La solidarietà? È una questione di calcolo, di Emanuele Coen

Affidarsi alla razionalità e non al sentimento. Per aiutare meglio chi ha veramente bisogno. Colloquio con Peter Singer, che spiega la teoria dell’altruismo efficace. Con idee sorprendenti.

Il volto spaesato di Favour, la bimba di nove mesi sbarcata sola a Lampedusa dalla Nigeria, dopo aver perso la madre durante la traversata del Mediterraneo. Il corpo senza vita del piccolo Aylan sulla spiaggia di Bodrum, in Turchia. E il sorriso di Richard Gere che abbraccia i senzatetto nella mensa della Comunità di Sant’Egidio, a Roma. Immagini che commuovono, scaldano il cuore e suscitano sempre le stesse domande: «Che fare?», «Come posso dare una mano?».

Per molti la solidarietà nasce da un moto spontaneo dell’anima. Gli “altruisti efficaci”, invece, prima di fare una donazione e impegnarsi in un progetto umanitario valutano razionalmente costi e benefici, l’affidabilità dell’organizzazione a cui si rivolgono, per essere sicuri che la propria opzione sia la migliore per il maggior numero di persone. Questione di numeri e cifre, non di emozioni. Questo pensiero, condiviso da un movimento silenzioso che si diffonde in tutto il mondo soprattutto tra i millennials, ha come portabandiera Peter Singer , 69 anni, filosofo e saggista australiano, docente di Bioetica all’università di Princeton.

Nel 1975 Singer scrisse “Liberazione animale”, diventato un classico della filosofia, ora esce in Italia il suo nuovo saggio: “La cosa migliore che tu puoi fare” (Edizioni Sonda), galleria di testimonianze di persone che applicano questa teoria tutti i giorni. Per illustrare il concetto di altruismo efficace, il filosofo australiano ha tenuto una lectio magistralis (in collaborazione con l’editore Sonda) il 21 giugno (ore 18,30) al teatro Carignano, a Torino. È l’anteprima dell’edizione 2016 del festival “Torino Spiritualità” (28 settembre-2 ottobre).

 

Professor Singer, cos’è l’altruismo efficace?
«È anzitutto una filosofia, secondo cui dovremmo cercare di rendere migliore il mondo, destinando almeno il 10 per cento del nostro reddito a questo scopo: l’altruista efficace finanzia solo le organizzazioni umanitarie in grado di dimostrare con i numeri la propria affidabilità. Inoltre, è un movimento sociale sempre più vasto, composto da individui e associazioni dall’Australia all’Europa, che ha già raccolto milioni di dollari per ridurre concretamente il numero di morti causati dalla povertà estrema».

Gli italiani hanno riscoperto il valore della solidarietà, più di 32 milioni di persone hanno fatto almeno una donazione nell’ultimo anno. L’Italia è un Paese “altruista efficace”?
«Donare di più, di per sé, non vuol dire raggiungere obiettivi importanti. Dipende dal tipo di donazione e dal tipo di organizzazione a cui gli italiani si rivolgono. Ogni volta che doniamo, dovremmo chiederci se si tratta del gesto più efficace che possiamo fare per migliorare il pianeta. In genere le persone non si fanno troppe domande, spinte dall’emozione o dall’indignazione. E invece bisogna ascoltare la testa».

Così il ragionamento suona un po’ astratto. Può fare un esempio?
«Certo. Nel 2013, prima di Natale, 20mila persone si sono riunite a San Francisco per vedere un bambino di 5 anni travestito da “Batkid” che girava per la città a bordo di una Batmobile con accanto un attore travestito da Batman. Il piccolo, Miles Scott, malato di leucemia, era in chemioterapia da tre anni, e alla domanda su quale fosse il suo più grande desiderio aveva risposto: “Essere Batkid”. La fondazione Make-A-Wish ha fatto sì che il suo sogno si realizzasse, sostenendo che il costo medio dell’operazione si aggirava sui 7.500 dollari: gli altruisti efficaci sanno che la stessa cifra poteva essere utilizzata per salvare le vite di almeno tre bambini e forse anche di più. Dal punto di vista etico, salvare la vita di tre bambini è più corretto che realizzare il desiderio di uno solo».

