Esiste un Dio barbone, degli ultimi. Con lui sono nato due volte….

L’infanzia in istituto, l’alcolismo, il carcere, il manicomio, i genitori “speciali”. Poi il riscatto, la scrittura, i premi e una bella famiglia. Fino a diventare portavoce dei diseredati, delle “anime salve”.

 

Ci sono vite che vengono seque­strate dal buio, solo perché il dolore scavi stanze più ampie alla luce che verrà ad abitarle.

Così, quando Pino Roveredo si siede al Caffè San Marco di Trieste, i gesti calmi che escono dalle mani, le parole pazienti, gli sguardi accesi che appoggia sempre un po’ oltre i profili delle cose, non sono l’al­tra faccia dei segni che incidono qui e là il suo viso: quei solchi sono anzi le finestre aperte in cui oggi la pace, la meraviglia, l’intensità possono respirare. Il buio per lo scrittore triestino è stato invece un tunnel di alcolismo, con brevi esperienze anche di manicomio e carcere, seguito a un de­stino di povertà a colori con due genitori sordomuti, a cui le regole sociali non ave­vano trovato risposte più fantasiose di un collegio in bianco e nero dove togliergli l’infanzia. La scrittura è stata il corrimano a cui si è tenuta sempre aggrappata la sua anima, dal primo libro – Capriole in sali­ta – uscito nel 1966, al Campiello vinto nel 2005 con Mandami a dire, fino alla nuova raccolta di racconti, Mastica e sputa, ap­pena uscita per Bompiani. Il titolo, preso a prestito da una canzone di Fabrizio De André, annuncia che Roveredo, all’età di 62 anni e fuori dalla sua notte da quasi 30, si fa ora portavoce degli ultimi, ovvero di tut­te quelle “anime salve” che attraverso di lui hanno possibilità di esprimersi: e non per compiacimento della sofferenza, ma con compassione per i sofferenti.

«ln realtà scrivevo ancora prima di iniziare a scrivere», comincia a raccontarsi l’auto­re, mentre lo salutano alcuni clienti dello storico caffè,reso luogo di letteratura da un altro grande triestino, Claudio Magris, che Ro­veredo annovera tra i suoi mentori e amici. «Già il lin­guaggio dei segni con cui comunicavo con mia ma­dre e mio padre era un al­fabeto nell’aria», e le parole “madre” e “padre” le dice con particolare dolcezza, l’aver vissuto con il loro

essere speciali lo definisce “un privilegio”: «Allora la consideravo una “sfiga”, l’enne­sima. Poi se ne sono andati mentre io ero perso, bevuto dalla dipendenza, e da allora non posso non pensarli ogni sera, fare con loro un resoconto del bene che c’è stato ogni giorno. Mio padre, come tutti i padri, sognava il meglio per me. Che io diventas­si un presidente, un vincente. Poi, quando mi ha visto dietro le sbarre, mi ha detto che si augurava che io diventassi almeno una brava persona. Ecco: per lui io sto ancora studiando da brava persona». Al padre, anche lui caduto dentro la rete dell’alcol, dedica uno dei racconti, e la qualità della scrittura, un lirismo pieno di sensi e suoni e visioni, gli varrebbe di parlarne a prescin­dere dalla sua biografia. Se non fosse che l’una è tutta impregnata dell’altra, come un corpo da cui lui ha ancora necessità di strizzare fuori le tossine del dolore, di se­pararlo fino all’ultima goccia dall’essenza pura della vita.

«Che cosa è stata la mia infanzia tra i sei e i 13 anni, all’Ente comunale di assistenza dove portavano a studiare i figli dei poveri, mi è venuto di nuovo addosso l’altro gior­no, quando sono stato invitato nell’istituto per incontrare gli anziani che ora sono lì in degenza. Il cartello recitava “credere, obbedire, combattere”, si marciava come soldati, il gioco non era compreso nel re­golamento: e sono certo che il 60 per cento dei miei compagni sia finito in obitori per tossici, carceri e in altri ghetti di esclusi. Un abbraccio al mese, un po’ d’amore sa­rebbero bastati a salvare queste adunate di vite a rischio, invece niente. Allora scrivevo per non morire», racconta facendo ancora scorrere la rabbia nella pellicola degli oc­chi scuri. «Poi sono uscito, sono andato a lavorare e mi sono ammalato di libertà. A 17 anni ero già un alcolista agìtato». E a un alcolista agitato allora spettavano due punizioni da parte delle forze dell’ordine che lo avessero pescato in qualche rissa: un “guanto di scimmia”, ovvero un pestaggio e l’imposizione della camicia di forza nei sotterranei del penitenziario, e una notte in gabbia. Roveredo si ribella e così assag­gia anche il manicomio, proprio negli anni in cui a Trieste stava avvenendo la grande rivoluzione di Franco Basaglia, che lui sfio­rerà appena, giusto il tempo di una partita a scacchi. “Quando mi sono ritrovato nel letto di contenzione, un paziente che chiamavano “Mario lo sposo” perché chiedeva tutti in matrimonio, uomini e donne, mi ha portato una tazzina con mezzo caffè: era il primo segno d’amore che ricevevo da tanto e in quell’istante ho deciso di scrivere le storie dei dimenticati». In realtà, in car­cere dove finirà altre volte per piccoli reati, Roveredo si specializza nell’arte dell’epi­stolario, vendendo la sua arte per qualche pacchetto di sigarette: «Le lettere d’amore alle fidanzate valevano due pacchetti, quel­le al magistrato anche cinque, perché ri­chiedevano attenzione e perizia», sorride.

