Luigi Cadoni, l’Esopo-Fedro della Sardegna, in un convegno a Villacidro, di Gianfranco Murtas

Lo scorso sabato 5 marzo si è svolto a Villacidro, nei locali del Caffè letterario in piazza XX Settembre – l’antica casa Cogotti – un incontro di studiosi e appassionati alla produzione poetica di Luigi Cadoni (1884-1917), che ha lasciato diverse sillogi poetiche, le prime in lingua italiana (Fantasmagorie, 1904), le altre in lingua sarda variante campidanese (Favolas ed atteras poesias umoristicas, 1909; Cosas de arriri: chantecler sardu o siat sa riconciliazioni de su caboni e de su margiani, 1910; Unu brutt’animali e Concu Franciscu Elènu, ancora fra 1910 e 1911).

Firmandosi Bernardu de Linas egli donò alla letteratura sarda alcuni gioielli che soltanto molti anni dopo, per merito della rivista S’Ischiglia e del nipote Efisio Cadoni – notissimo e valentissimo poeta in proprio, ma anche pittore, scultore e ricercatore storico nonché generoso e inesausto promotore di cultura ed arte –, hanno trovato riconoscimento rivivendo in questi ultimi anni una seconda giovinezza. A tanto hanno naturalmente contribuito, oltreché i numerosi convegni di studio via via organizzati a Villacidro, le ristampe di alcune delle opere di ormai più d’un secolo fa.

L’anno prossimo cadrà il centenario della morte del poeta, che fu anche cronista-corrispondente per il giornale cattolico cagliaritano La Voce del Popolo, che uscì a Cagliari dal giugno 1913 al dicembre 1918 (in staffetta con altre testate del movimento cattolico, o cattolico-clericale, poi cattolico-popolare, del tempo). Una raccolta ne pubblicò anni fa, con mia introduzione e con il titolo Villacidro: paradiso terrestre abitato dai diavoli, il giovane Martino Contu, affermatosi successivamente con eccellenti e numerose ricerche sul sindacato in Sardegna, le correnti migratorie del Novecento tanto più dai Campidani all’America del sud, le figure dell’antifascismo democratico isolano. Più di recente egli ha promosso ed assunto la presidenza della Fondazione “Mons. Giovannino Pinna”, così associandola a quella della SEA, un fecondissimo centro studi di raggio internazionale che collega, da ormai un decennio e più, realtà sarde, continentali ed americane.

Nell’incontro dello scorso sabato, Contu ha svolto una brillante relazione su Cadoni giornalista cattolico negli anni della grande guerra.

Sullo specifico della poetica cadoniana, con tutte le sue virtù nel quadro letterario isolano e particolarmente in quello in lingua sarda fra Ottocento e Novecento, hanno portato il loro contributo, dotto e finemente argomentato, Francesco Casula e Salvatore Tola.

Parimenti prezioso e gradito è stato l’intervento di Giulio Solinas, tutto in lingua sarda, letto (brillantemente) dalla professoressa e consigliera comunale Maria Carmela Aru, che con il sindaco Teresa Pani e l’assessore Francesca Curridori ed altri esponenti dell’amministrazione ha marcato, nel corso dell’intero convegno, l’interesse concreto e tangibile del Municipio alla più diffusa conoscenza e valorizzazione del poeta villacidrese.

Merita a tal riguardo segnalare che, ad iniziativa proprio del Comune, a Luigi Cadoni alias Bernardu de Linas è stato dedicato, giusto in questi stessi giorni, un parco-giardino nel perimetro civico, particolarmente mirato alle esigenze di svago e gioco dei bambini del paese e delle scuole più vicine.

Positivo apprezzamento ha meritato un cortometraggio su Cadoni/de Linas e la Villacidro del suo tempo curato da Giulio Andrea Pirastu, cagliaritano che vanta ascendenze cidresi (e guspinesi). Titolato Da Ruinalta a Norbio: un poeta e il suo paese-mondo, il documentario ha costituito la prova generale di un maggior filmato  che Pirastu ha promesso di presentare in occasione del prossimo centenario della scomparsa del poeta, quando anche si spera possa essere ristampata l’opera omnia dello stesso.

