SA MANU DE S’UMBRA, il romanzo autobiografico di Bachisio Bandinu, presentato da Manuela Arca.

Lo studioso ha utilizzato il sardo, la lingua del cuore per raccontare la vita e come si diventa ‘omine’ con l’ombra. Edito dall’editrice ‘Domus de janas’, pag. 150. L’articolo è stato pubblicato su L’Unione Sarda il 9 aprile 2016.

Bachisio Bandinu, Bitti, 1939) non avrebbe potuto affidare la storia della sua vita a una lingua diversa da quella che usa per interrogare l’anima,  dare voce interiore al pensiero e innalzarlo alla  poe­sia. Così ha svolto le memorie dell’infanzia e del passaggio al­l’età adulta nel sardo del suo paese, microcosmo di valori, af­fetti e nostalgie. Intitolato “Sa manu de s’umbra”, il romanzo autobiografico sarà a breve pub­blicato dalla casa editrice Do­mus de Janas.

Nonostante il testo sia scritto in prosa, i toni della lirica sono prevalenti. L’incipit, benché non risponda alla misura del verso, è sequenza musicale e sincretica di formule magiche e propiziatorie, preghiere, echi cadenzati di filastrocche, ninne nanne e frastuono di voci sospe­se. In «s’istanza de sa partorja» solo le donne possono essere tramite,ciascuna per la sua funzione, della nascita; rompono le tenebre del ventre materno e consegnano la creatura alla luce che si spalanca sul mistero del mondo.

La stanza del parto è stanza preclusa alla presenza maschile. Nato da una donna e levato dal suo grembo da altre donne, il figlio può essere mostrato al padre – che presiederà ai riti di passaggio allo status di omine e al mondo dell’ovile – solo dopo che l’alito della vita si è tradotto in pianto e il corpo della nuova creatura si è appropriato dell’ombra che ne accompagnerà i passi. S’umbra, metafora dell’identità e proiezone del sistema di relazioni che ha contribuito a definirne i contorni, tema caro a Bandinu e agli studi antropologici che risalgono alla scuola di Ernesto De Martino, è cornice e filo rosso della storia.

Nella frase iniziale la parola è ripetuta ed evidenziata dall’allitterazione (“un’umbra … un’umbra”), il termine governa poi l’intreccio. Torna, infine, facendosi sentenza, nella parte conclusiva del libro: “L’uomo senza ombra è una persona peerduta”. Non è principio filosofico meditato a tavolino, è definizione che nasce dall’esperienza dell’autore. Nell’autobiografia Bandinu indugia sul senso di smarrimento e solitudine che provocò in lui il distacco dall’Isola per il trasferimento a Milano, citt nella quale ha vissuto per 15 anni, insegnando e specializzandosi alla Scuola superiore di Comunicazioni. Lontano dalla campagna e dagli ovili, in un luogo in cui il sole, il vento e l’acqua sono orfane della mma di cui in paese si raccontavano ai bambini le inquietanti epifanie, i fantasmi oscurano l’ombra e si sovrappongono ai limiti definiti da “su connotu”.

Pur partendo da una prospettiva individuale, il lavoro si offre così ad una lettura più ampia che rimanda al dibattito complesso sull’identità e sulla lingua dei sardi (che l’autore definisce parlata materna e luce del cuore), di cui Bandinu è voce autorevole. La parabola della sua esitenza s’inserisce, infatti, nel tempo che in Sardegna ha rappresentato una netta cesura rispetto al passato. Sul mondo dei pastori e dei contadini incombe lo spettro della modernità, “totu est in cambiamentu”: la televisione entra nelle case e proietta maschere e corpi diafani, privi di sangue e carne. Parla il linguaggio della pubblicità, fatto di segni incomprensibili. I market sostituiscono le botteghe, smerciando prodotti senza odori. Le case cambiano colore. Richiamati dal miraggio turistico della Costa Smeralda, dalle illusorie prospettive di sviluppo industriale e dal baluginare delle stellette, i giovani lasciano gli ovili. I paesi si spopolano e smarriscono l’ombra. La possibilità di cambiamento si fonda sulla capacità di saperla ritrovare.

 

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