Facciamoci riconoscere

Franciscu Sedda è politico e docente universitario di semiotica. Nato a Carloforte nel 1976 da madre carlofortina e padre di Nureci, è ideatore dell’indipendentismo non violento e non nazionalista. Uscito dall’Irs, ha fondato con i suoi amici ProgReS. Ha pubblicato numerosi volumi e saggi, alcuni tradotti in inglese, spagnolo e portoghese, riguardanti la semiotica delle culture, il glocal e la storia della Sardegna, fra cui Tradurre la tradizione, Glocale, Sul presente a venire, La vera storia della bandiera dei sardi, I sardi sono capaci di amare. Vive in viaggio tra la Sardegna e i resto del mondo.
di Franciscu                  Sedda
I. Diventare nuovamente sardi…
Le “lotte per il riconoscimento” sono da diverso tempo al centro della vita politica. In ogni angolo del globo. E in Sardegna? Verrebbe da rispondere “anche”, se non si dovessero fare molti distinguo. Il tema del riconoscimento – che è stato al centro di uno dei dibattiti chiave del pensiero politico contemporaneo, che ha visto confrontarsi a metà degli anni ’90 due dei maggiori pensatori sulla scena internazionale, Jürgen Habermas e Charles Taylor (Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, Feltrinelli, 1998) – ha infatti in Sardegna delle declinazioni tutte peculiari.
È ciò che mette bene in luce uno stimolante intervento di Nicolò Migheli apparso nei giorni scorsi sul sito di Sardegna Democratica.
Per andar dritto al sodo, e provare a riprendere uno dei tanti spunti di Migheli, direi che in Sardegna più che ad una “lotta” per il riconoscimento ci troviamo davanti ad un “problema” di riconoscimento. Come mi pare sottolineasse anche Maria Antonietta Mongiu in un suo intervento a commento dell’articolo di Migheli.
Insomma, dal mio punto di vista, non si può fare una lotta per il riconoscimento di sé se al contempo non ci si riconosce come “un sé”, ovvero come una collettività singolare, consapevole di essere portatrice di istanze sovrane, che non si possono né derogare, né mercanteggiare, né barattare davanti a chicchessia.
Istanze, va notato, che non possono essere ridotte alla semplice somma degli interessi dei singoli individui, o dei singoli gruppi che formano quella collettività, perché hanno a che fare con un bene comune più generale che è proprio il “riconoscimento collettivo”, in quanto esigenza e passione condivisa, in quanto fondamento del proprio essere soggetto politico che vuole governarsi da sé.
Bisognerebbe dunque riconoscersi insieme e reciprocamente, come nazione sarda, oltre che come individui e gruppi portatori di differenti visioni e programmi per la Sardegna. Per farlo bisognerebbe amarsi. Ma noi sardi ne siamo capaci? Questa è la domanda che Nicolò Migheli, riprendendo anche il dibattito sollevato dal mio libro I sardi sono capaci di amare (Kita edizioni), pone con grande nettezza e coraggio: “I sardi sono capaci di immaginarsi come simili che condividono un percorso comune? Di amare la loro terra, la propria nazione, di volerla libera?”.
Per avviarsi lungo il sentiero che porta verso una risposta concretamente positiva bisognerebbe lasciare da parte il nostro orgoglio posticcio, il nostro fingere di conoscerci, di sapere quale è la nostra storia e ricominciare a formarci, per trasformarci. Per divenire-sardi, per divenirlonuovamente.
II. …nonostante tutto…
Per farlo servirebbe un lavoro tanto concreto quanto profondo che probabilmente, a meno di piacevoli sorprese, richiederà molti anni. Formare – attraverso la conoscenza, l’istruzione, la cultura, la prassi organizzata nella politica, nel lavoro, nella vita quotidiana – persone consapevoli e libere, capaci di sentirsi esseri umani sardi, senza boria ma anche senza vergogna, depositarie di una propria storia nazionale da donare al mondo, portatori di diritti e doveri di cittadinanza da mettere in opera attraverso la costituzione di un proprio Stato pienamente inserito nel quadro dell’interdipendenza globale, è compito che vale una o più vite. Che vale molte vite che cooperano insieme pur in mezzo a mille difficoltà, limiti ed errori.