Se la sessione mattutina è stata introdotta e presentata dal critico letterario Francesco Carlini, è toccato al deputato Siro Marrocu, ospitale anfitrione, aprire quella serale proponendo alcuni (scomodi) confronti fra il senso comunitario del “paese d’ombre” del tempo di Bernardu de Linas  e quello, certamente più sfilacciato, dell’oggi.

Efisio Cadoni invece ha concluso la serata riassumendo le tante iniziative avviate negli ultimi tempi per rilanciare un autore suggestivo e provocatorio come pochi, e delineandone una statura che regge perfettamente l’accostamento ad altri fra i maggiori della letteratura sarda di radici non campidanesi.

Chiamato nel novero dei relatori, ho portato anche io un contributo, riferito al quadro ambientale della Villacidro della belle époque (quella stessa del dessiano Paese d’ombre)  ed alle singolari biografie dei due sacerdoti, vicari della parrocchiale di Santa Barbara, che ebbero in sorte l’uno di battezzare, l’altro di accompagnare al sepolcro Luigi Cadoni: don Francesco Luigi Sardu (o Sardo) e don Giuseppe Ortu.

Ecco di seguito il mio testo.

Quei filmati RAI di Giuseppe Dessì datati 1963

Più montagna che pianura, Villacidro si presenta agli occhi scopritori di Gigino Cadoni quasi come ce lo presenta,  giusto ottant’anni dopo – che sono, da quest’altro verso, cinquant’anni fa –, il documentario televisivo curato da Giuseppe Dessì per offrire immagine e realtà della Sardegna, e del paese nostro (allora sfiorante i diecimila residenti), all’Italia: prima dell’abbandono massivo delle campagne, prima dell’impianto dei grandi (e per tanti aspetti rovinosi) impianti industriali, prima del boom del turismo costiero, prima anche – bisogna dirlo – di quel prodigioso miglioramento igienico-sanitario ed urbanistico che i finanziamenti della Regione Autonoma, dello Stato e della Cassa per il Mezzogiorno, infine anche della cassa comune Europea hanno concesso alle amministrazioni locali: così per gli assetti viari nell’abitato, così per i sottoservizi fognari e idrici, così per le infrastrutture civili (cimiteri inclusi, e illuminazione pubblica, e rete telefonica con tutte le sue impressionanti evoluzioni tecnologiche), così per le scuole e gli spazi sportivi, così per l’edilizia residenziale, ecc.

Forse siamo condizionati dallo strumento: in bianco e nero ci appare la realtà remota, quella conosciuta e frequentata da Gigino ed anche dai personaggi di Paese d’ombre, dei Passeri, del Disertore, fino ai mediometraggi RAI di Giuseppe Dessì, che è pure la realtà, fisica e sociale, della mia infanzia; a colori ci appare invece quella che noi attraversiamo, e creiamo anche, nel bene e nel male, dell’attualità.

Starò nella dimessa cromatura del bianco e nero, seppiata al più, dunque nella stagione remota fra fine Ottocento e primo Novecento, nell’arco di quel trentennio circa che è stato l’arco temporale della vita troppo breve del poeta e giornalista nostro.

I focus saranno complementari alla biografia personale, eccentrici rispetto al tutto che, nella vita paesana e in quella letteraria, egli ha rappresentato: questi miei sul tratto religioso dei tempi estremi, della sua venuta al mondo e del suo addio. E dunque, restando al carboncino e non cedendo al pennello, sulla chiesa-madre di Santa Barbara ed il suo clero, essenzialmente i suoi parroci, del 1884 e del 1917.