 

Nel frattempo era­no arrivati anche un matrimonio e tre fi­gli: «Eppure non erano sufficienti a farmi uscire dal baratro in cui ero finito»: Fino a un giorno in cui il buio e la luce si sono toccati e passati il testimone: “Erano ve­nuti tutti e tre i bambini con mia moglie a trovarmi in carcere: ho visto il più piccolo, che allora aveva due anni, e mi è salito un grido: “Che cosa c’entra lui con tutto que­sto”. In quell’istante ho deciso che sarei ritornato a galla», Roveredo quel giorno aveva 36 anni e nasceva per la seconda volta: “Oggi, se qualcuno mi dice che la vita si vive una volta sola, io posso raccontare che no, la puoi far girare anche due volte, sì, anche due volte», ha scritto in epigrafe al suo blog che si chiama proprio Manda­mi a dire. Nelle difficili manovre di riabili­tazione alla responsabilità e alla lucidità di essere vivo nel mondo, Roveredo incontra ancora difficoltà economiche, che affronta questa volta con il partito preso della di­gnità, finisce per fare ”l’opinionista della mìserìa” – come lui dice – per il Maurizio Costanzo Show, cui aveva scritto di un bu­sto ortopedico per un figlio, e soprattutto emerge dall’indifferenza e inizia a pubbli­care i primi lìbri.

Fuori dalla finestra intanto c’è Trieste, il mare, la passeggiata dei sorrisi che trova­no normale che ogni mattino arrivi a sera. Della normalità oggi che cosa pensa? Tor­nando indietro la sceglierebbe? Ride un po’ prima di rispondere. L’attesa più ovvia sarebbe per una risposta positiva, lo sa benissimo: «Credo sia una noia mortale». Dice invece: «Ho conosciuto troppa nor­malità indifferente, non viva e spaventata dal dolore. Io oggi sono grato al dolore per avermi fatto diventare chi sono, per avermi fatto incon­trare veramente degli esseri umani, e forse questo può ac­cadere solo quando non hai nulla da perdere. So che certe persone che camminano sul filo le capisco più di un medico, e forse posso aiutarle e ci provo». Così l’ultima veste di Pino Roveredo è ora quella di garante dei carcerati della Regione Friuli-Venezia Giu­lia, «la prima volta che capi­ta a un ex detenuto», quella di animatore di varie orga­nizzazioni umanitarie che lavorano con profili border­line, nonché quella d’essere materia di studio per molti ragazzi: i suoi libri si leggono nelle scuole, dal vivo ne visita oltre 150 fanno. «Tutti passa­no l’età in cui trasgredire fa forte, fa bullo: ecco, allora, se glielo dico io con quello che

ho passato, che la vita è preziosa, che vive­re a cuore aperto non equivale a perdersi, forse sono più credibile. Ricevo centinaia di lettere, anche da spacciatori: cerco in questa seconda metà della mia esistenza di restituire la fortuna che ho avuto di vedere la vita da entrambe le sponde».

E del senso della vita alla fine che idea si è fatto? «Non lo so se esiste un destino, un disegno degli dèi che guida le nostre sto­rie, ora sarei portato a pensare più di sì che di no, se vedo tutte le piccole coincidenze che hanno guidato la mia, e allora forse al­meno un Dio barbone, un Dio degli ultimi esiste: ma quello che mi sento di gridare per certo, a tutti quelli che hanno mollato le redini, è che la vita è piena di meraviglie, che la gioia è l’ultimo passo dopo il dolo­re, che gli è vicinissima. Io, Pino Roveredo, a 17 anni chiamato ”Pino bibita”, ho visto un figlio prendere la laurea in Ingegneria, ho visto la mia stirpe dannata fiorire in tre piccole vite nei miei nipoti che hanno diritto di sperare. Ecco, se servono prove che ne valeva la pena io le ho». E questo è il grido d’amore che fa da sottotesto anche a tutta l’umanità di diseredati, prostitute, alcolisti, carcerati, vittime e colpevoli di cui narra nei nuovi racconti: dannati di gironi danteschi che hanno un unico istante per accendere un riflettore nel proprio buio, per attrarre a sé un po’ d’amore. Tutti gli «ultimi e penultimi di questa Terra», a cui dedica il libro.

SETTE, 6 maggio 2016

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