Insomma, più facile a dirsi che a farsi, se consideriamo che persino il nostro auto-riconoscimento fisico, apparentemente così naturale e scontato – siamo un’isola! – diviene riconoscimento in negativo – “abbiamo un handicap, l’insularità, che ci deve essere riconosciuto!” – o addirittura diviene disconoscimento immaginario – “la nostra Penisola”, “siamo dellaPenisola”, “siamo parte della Penisola”, “siamo isola della Penisola” (per passare poi al “siamo quelli che più hanno dato il sangue all’Italia”, “quelli che meglio parlano l’italiano”, “quelli che hanno dato più presidenti della repubblica italiana”, “i fondatori d’Italia”, “i salvatori d’Italia”, “il laboratorio d’Italia”…) – e così via sciogliendosi nelle mappe politico-mentali dell’italianità.
Insomma, abbiamo persino difficoltà a riconoscerci di un altro luogo. Radicalmente altro rispetto all’intorno. Come possiamo sperare di avere in comune una lotta per il nostro riconoscimento politico davanti al mondo?
Eppure se il tema si pone, come capita sempre più spesso a cicli, a ondate, a strappi, evidentemente una esigenza si impone. E una speranza nonostante tutto riemerge. Diverrà progetto? Attraverso quali via tortuose? E a quale prezzo (nulla di veramente importante si conquista senza fatica e sacrificio) diventerà prassi condivisa e dunque cammino vincente?
III. Riconosciamolo, il “governo amico” è un’ipotesi tanto superflua quanto dannosa
Io direi che alcuni “riconoscimenti” potrebbero servirci, individualmente e collettivamente, per iniziare. Due in particolare, molto semplici, mi vengono subito in mente:
  1. Intanto riconoscere che oggi non ci riconosciamo come nazione, ma che questo riconoscimento (o disconoscimento) è, o almeno dovrebbe essere, la questione centrale della nostra vita politica.
  2. Riconoscere che nonostante il disconoscimento della nostra possibilità di pensarci e agire come nazione resta comunque fattibile e decisivo, intanto e quantomeno, riconoscere che l’idea e l’aspettativa del “governo amico” è superflua oltre che dannosa.
Provo a spiegare meglio questi due punti per poi passare ad alcune domande e proposte.
1) Problema da ammettere, nazione da fare
Piuttosto che fingere che il lavoro di identificazione politica dei sardi sia già fatto è necessario riconoscere senza drammi o ipocrisie che oggi non ci riconosciamo collettivamente come nazione; i tempi tuttavia sono maturi per riconoscere anche, senza snobismi o paure, che questo non è un dato innato e nemmeno eterno, e tanto meno può considerarsi giusto e benedetto, se non a prezzo di un nostro pesante depotenziamento politico e pratico come popolo.
Se riconoscessimo questo non-riconoscimento – o meglio, questo auto-disconoscimento – come il nostro problema comune ci staremmo già aprendo insieme alla ricerca di soluzioni. Un po’ come la persona affetta da dipendenza (alcol, droghe ecc.) noi prima di iniziare la terapia (collettiva) dobbiamo ammettere di avere un problema. Parallelo azzardato? Beh, guarda caso, anche per noi il problema è la “dipendenza” e dunque la paura (conscia o inconscia) di essere indipendenti, di prenderci per intero la responsabilità della nostra esistenza, invece che fuggire dai problemi e rifugiarci in “soluzioni” tanto illusorie quanto disastrose. Se riuscissimo a riconoscere che non ci può essere affermazione di sovranità se non c’è un popolo che si riconosce come nazione e si vuole Stato (che pone dunque il problema della costruzione di libere e originali istituzioni che devono concretizzare questo suo riconoscimento di sé) allora avremmo già fatto il passo per renderci conto che tutto questo lavoro è esattamente il compito della politica. La politica sarda, quella che oggi è votata per rappresentare i sardi, quella che esprime i consiglieri di maggioranza e di minoranza, già oggi dovrebbe essere chiamata a rispondere della sua capacità di unire i sardi, di farli sentire più forti e sovrani. Il popolo glielo dovrebbe chiedere e sulla base di questo dovrebbe valutare chi elegge.