E ce ne sarà, a richiamare soltanto i nomi che sono quelli dell’avvocato Francesco Luigi Sardu, sposo e padre di due creature, prima che la vedovanza prematura lo indirizzasse al sacerdozio e poi al passaggio di diocesi da Oristano ad Ales, e alla nostra parrocchiale; e di dottor Giuseppe Ortu teologo guspinese, mitica figura di dotto eclettico, parroco “in un paese di belve feroci”, si dirà, parroco con patente papale – la patente di Pio X – dal 1908, la cui biografia è stata raccontata, alcuni anni fa, in un libro bellissimo e prezioso (come quell’altro su Giuseppe Fulgheri e quell’altro successivo sui Disubbidienti) di Salvatore Curridori.

Villacidro belle époque

Tre anni prima della nascita di Gigino, il censimento nazionale ha contato i cidresi: 5.191. Amministrativamente, Villacidro appartiene, nell’ambito della provincia di Cagliari – la prima delle due dell’Isola –, al circondario di Iglesias, retto da un sottoprefetto. Dei 24 comuni ricompresi nel circondario il nostro è quarto per popolazione, dopo Iglesias, Guspini e Carloforte. Vanta, Villacidro, un territorio fra i maggiori dell’Isola intera, e certamente della provincia: sono 18.452 ettari; nella classifica dei 257 comuni della provincia che ingloba l’Oristanese e perfino il Montiferru e il Marghine-Planargia ad ovest, e comprende anche Ogliastra, Sarcidano e Mandrolisai ad est, è addirittura al decimo posto.

Villacidro è un paradiso verde, di bassa collina e di montagna anzi – così lo chiamerà Giovanni De Francesco, il garibaldino divenuto decano dei giornalisti sardi, nel suo saggio del 1902 – con i suoi fiumi e torrenti, con la sua Fluminera che è spettacolo e pericolo insieme, memoria di lutti, raccolta anche di detriti di varia natura, e icona distintiva dell’abitato in concorrenza con Sa Spendula che invece onora il territorio di riposo e resta immortalato dai versi di d’Annunzio.

Ha, Villacidro, ufficio postale e telegrafico, che è il primo dei servizi statali; dovrà aspettare ancora tre decenni per la stazione ferroviaria delle secondarie. Con Gonnosfanadiga  costituisce mandamento giudiziario munito di conciliatura e pretura, sotto il tribunale di Cagliari. Ha le scuole peripatetiche raccontate dalle magnifiche immagini proposte dalla collezione editoriale di Risalendo la Fluminera, autori (da monumentare per merito manifesto) Angioletta Fadda e Marco Sardu, cui dobbiamo anche la guida ad otto gradevoli percorsi interni al perimetro grande del paese, Alla scoperta di Villacidro.

Perché Villacidro, che è tante cose, è anche una rassegna di personalità d’eccellenza anche nell’oggi, e Curridori, la Fadda e Sardu sono soltanto tre dei trenta, e penserei in verità ai trecento, che con Angelo Pittau ed Efisio Cadoni, ognuno con la sua vocazione, danno, o hanno dato, onore a chi oggi celebriamo e nella cui memoria mi piacerebbe associare quegli altri tanti che ho conosciuto ed ammirato, ammirato e amato, nella loro stagione di vita. Non faccio l’elenco – anche se fatico a trattenere i nomi di Salvatorangelo Spano, autore di teatro e poeta, e di Francesco Matta, raccoglitore intelligente e appassionato di documenti; citerei, perché non nostro di nascita, ma nostro certamente di elezione, Dino Marchionni. Né comunque potrei evitare di richiamare, su tutt’altro campo, la memoria grata di don Giovannino Pinna gonnese, anche lui benemerito del meglio.

A voler ricreare virtualmente Norbio com‘era nell’ultimo quindicennio del XIX secolo e nella prima stagione del Novecento, fino al mezzo della grande guerra che tanti lutti aveva portato anche qui, dovremmo ricorrere all’ausilio delle pagine di Iridescenze, alle indicazioni sobrie ma precise di Salvatore Manno e ritrovarci così fra le case povere di Castangias, ai piedi occidentali della pineta dove sorgeva l’antico convento dei padri mercedari – conosciamo tutti forse quella bella pubblicazione curata dalla Soprintendenza su questo sfortunato gioiello della nostra storia locale –, e quelle, forse più distinte, di Seddanus, a far corona al palazzo Brondo divenuto col tempo episcopio e seminario;