Come si fa a riconoscere una organizzazione con i requisiti giusti?
«È difficile confrontare situazioni molto diverse: alcune organizzazioni si occupano di fornire zanzariere contro la malaria al costo di tremila dollari per ogni vita salvata, contro i duemila dollari spesi per ogni vita salvata da un’associazione che fornisce assistenza sanitaria ai bambini colpiti da diarrea. E così via. Alcuni sono più trasparenti di altri, snocciolano dati che aiutano le persone a orientarsi. L’anno scorso l’organizzazione statunitense Give Well, che si occupa di valutare le associazioni benefiche, ha indirizzato 110 milioni di dollari a quelle più efficaci. Finora GiveWell è stata fondamentale nello sviluppo del nostro movimento».

Nel libro lei critica le Ong che per le proprie campagne utilizzano foto di bimbi sofferenti. Perché?
«Non amo le immagini che suscitano commiserazione. Può essere controproducente mostrare bambini che muoiono di fame in Africa, danno l’idea di una situazione disperata, contro la quale non si può fare nulla».

L’Europa è dilaniata dal dibattito sull’accoglienza dei migranti. Qual è il giusto approccio per affrontare questo argomento?
«Il tema è molto spinoso, ma un fatto è certo: accogliere migranti e profughi in Europa è dispendioso. Applicando i principi dell’altruismo efficace, sarebbe più opportuno assisterli nei Paesi di provenienza, quando è possibile. Prendiamo l’esempio di Libano e Giordania, che ospitano molti più rifugiati siriani di qualsiasi nazione d’Europa. Bisognerebbe aiutare questi Paesi a riceverli: ci sarebbero meno migranti costretti ad affrontare il Mediterraneo e meno morti in mare».

Lei afferma che per fare bene agli altri è necessario guadagnare molto.
«Una persona ricca, con uno stile di vita sobrio, può destinare a scopi umanitari molti più soldi di un povero. Mi viene in mente l’esempio di Matt Wage, un mio ex allievo all’università di Princeton conosciuto nel 2009. Riuscì a stimare quanto costasse salvare la vita di uno dei milioni di bambini che ogni anno muoiono per malattie incurabili. Matt aveva ragionato molto sull’altruismo efficace, per individuare quale carriera perseguire per fare il meglio che poteva. Invece di intraprendere la carriera universitaria, decise di lavorare per una grande società finanziaria a Wall Street. Guadagnando di più, infatti, sarebbe stato in grado di donare assai di più del 10 per cento del suo stipendio. Un anno dopo la laurea, Matt stava già donando una somma a sei cifre, salvando un centinaio di vite».

La donazione del rene è uno dei capisaldi del movimento dell’altruismo efficace. Non è un sacrificio troppo grande?
«Il ragionamento è semplice: studi scientifici dimostrano che, dopo aver donato un rene, c’è una probabilità su 4mila di morire. Se decidiamo di non farlo, significa che consideriamo la nostra vita 4 mila volte più importante di quella di un estraneo».

Risulta che lei devolve buona parte del suo reddito in beneficenza. Ma sarebbe pronto a donare un rene?
«Non lo farei, e finora non l’ho fatto. Ma se lo facessi sarei una persona migliore. Per me è più facile donare una parte del mio reddito: l’anno scorso ho devoluto il 40 per cento dei miei guadagni in beneficenza, nell’arco di un paio d’anni conto di arrivare alla metà. Non siamo tutti uguali, ognuno fa quello che può. Non dobbiamo sentirci in colpa se non siamo perfetti».

Da  L’ESPRESSO, 17 GIUGNO 2016

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