2) Riconoscere la controparte
Ora, ammesso che il riconoscimento del nostro auto-disconoscimento (in quanto problema fondamentale e alla lunga ineludibile) non avvenga, e che dunque il tema della nazione sarda rimanga vago, fumoso, sentimentale, estemporaneo e strumentale come è stato fino ad oggi, resterebbe comunque un’altra possibilità concreta di riconoscimento comune: riconoscere che l’idea del “governo amico” è un’idea dannosa e per certi versi perversa, che rischia di perpetrare frustranti prese in giro e drammatiche situazioni sociali.
Potremmo passare anche pagine ed ore a fare la conta dei governi italiani un po’ migliori o un po’ peggiori, ma il punto è un altro, meno opinabile e più decisivo: l’idea di “governo amico” implica una fiducia a priori, una disponibilità a sopportare e scusare lo Stato italiano, che è stata rovinosa ed è politicamente assurda. Il fatto stesso di ammettere l’ipotetica esistenza del “governo amico” implica l’attesa di un cambiamento dall’alto e dall’esterno; una attesa del cambiamento e la conseguente soluzione dei problemi sardi come risultato dell’agognato avvicendamento a Roma (o alla Regione come succursale di Roma) fra il governo “nemico” e quello “amico”.
Il concetto stesso di “governo amico” è insomma la perfetta sintesi fra l’ingenuità politica e la paura di prendersi responsabilità dei sardi. Oppure è segno di malafede e asservimento preventivo. Ma soprattutto, se siamo e vogliamo essere popolo, l’idea di un governo amico che non sia un governo sardo al servizio dei sardi, del loro benessere e del loro protagonismo nel mondo, è paradossale e superflua.
Insomma, a me pare che già oggi, sulla base della nostra esperienza condivisa come sardi, potremmo quantomeno concordare insieme sul fatto che non ci possono essere governi italiani (o statali, se preferite) considerabili come “amici”. Dal punto di vista pratico questo significa che i governi sardi (e più in generale l’intera classe politica sarda, eletta in Sardegna o al parlamento italiano) dovrebbe vedere il governo italiano di turno, in prima istanza, come una controparte del popolo sardo (non sarebbe del resto questa l’atteggiamento conseguente all’idea, continuamente sbandierata, di una “vertenza Stato-Regione” che dovrebbe restare costantemente aperta?). Una controparte può dunque essere il soggetto di una negoziazione, se questa è minimamente realisticamente conveniente e fattibile, ma se questa controparte agisce contro gli interessi dei sardi essa diventa un puro e semplice avversario. Ancor più produttivamente l’idea che lo Stato sia una controparte dovrebbe servirci a convincerci che la migliore abitudine che possiamo prenderci fin d’ora è quella di fare “come se lo Stato italiano non ci fosse” (per parafrasare la massima di Grozio, e poi di Bonhoeffer, “Etsi Deus non daretur”). Come dimostrano lo scandalo della vertenza entrate, la farsa dei fondi per la Sassari-Olbia e del G8 de La Maddalena, per ricordare solo alcuni dei casi più assurdi, è urgente che i sardi e il loro governo pensino prima di tutto a fare da sé, rimboccandosi le maniche e riportando la politica sarda (di qualunque livello) al servizio dei cittadini sardi. È tempo di riportare la politica che conta in Sardegna, fra i sardi, per i sardi.