conosciamo noi i meriti di Funtanedda – area di sosta sociale rimasta documentata purtroppo soltanto da poche immagini fotografiche che pur arrivano a mezzo secolo fa, Funtanedda che era una specie di polmone d’acqua per tante famiglie del paese di mezzo, il paese delle vie-bisce che vanno per longitudine più o meno costeggiando le dense povertà contadine di Sant’Antonio: Funtanedda ovvero il miracolo della dissetazione civica – non l’unica s’intende, e per fortuna –, ma anche – per le vasche più prossime – dell’abbeveraggio animale, quasi il luogo sociale della condivisione necessaria, biologica, fra le due società, quella umana e quella animale; direi anche, a s’Isca de bidda, Funtanedda sito virtuoso eppure di rango cadetto a confronto del Lavatoio invece immortalato e celebrato dall’obiettivo, pure da quello poetico, non soltanto da quello fotografico, in ogni suo aspetto;

conosciamo gli spazi infiniti di quelle che saranno un giorno le aie Anni, che anticipavano il paese, quasi ne presentavano il tratto, a chi veniva da Cagliari;

conosciamo – per tornare a Iridescenze – Lacuneddas che era ed è campagna, e tale è, ancor più, quel tanto di sparpaglio edilizio che è rione solo per così dire, senza un’anima identitaria, non per colpa però; cuore del cuore è Frontera, quel che a Cagliari, pressoché negli stessi anni in cui esce dalla stamperia il libretto di Salvatore Manno, diviene la piazza Martiri – di generale nostra conoscenza sopra la via Manno –, spazio di collegamento fra quartieri, fra Castello e la Marina, fra Stampace, incollata nella piazza Yenne, e Villanova verso il Terrapieno…

Direi anzi, perché è il calendario a segnalarlo, che vale e spiega molto questo parallelo con Cagliari nel tempo di Gigino Cadoni che è poi lo stesso della pubblicazione di Iridescenze, una belle époque provinciale che più provinciale non può immaginarsi, ma pur tuttavia effettiva, che balza per modernità crescenti: Frontera come piazza Martiri rimanda anche a qualche proprietà abitativa di famiglie della borghesia commerciale e anche professionale cagliaritana, forse in buoni rapporti con il professor Todde, e rimanda alle stagioni di mezzo nell’annuncio dell’estate e nel primo autunno, che le vedono per venti giorni più venti a sanificare qui il loro respiro con le resine della pineta.

In questa cittadina spalmata fra la pineta e la via Nazionale e tutta attraversata dalla Fluminera, in questa cittadina nostra di 5-6mila abitanti, s’apre al mondo e consuma rapidamente la sua esistenza Gigino Cadoni. A un passo dalla chiesa-madre, pronto per il battesimo, pronto per il rito di congedo. A celebrare gli abbracci dell’accoglienza e del congedo i rettori del 1884 e del 1917, don Sardu, don Ortu.

Mi sembra sia lo spirito religioso di Gigino Cadoni quale si manifesta in numerose circostanze della sua sofferta ma intensa vita, a suggerire il doppio focus fra sacramento e sacramentale.

L’avvocato don Francesco Luigi Sardu

Il teologo Vincenzo Usai, sangavinese di origini, ha retto la comunità di Santa Barbara per ben trent’anni, caricandosi di tutte le sofferenze dei clericali italiani e cidresi per l’impresa di Garibaldi e l’unità d’Italia compiutasi con i plebisciti, e dopo addirittura per l’esproprio manu militari dei possedimenti temporali del papa. Egli se n’è andato il 9 marzo 1882; l’eroe di molti di noi, Giuseppe Fulgheri cioè, l’ha seguito, per lo sbandamento e la caduta di Zurito e la rovina del calesse sul suo corpo, appena cinque giorni dopo.

