Il rancore degli esclusi e la politica che abdica, di Ezio Mauro

Una clamorosa asimmetria sentimentale tra europeismo e antieuropeismo pesa sul voto.

Cosa si muove nel sentimento profondo del popolo? Come se la vita fosse senza dubbi, e la vita pubblica senza sfumature, il referendum sembra costruito apposta per questi tempi radicali, radicalizzando i due corni dell’opinione pubblica nelle loro forme estreme, dove c’è spazio soltanto per essere totalmente a favore o definitivamente contro.

Sembra il massimo dell’espressione democratica, la parola al popolo, come la scelta tra Gesù e Barabba. E invece è l’espressione basica e universale della democrazia che cerca se stessa, quando i rappresentanti non sono in grado di elaborare una proposta politica convincente, si spogliano della loro responsabilità e delegano la scelta ai cittadini, saltando i parlamenti e i governi per raggiungere una vox populi dove fatalmente si mescola la ragione e l’istinto, l’emozione e la frustrazione, l’individuale e il collettivo. In questo senso, il pronunciamento popolare è il più ricco di contenuto e di ingredienti soggettivi. In un senso più generale, è un’altra prova di abdicazione della politica organizzata nella sua forma storica tradizionale, che oggi rinuncia ad assumersi i suoi rischi e ricorre al popolo per rincorrere in realtà il populismo che la sta mangiando a morsi e bocconi.

Quei due estremi oggi rivelano che la speranza britannica in un futuro capace di conciliare la storia dell’isola con la geografia del continente e con la politica dell’Occidente è minoritaria. Mentre la chiusura nella coscienza di sé, l’autocertificazione dell’orgoglio identitario e l’investimento esclusivo sul proprio destino prevalgono dirottando la politica del Paese. Tutto questo, come dicono gli istituti di ricerca, costerà caro alla Gran Bretagna e alla sua economia? Ma che importa, se è vero quel che diceva Nietzsche: “La decadenza è scegliere istintivamente ciò che è nocivo, lasciarsi sedurre da motivazioni non finalizzate”. Ci sono momenti in cui l’istinto di dare una forma politica visibile alla decadenza in cui viviamo prevale su tutto, anche sulle convenienze. L’insularità storica e spirituale, orgogliosa, dei britannici è certo un elemento specifico decisivo di questa scelta. Ma il meccanismo politico e morale con cui si è costruito questo esito — l’istinto dei popoli, appunto — parla per tutti, parla per noi. Vale dunque la pena di cercare i caratteri generali di un fenomeno che è esploso a Londra, ma che sta covando come una febbre sotto la pelle di tutta l’Europa.

Prima di tutto sul voto ha pesato un’asimmetria sentimentale clamorosa. L’europeismo non è più un sentimento politico, in nessuno dei nostri Paesi. L’antieuropeismo è invece un risentimento robusto e potente, distribuito a piene mani dovunque. La radicalizzazione delle scelte senza mediazioni, come quella del referendum, realizza un processo alchemico strepitoso e inedito nel dopoguerra, trasformando immediatamente e definitivamente il risentimento in politica, quella politica in vincolo, quel vincolo in destino generale. Tutto ciò che un processo storico lento, prudente e tuttavia visionario ha costruito in decenni, si spezza così in una sola giornata, probabilmente per sempre. Minoritario sugli scranni del parlamento, il populismo anti-sistema e anti-istituzionale ha dunque portato a termine la sua vittoria nelle piazze, sommando le frustrazioni individuali, le separazioni e le solitudini, lo smarrimento delle comunità reali nella ricerca artificiale di una comunità di sicurezza e di rassicurazione che non è più territoriale e nazionale (nonostante lo slogan “Brexit”) ma è spirituale e politica, una sorta di secessione dalla forma istituzionale organizzata che i popoli europei si erano costruiti nel lungo dopoguerra di pace, per crescere insieme cercando un futuro comune.

Il risentimento ha le sue ragioni, tutte visibili a occhio nudo. L’impotenza della politica prima di tutto, schiacciata dalla sproporzione tra problemi sovranazionali (la crisi, l’immigrazione, il terrorismo) e le sovranità nazionali a cui chiediamo protezione. Poi la lontananza burocratica dell’Unione Europea, che percepiamo come un’obbligazione disciplinare senza più rintracciare la legittimità di quella disciplina. Quindi il peso ingigantito delle disuguaglianze che diventano esclusioni, la nuova cifra dell’epoca. In più la sensazione tragica che la democrazia e i suoi principii valgano soltanto per i garantiti e non per i perdenti della globalizzazione. Ancora la rottura del vincolo di società che aveva fin qui unito — nelle differenze — il ricco e il povero in una sorta di comunità di destino, mentre il primo può ormai fare a meno del secondo. Infine e soprattutto il sentimento di precarietà diffusa e dominante, la mancanza di sicurezza, la scomparsa del futuro e non solo dell’avvenire, la sensazione di una perdita complessiva di controllo dei fenomeni in corso: di fronte ai quali l’individuo è solo, immerso nel moderno terrore di smarrire il filo di esperienze condivise, vale a dire ciò che gli resta della memoria, quel che sostituisce l’identità.

E’ evidente come tutto questo favorisca un linguaggio di destra, una semplificazione demagogica, una banalizzazione antipolitica, uno sfogo nel politicamente scorretto e una via di fuga nell’estremismo, come mostrano i banchetti imbanditi coi cibi altrui da Le Pen e Salvini. In realtà, c’è uno spazio enorme per una riconquista della politica, se sapesse ritrovare una voce credibile e per la costruzione europea, se sapesse riscoprire l’ambizione di sé. Altrimenti varrà, a partire proprio dal Brexit, la profezia di George Steiner, secondo cui l’Europa ha sempre pensato di dover morire. Mentre ormai soltanto gli immigrati vedono nella nostra terra quel che noi non sappiamo più vedere: semplicemente “una dimora, e un nome”.

La Repubblica, 25 giugno 2016

 

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