BEBERE’, contu de Paulicu Pillonca
Woody Allen, nell’ultimo festival di Cannes, ha pubblicamente dichiarato che la vita è una commedia scritta da un sadico, forse per questo è ancora importante raccontare fiabe. Cosi ha fatto Paolo Pillonca nel racconto Beberè (Edizione Domus de Janas, anno 2016, pag 250.)
Fiaba o favola? Anche se il confine è molto labile, in letteratura fiaba e favola non sono sinonimi ma sono due generi diversi.
Semplificando per favola si intende un racconto breve, che ha un autore come le favole di Esopo, per fiaba si intende un lungo racconto che ha radici nella tradizione orale popolare come quella dei fratelli Grimm, Andersen, Basile e tanti altri. La protagonista della storia di Pillonca è un piccolo muflone femmina, per questo il racconto è una fiaba ma affonda il suo percorso nella tradizione popolare tanto che la narrazione avviene anche in sardo, per questo è anche una favola. Non è né l’una né l’altra perché non dispensa alcun giudizio morale.
Le favole sono l’anima del popoli e, come hanno giustamente studiato e catalogato illustri studiosi, da Propp a Calvino, esiste una esegesi della fiaba che le accomuna nell’essenza presso i diversi luoghi del mondo .
Ma io credo che oggi, ridotta la tradizione orale popolare quasi all’estinzione, sia necessario preservare il luogo dell’anima dove, nell’ uomo, nasce la fiaba.
Non voglio ignorare il fatto che anche ai nostri giorni esiste una fiorente letteratura favolistica, vorrei evidenziare il fatto che sempre di più si perde la magia dell’atto del raccontare.
I nostri tempi ci obbligano a vivere in un mondo frenetico dove neppure più ai bambini è concesso di fantasticare. Bimbi inquieti, esasperati dall’ ansia di prestazioni degli adulti, obbligati ad avere attività che potrebbero riempire tranquillamente l’agenda di un ministro. Bambini e adulti lontani dal mondo ludico dell’immaginazione: per questo penso sia salutare ritrovare quello spazio interiore che si trova volando nell’alto dell’atmosfera dove il frastuono si quieta, la folla si dirada, le meschinità del mondo lasciano il posto ai nobili sentimenti. Un mondo dove il bello è buono e la sofferenza non è una malattia.
La fiaba di Paolo Pillonca e’ ambientata in una foresta dove d’inverno nevica e in primavera i profumi delle erbe inebriano l’aria.
Beberè, ritrovata in un giorno d’inverno in mezzo alla neve da Pedru, viene da lui affidata a Barore Piras. Barore e Beberè diventano compagni di vita.
Beberè è una creatura straordinaria, e’ certa che l’universo sia governato dall’eterno processo di vita, morte, vita. Ha reminiscenze sfocate dell’altra esistenza, ricorda perfettamente di essere appartenuta alla razza umana, per questo ne conosce il linguaggio e ne condivide i sentimenti. Solo i ricordi sono sfocati, e’ una reincarnazione sui generis un po’ lontana dal comune concetto di Karma, né Beberè si chiede il perchè.
La natura dove vivono Barore e Beberè e’un lugo magico, i passi dove Paolo Pillonca descrive la natura sono brani di autentica poesia:
”Una luna affacciata a metà è soltanto un frammento di salvezza, promessa di amore incompiuta, carezze e coccole in quantità ma senza nessun’altro conforto, come gli incontri con il mio fidanzato nella mia prima vita.”
La piccola muflone torna spesso alla sua prima esistenza.
Barore Piras ama la vita solitaria della foresta, per lui la solitudine è una cara amica e un ottimo deterrente verso le persone insulse. Con la solitudine e il silenzio si difende dai discorsi sciocchi.
Vito Mancuso, qualche tempo fa, ai Giardini Pubblici di Cagliari, in una dissertazione sulla genesi della felicità, esortava i giovani a non farsi rubare la solitudine.
La solitudine e’ la strada obbligata per arrivare all’uomo interiore, il silenzio e’ indispensabile per stabilire un dialogo col proprio sè.
Nella fiaba di Paolo Pillonca la solitudine e il silenzio sono i due stati d’animo dove si compie il processo creativo della fiaba.
L’esaltazione della bellezza e dei buoni sentimenti ricorda la corrente filosofica greca della kalokagathia che sosteneva che cio’ che e’ bello d’aspetto incarna la virtu’.
”Una donna brutta e buona è una rarità, ma altrettanto una donna bella e cattiva.’
Sara , altra protagonista del racconto, una donna bella, è anche buona.
Bello e buono e’ il mondo di Beberè, ma la vita compie il suo corso per questo la natura a volte e’ madre altre matrigna.
La vita di Beberè pur nel suo mondo incantato e’ segnato da tanti abbandoni o meglio, come dice Paolo Pillonca, da tante orfanità.
Le ferite aperte spesso sono la gabbia dell’anima. La fiaba e’ il luogo dove l’anima cura le proprie ferite.
Così afferma Paolo Pillonca: ”In un mondo sommerso di cattive notizie, entrare nel mondo delle fiabe e’ un balsamo per l’anima”
Clarissa Pinkola Estes antropolaga, psicologa ma soprattutto cantadora: ”Le storie mettono in moto la vita interiore, la’ dove la vita interiore è spaventata, incatenata, messa alle strette. Le storie ci mostrano la via d’uscita, e aprono per noi grandi finestre in muri prima ciechi, aperture che conducono alla terra dei sogni, all’amore e alla conoscenza, che ci riportano alla nostra vera vita. Già, la nostra vera vita.
In un mondo dove tutta la nostra esistenza sembra progettata e decisa da altri, spesso e’ estremamente difficile trovarla. Ma anche quando gli avversi numi e la meschinità sembrano sopraffarci possiamo tornare nel luogo incantato di cui solo noi possediamo le chiavi, il luogo dove siamo protagonisti e non comparse della nostra esistenza quel luogo dell’anima dove nascono le fiabe.