Si sa che Fulgheri – lucida mente nell’amministrazione pubblica come nell’associazionismo proprietario rurale e nel giornalismo di lobby progressista – per quanto credente, o forse proprio per questo, non ha amato granché il clero. Per questo non gli sono accordati, ove mai qualcuno li abbia chiesti, i funerali religiosi. Si è deciso per la sepoltura in un’area non benedetta del nuovo cimitero di Villacidro.

Ad assumersi tale responsabilità sono stati certamente i tre vice parroci reggenti; la registrazione nei Quinque libri di Santa Barbara è firmata da don Efisio Serra.

Non passano però che pochi, pochissimi mesi ed ecco finalmente la provvista parrocchiale decisa dal vescovo Zunnui Casula: a Santa Barbara viene un vicario dalle esperienze di vita singolari, don Francesco Luigi Sardu, 66 anni. Presiederà la parrocchia per quattro anni, sino alla fine del 1885, e amministrerà al piccolo Cadoni quel sacramento d’iniziazione presso il fonte centenario (è datato 1781, quasi vigilia di rivoluzione francese).

La figura del rev. Sardu è di estremo interesse. Di Paolo e Rosa Pilloni, è originario di Nurachi, poco a nord di Oristano.

Si è laureato in legge e con il titolo di avvocato è stato anche reggente di uffici giudiziari (certamente almeno di una pretura dell’Oristanese).

Ha sposato, nel 1843, Maria Anna Maddalena, 19enne cagliaritana, figlia di un Frazioli agiato caffettiere svizzero morto giovane però, e di una Medaille, rampolla della famiglia che con gli Arthemalle ha tirato su, egregiamente, i cantieri della università di Cagliari e del seminario Tridentino alla fine del Settecento. Si tratta anche della sorella, però di primo letto, di Giuseppa Tarasconi, che i lettori dei romanzi di Giorgio Todde sulla saga familiare/professionale di Efisio Marini, il celebre medico anatomo-patologo pietrificatore dei cadaveri, accademico a Londra, Berlino, Vienna e Parigi, ben conoscono sotto il nome di Carmina. La Frazioli è cognata di Efisio Marini, anche il futuro don Sardu è dunque cognato di Efisio Marini, che qualche ipertimorato di Dio ha ritenuto, lavorando di fantasia, fattore del male e strumento del demonio.

La coppia ha vissuto ad Oristano, non distante dalla cattedrale. Ha avuto due figli: Cleto Augusto è nato nel 1850, Savita Ponziano nel 1852. Essi sono ancora piccolini quando, nel 1854, 29enne, ad Oristano, con sacramenti e la benedizione apostolica ricca dell’indulgenza plenaria, la loro madre, lasciando vedovo l’avvocato Francesco Luigi.

In una certa pagina del diario del can. Salvator Angelo De Castro, uno dei maggiori intellettuali sardi del XIX secolo, parlamentare e professore, incolpato – e chissà se davvero colpevole – della fabbrica dei cosiddetti “falsi d’Arborea”, di quelle ricostruzioni mitizzanti la storia sarda dell’alto medioevo con il fasullo re Gialeto ecc., si legge di certi «beni del Dottore Francesco Luigi Sardu soggetti in ipoteca» e precisamente: «A favore dei minori Sardu figli del poveretto [riterrei “poveretto” perché invedovato]Franco Luigi […] per lire 1.302 cent. 95 derivanti dall’eredità della loro avola materna. […]. Casa in Oristano via la Cattedrale. Oliveto in Nurachi in via Spignargiu. Due oliveti in Sa Merenzia territorio di Nurachi. Un chiuso in Santo Vero Milis. Un chiuso in Narbolia».

I registri ecclesiastici conservati nell’archivio storico diocesano di Oristano, che ho potuto consultare, e dove però mancano importanti annotazioni, raccontano questa storia: che, a meno di quattro mesi dalla vedovanza, l’avvocato Sardu ha ricevuto la prima tonsura. Egli ha deciso di farsi prete, per il che avrà dovuto certo sistemare i suoi figli – ed è credibile che li abbia affidati ai suoi familiari di Nurachi.

Ha voluto entrare nella vita clericale, ed ha quindi dovuto anche munirsi di adeguata dote materiale.