In questa seconda forma di riconoscimento dunque chi è chiamato a governare la Sardegna, tanto come maggioranza quanto come minoranza, dovrebbe essere valutato dai sardi (e sentirsi legittimato ad agire per essi) sulla base della sua capacità di difendere sempre e comunque gli interessi contingenti e di lungo periodo dei sardi e della Sardegna. In altri termini, qui non si chiederebbe alla politica sarda di essere capace di porre in modo maturo e consapevole il tema della sovranità nazionale, ma quantomeno di smetterla di giocare sulla pelle dei sardi a favorire questo o quel “governo amico” a Roma. Si chiederebbe e valuterebbe la classe dirigente sarda sul coraggio di entrare in attrito o in conflitto, ogni volta che sia necessario, con il governo e con lo Stato italiano. In forma nonviolenta va da sé, ma senza sconti, fino alla possibilità di unirsi trasversalmente per chiamare e guidare i sardi fino a forme aperte di disobbedienza civile, dimostrando così che la classe dirigente sarda non piega la testa davanti alle decisioni ingiuste o dannose portate avanti dallo Stato italiano nei confronti della Sardegna. Sarebbe un buon modo per dimostrasi quantomeno “nazione in pratica”, o più modestamente, classe di governo organica ad una collettività che non si arrende né si rassegna davanti a ingiustizie e prese in giro.
Insomma, se ancora non si riesce a trattare il governo italiano come un “governo straniero”, lo si inizi a trattare quantomeno come un “governo forestiero”; e se i nostri cuori, siccados che pabassa quando si tratta della Sardegna ma patriottici quando si tratta dell’Italia, proprio non ce la fanno ancora, almeno lo si tratti come un “governo statale”, di uno Stato rispetto a cui la nostra fiducia come sardi non può che stare a zero.
IV. Minimo comune riconoscimento: per arrivare a fare “come se lo Stato italiano non ci fosse”
Sarebbe bello essere completamente assorbiti dalla fase propositiva di costruzione della Repubblica di Sardegna, e potersi semplicemente chiedere: “Cosa possiamo fare insieme e cosa può fare ciascuno di noi per costruire una nuova Repubblica giusta, prospera, degna?”. Tuttavia, viste le secche della nostra identificazione politica, piantando i piedi nel pantano del realismo più realista, l’unica domanda che pare ci si possa porre al momento è: “Visto che ancora non ci riconosciamo come nazione in cammino verso l’indipendenza, sapremo almeno riconoscerci tutti insieme, all’occorrenza, ‘contro’ chi lede i nostri diritti e i nostri interessi?”.
I sardi, fin troppo impegnati a unirsi di volta in volta per essere “contro” per conto terzi, dovrebbero forse fermarsi un attimo e guardare oltre le contingenze: a Roma e in Italia passano gli uomini, passano i governi, ma resta lo Stato italiano con le sue logiche, che in Sardegna si fanno patologiche. Anche per nostra colpa e complicità. Per connivenza e paura di essere diversi.
Dunque, senza abdicare al compito di prenderci tutta la nostra parte di responsabilità, è forse tempo di domandarsi se non è quantomeno il caso di riconoscerci davanti a chi, con intenzione o meno, mette in ginocchio la Sardegna fino al punto da mettere a rischio la nostra stessa esistenza, costringendoci all’emigrazione, all’abbandono scolastico, alla chiusura delle aziende, al ricatto assistenziale, alle molteplici forme di prostituzione continua – come ha ben scritto anche Paolo Maninchedda -, alla disoccupazione giovanile al 50%, al disinteresse per la stessa ricerca di lavoro, all’impossibilità di mettere su famiglia, fino a spingere il tasso di natalità così in basso da dover ipotizzare che la Sardegna perderà nei prossimi decenni 300.00 abitanti. (E non ditemi che 300.000 abitanti persi su una popolazione di 1.600.000 non è un’ecatombe benché silenziosa e spalmata nel tempo!)
Lo ripeto. Io, personalmente, penso che i sardi dovrebbero prendersi ogni responsabilità, perché per me una nazione sarda migliore dovrebbe partire ogni volta dalla consapevolezza dei propri limiti e delle proprie virtù. E dalla capacità di proporre a se stessa visioni e progetti, percorsi ed azioni, densi di passione ed intelligenza positiva, che facciano di questi limiti occasioni di crescita e trasformazione e di ogni virtù, dess’amori pro sa virtudi, il motore del cambiamento. E tuttavia mi dico anche che, se per un caso fortuito, mi ritrovassi oggi nel ruolo di governatore – ma di un governatore che non ha raccolto i voti per fare l’indipendenza ma li ha comunque raccolti per difendere la sua gente e la sua terra – non potrei esimermi dal portare avanti con civiltà ma anche con assoluta fermezza una politica che vada al di là dell’idea stessa di “governo amico”, e con essa della pratica della dipendenza, della delega, della rinuncia, della sopportazione, del “non è giusto ma fedelmente mi adeguo”, che ci ha portato fin qui.
