in vista di ottenere l’appoggio alla risoluzione della questione nazionale aperta con l’Austria-Ungheria. L’attenzione che Giorgio Asproni riservò alla questione orientale era ampiamente condizionata dalla vicenda della guerra Crimea.

13    Sul rapporto fra il Bittese e l’esule rumena cf. “L’Amicizia tra Dora d’Istria e Giorgio Asproni” in Maria Corona Corrias, De Amicizia, Scritti dedicati a Arturo Colombo, Franco Angeli, Milano 2007, pp. 401-412.

14    La scheda biografica di Francesco Nulla è in Vittorio Gnocchini, L’Italia dei Liberi Muratori, cit., p. 199.

15    Lo scritto del Saffi è rifluito nel 12° volume della sua Summa di ben 14 volumi: Ricordi e Scritti, 1893-1905, Bologna, Analisi, 1992, 14 voll.

16    I maggiori interventi parlamentari di Giovanni Bovio sono stati pubblicati dalla Camera dei Deputati in Discorsi, 1905.

17    Esso è stato ripubblicato in volume nel 1917: cf. Oliviero Zuccarini, I repubblicani e la guerra d’Italia.

18    Il generale Miguel Primo de Rivera fu il vero anticipatore, con il suo governo autoritario, della lunga dittatura di Francisco Franco.

19    Lo scrittore Emilio Castelar, di formazione radical-repubblicana, fu il quarto presidente della (prima) Repubblica spagnola per un brevissimo periodo, dal settembre 1873 al gennaio 1874. La fine della sua carriera politica (in certa misura da lui stesso voluta, se è vero che ricusò una nuova presidenza offertagli dai militari golpisti) preparò la restaurazione borbonica.

20     Memel era la denominazione di una regione lituana.

21    L’articolo è del 1923: «I giovani che non fanno la “professione” del combattente, ma che combattono soltanto in nome di un ideale e ci tengono a non cambiare bandiera, riconosceranno in questo foglio il loro foglio. Noi sappiamo, per fortuna dell’Italia, che di questi giovani con scarsa voglia del bluff fragoroso ma con invincibile fede nelle proprie idee ce ne sono tanti da per tutto: li ritroveremo…». Conclusione: «Non tutti i combattenti d’Italia hanno ripudiano i loro ideali».

22     L’articolo, come gli altri citati dello stesso Pacciardi, si trova  in Europeismo repubblicano. Antologia a cura di Massimo Scioscioli, Massimo Billi e Giuliano Torlontano, con prefazione di Giovanni Spadolini, Roma, Archivio Trimestrale, 1984.

23    Il Manifesto dell’UDN corredato di tutte le illustri firme che lo sostennero è stato ripubblicato da Giovanni Spadolini in L’Italia dei laici. Da Giovanni Amendola a Ugo La Malfa, 1925-1980, Firenze, Le Monnier, 1980.

24    Salvo errore, il testo è ancora in bozza custodita nell’Archivio Meuccio Ruini presso la biblioteca “Panizzi” di Reggio Emilia.

25    In Michele Moramarco, Piazza del Gesù, 1944-1968, con prefazione di Renzo Canova, Reggio Emilia, CESAS, 1992.

26    In Michele Moramarco, Nuova Enciclopedia Massonica, volume terzo, Foggia, Bastogi Editrice Italiana, 1997.

27    Pittore metafisico, fu iniziato nel 1965 presso la loggia “Nuova Cavour” all’Oriente di Cagliari e nel 1966 fu tra i fondatori e il Segretario della loggia “Hiram”.

28    Se ne trova la cronaca in “Hiram” n.9 del 1988.

29    Dispaccio Adnkronos, 9 novembre 2007, in www.grandeoriente.it.

30    Comunicato del 7 luglio 2009, in www.grandeoriente.it.

 

 

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