Il fatto è che l’ordinamento clericale prevede che il presbitero debba vivere dignitosamente, non di elemosine, e sia dunque titolare di rendite che la proprietà terriera può assicurargli. Ecco così, nel caso concreto, che l’anziano Paolo Sardu, il padre del nostro prossimo don Sardu, costituisce, il 23 giugno 1854, il patrimonio ecclesiastico in capo al figlio: un oliveto, una vigna, un chiuso del valore nuove tremilaottocentoquaranta. Il testo dell’atto notarile è chiarissimo: «Sia a tutti noto che desiderando il proprietario Paolo Sardu del fu Francesco nato e domiciliato in questo villaggio di Nurachi di vedere il di lui figlio signor dottore in leggi Francesco Luigi Sardu nato in questo stesso villaggio, e domiciliato nella città d’Oristano promosso al sacerdozio, che il medesimo avrebbe detto d’abbracciare mediante il Divin Volere, e stanteché non avrebbe beneficio alcuno per cui possa decorosamente mantenersi, con forme esige un sì alto grado, ha perciò stabilito e risoluto di costituirgli un competente patrimonio ecclesiastico, prima che venga ammesso agli ordini vari, consistenti in beni stabili, e fruttiferi, ad oggetto di non ridursi ad uno strato di mendicità coerentemente al prescritto del Concilio Tridentino. Quindi […], senza esser forzato, né in modo alcuno indotto, costituisce, cede e dismette in favore del suo figlio signor dottore in leggi Francesco Luigi Sardu […] quell’oliveto e vigna, che legittimamente asserisce possedere in territorio di questo villaggio, e regione denominata Santu Justu, che si compone di alberi d’ulivi trecentosettantasette, e di viti cinquemila che confina esso a terra aperta dei contadini […], più un chiuso nell’istessa regione adiacente allo stesso oliveto, che legittimo pure asserisce possiedere nella detta regione, d’estensione circa are trenta, che confina capo a terreno di…».

Un mese dopo è lo stesso avvocato Sardu a chiedere al presidente del Tribunale di prima cognizione di Oristano il decreto di omologazione dell’atto paterno.

Convocato per la conferma di quanto riportato nel rogito del notaio Salvatore Saba, e soprattutto della spontaneità della sua volontà, Paolo Sardu – qui definito “contadino” – conferma tutto per veritiero.

Giusto nel mezzo fra i primi adempimenti notarili e quelli ultimi dell’omologazione, avanza l’avvocato Sardu, al tempo 38enne, nel sacerdozio.

E’ il canonico penitenziere della Metropolitana di Oristano, nonché vicario generale di monsignor Giovanni Saba (arcivescovo di Oristano e vescovo di Santa Giusta diocesi unita), vale a dire il teologo Giovanni Pinna, a scrivere al curato di Nurachi rev. Vincenzo Manca: «Mentre l’iniziando dottore in Leggi Francesco Luigi Sardu nato [in codesto villaggio] e residente in Oristano desidera di essere promosso alla 1.a clericale tonsura, e più ordini minori e sacri secondo la dispensa di Clemente XIII – [parentesi: Clemente XIII, regnante nella metà del Settecento, è il papa che imbraghettò tutti i nudi artistici del Vaticano, compresi quelli della Cappella Sistina, ma anche quello che deliberò la permuta Villacidro/Villamar fra le diocesi di Cagliari e Ales-e-Terralba] – […] perché non vada mendicando nello stato clericale fin da quando riceve la 1.a clericale Tonsura deve esser provveduto di Patrimonio Ecclesiastico giusta il S.C. di Trento; perciò vi ordiniamo di ammonire in tre domeniche successive […] al tempo del maggior concorso i parrocchiani di Nurachi in lingua volgare ed intelligibile che se sanno che i beni od ipoteche spiegate nello stromento di Patrimonio ecclesiastico che pubblicherete, costituito al menzionato iniziando Dr. Francesco Sardu ?? dal nostro cancelliere, non sieno libere, sicure e scevre di altro peso o tributo o che il donatore di essi beni non li possegga quietamente e pacificamente, o che fossero tutte od alcune di esse ipoteche sottoposte ad altri debiti anteriori… ».