Questo da governatore chiederei ai sardi: di riconoscersi quantomeno nel fatto che dobbiamo comunque fare “come se lo Stato italiano non ci fosse”. E tenerci svegli e ben pronti, perché quando c’è, generalmente è anche peggio. E se poi lo Stato italiano fa bene, tanto meglio, sarebbe un buon segno anche per lo Stato italiano. Ma nondimeno io sosterrei che la Sardegna deve decidersi a fare da sé relazionandosi con tutto il mondo, e non solo con una sua infinitesima porzione. Perché la Sardegna è diversa, perché la Sardegna è la nostra casa, e noi dobbiamo prendercene cura come merita. E, ancor più in profondità, perché la nostra indipendenza è giusta e necessaria, perché io la vorrei anche se lo Stato italiano fosse efficiente come la Svezia e bello come l’Italia.
V. Domande e proposte
Benché nulla nella vita possa considerarsi del tutto impossibile è comunque improbabile che io sia il prossimo governatore della Sardegna, dunque la mossa spetterebbe ad altri. La questione decisiva, a situazione vigente e giocando al ribasso, diventa allora la seguente: avrà la lungimiranza e il coraggio uno dei due schieramenti maggioritari di farsi carico programmaticamente ed esplicitamente di questa sospensione della credulità, della fiducia a priori, nei confronti dello Stato italiano? Sarà capace di promettere a se stesso e ai sardi di trattare qualunque governo gli si presenti davanti come una controparte, nel nome della salvezza e del rilancio della Sardegna? E in positivo, facendo un passo oltre verso l’alba, avrà il coraggio di fare della sovranità dei sardi – enunciata ed agita – il cuore della sua proposta elettorale? La metterà al centro della sua comunicazione e della sua agenda? Avrà la forza di declinarla con intelligenza a livello di programma? E si impegnerà a perseguirla operativamente?
Ora, in teoria, la palla e la prima possibile risposta passerebbe al governo sardo in carica. Se esistesse. Se non si accontentasse di mugugnare ogni tanto. Considerata la sudditanza quasi costante al governo italiano, e a Berlusconi in particolare, pare difficile che inizi a dare battaglia per davvero allo Stato italiano, seppure questo sarebbe probabilmente uno dei pochi modi in cui potrebbe rilanciarsi un minimo in termini di credibilità e consenso.
In seconda istanza, ma più probabilmente, la palla dovrebbe passare al centrosinistra che ha vissuto nelle settimane passate uno stato euforico comprensibile ma forse eccessivo considerato che i suoi tanti problemi, così evidenti fino a pochi mesi fa, non sono certo scomparsi nonostante una certa aria di novità sia evidentemente emersa. Soprattutto, rimane aperta in Sardegna proprio la “questione nazionale sarda”, ovvero se e quanto il centrosinistra sardo – o almeno delle sue parti importanti – sapranno abbandonare le lusinghe mentali di essere i salvatori della democrazia italiana e inizieranno a porsi come parte attiva di una nascente democrazia sarda (sa “democratzia”, verrebbe da dire rispolverando un termine usato qualche tempo fa da alcuni componenti del centrosinistra sardo; un termine che a Berlusconi suonerebbe sicuramente come il segno di una incipiente sovietizzazione della Sardegna) tutta da costruire. Segni positivi si scorgono certo all’orizzonte, e sicuramente il dibattito in questi anni è andato avanti e si è evoluto, come lo stesso intervento di Migheli e di tanti altri su Sardegna Democratica testimonia.
In tutto ciò entra in gioco il ruolo dell’indipendentismo moderno e democratico, la sua capacità, in modi tutti da definire, di portare in forma diretta o indiretta a questo salto verso una politica di fattiva sovranità nazionale, una politica che oggi inizia ad emergere anche nelle stanze del palazzo grazie a singole personalità disperse in partiti diversi, una politica che come amici abbia i sardi e la Sardegna. E non lo Stato italiano, il suo governo, i suoi partiti.
Riuscirà l’indipendentismo a produrre questa nuova, ulteriore, evoluzione della specie? O rimarrà tagliato fuori a causa dei suoi stessi limiti numerici e di esperienza, dalle sue prudenze e paure, oppure dal poco coraggio delle vecchie classi dirigenti autonomiste (e dei loro elettori mugugnanti ma fedeli), troppo abituate alla logica di un’alternanza posticcia per sentirsi invogliati a immaginare ed aprire nuovi scenari? O arriverà invece, anche grazie al credito accumulato, al riconoscimento sempre più aperto del suo ruolo innovativo, alla forza pragmatica e propositiva che sta maturando, alla classe dirigente combattiva, a sparigliare i giochi e a costruire nuove configurazioni nel panorama politico sardo? E nel caso, come ci riuscirà? Agendo da testa d’ariete, da lievito o da catalizzatore? È da vedere.
Intanto, caro Nicolò, sarebbe interessante se quel centrosinistra che tu dici potrebbe rompere la “coazione a ripetere”, invece di accontentarsi di alternativi cambi di potere, volesse sperimentare la potenza di un cambiamento alternativo, di un cambiamento sardescamente epocale. Per iniziare potrebbe farsi carico programmaticamente ed esplicitamente della sospensione della credulità e della fiducia a priori nei confronti dello Stato italiano e dei suoi governi, definendoli come la propria controparte, di qualunque colore siano. Cosa del resto coerente e conseguente con il cammino avviato dalla giunta Soru (e poi interrotto dal governo amico dello Stato italiano ma credo anche dalla parte conservatrice del centrosinistra sardo) con la dichiarazione di “sovranità del popolo sardo” contenuta nella legge di istituzione della Consulta per la riscrittura dello Statuto. E in positivo, non sarebbe male se volesse fare di questa sovranità dei sardi – enunciata ed agita – il cuore della sua proposta elettorale, il centro della sua comunicazione, della sua agenda, del suo programma, del suo operare.
Sarebbe un buon modo per farsi riconoscere. E sarebbe difficile non riconoscerlo, perché sarebbe chiaro che una parte importante del mondo politico sardo si starebbe finalmente riconoscendo in quella capacità di amare la nostra terra, la nostra nazione, che porterà, presto o tardi, a volerla libera e indipendente.
Che ciò avvenga o meno l’indipendentismo dinamico e democratico deve comunque rilanciare il suo lavoro di elaborazione e la sua presenza per strada, deve riprendere a formare coscienza nazionale e ad organizzare i sardi attorno a battaglie concrete e proposte credibili. Fare una seria politica indipendentista non è facile. Ma riuscire a farla è la miglior garanzia per aiutare tutti i sardi, nessuno escluso, a riconoscersi come nazione in cammino verso l’indipendenza. Non per orgoglio ma per coscienza. Non per rabbia ma per convinzione.
Franciscu Sedda
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    1 Comment to “Facciamoci riconoscere”

    1. By Mario Pudhu, 16 luglio 2011 @ 23:25

      Cundivido tio nàrrere in prenu cust’artículu de Franciscu. Ma in peruna manera tocat a istare abbaidendhe a bídere ite at a fàghere su “centro-sinistra” (fintzas si no creo chi siat custa s’idea sua). A donzi modu lu naro: creo chi totu sos indipendhentista depimus fàghere donzi irfortzu, su menzus irfortzu chi semus bonos a fàghere, deretu, “immediatamente” mih!, pro cuncordare una unidade indipendhentista operativa in gradu de fàghere “pesu”, de contare, istudiendhe e pretenindhe solu duas o tres ‘cositedhas’ de fàghere coment’e Sardos, chi dipendhent solu de nois etotu, no de pedire a sos surdos de sos “governi amici” de su corru mannu de sa furca, de destra siant o de ‘sinistra’ o de vattelapesca.