Tre giorni monsignore scrive anche ai duomieri della Cattedrale arborense:

«Mentre l’iniziando Dottore in Leggi Francesco Luigi Sardu […] desidera di essere promosso alla 1.a Clericale Tonsura, e più ordini minori e sacri a mente del disposto da Clemente XIII […] e siccome interessa che restiamo informati della vita e de costumi di d[etto]. iniziando Francesco Luigi Sardu […] che in tre Domeniche successive infra missam solenni ed a tempo del maggior concorso, avvisiate il popolo che se alcuno sa o avesse inteso che il menzionato iniziando Dr. Sardu sia scomunicato, sospeso, interdetto o irregolare per delitti o per difetto infame, rissoso, ladro, sedizioso, od abbia dato nuova parola di sposo, o sotto il velo di essa abbia deflorato qualche donzella, od attentato al di lei onore; o se vizioso e di cattivi costumi, [fosse stato visto] andare di notte a balli con armi e con cattivi compagni; o fosse figlio illegittimo, o sia stato o sia attualmente diffamato di qualche peccato pubblico e scandaloso, o se sapesse qualche infermità di gotta od altri svenimenti, che lo facciano improvvisamente cadere; o se [per] altri accidenti (???) perda il giudizio e la ragione o se non è tenuto per virtuoso di buona vita ed esempio, lo debba rivelare a Noi o a voi stessi sotto pena di scomunica maggiore ipso facto incurrenda...».

Il 1° agosto successivo il duomiere don Antonio Mura comunica il corretto adempimento: «il sotto segnato accerta essersi in questa Chiesa Cattedrale inter missanem solemnia  pubblicato in lingua venacula il presente monitorio […], non vi risulta niuna opposizione, ad eccezione di una paralisi all’occhio destro per cui è privo affatto della vista».

Le fonti disponibili e consultate non forniscono il dettaglio di modalità e tempistica del cursus honorum, di studi e – immediatamente dopo l’ordinazione – di ministero di don Sardu nell’archidiocesi di Oristano, anche se è da immaginare che la preparazione umanistica che l’aveva portato alla laurea in giurisprudenza e anche all’esercizio legale di alcuni anni possano aver condotto alla ordinazione sacerdotale nell’arco massimo di due-tre anni soltanto: sappiamo che nell’ordinamento previsto dal Concilio di Trento, dopo la sacra tonsura, si passava per i quattro ordini minori dell’ostiariato, del lettorato, dell’esorcistato e dell’accolitato; da qui al suddiaconato, fase alla quale si legava l’impegno celibatario. Seguiva il diaconato, primo dei tre ordini maggiori, e a questo l’ordinazione presbiterale.

Sia monsignor Severino Tomasi nelle sue note su Nuovo Cammino rifluite poi nei due preziosi volumi di Memorie del passato, sia altre comunicazioni venutemi dalla curia di Oristano, sia anche alcune note del Liber chronicus di Santa Barbara redatte da monsignor Giuseppe Diana ed ulteriori, per altri aspetti, che dobbiamo a don Marco Statzu Sanna consegnate a Terralba dal medioevo ai giorni nostri. Storia, tradizioni e persone riferiscono che fino al 1869 don Sardu abbia svolto il suo ministero nell’ambito della diocesi metropolitana, per passare – press’a poco nella Pasqua appunto del 1869 (vigilia quasi del Concilio Vaticano I, vigilia anche della santa liberazione di Roma dalla teocrazia di Pio IX) – nella suffraganea di Ales.

Va detto che da soltanto due anni Ales ha finalmente riavuto il suo vescovo. Per molti anni, dato il conflitto fra Stato e Chiesa, la Sardegna ha potuto contare su un solo vescovo, monsignor Montixi di Iglesias, che si è anche prestato a cresimare e ad ordinare preti nelle altre diocesi isolane; nel 1867alcuni accordi fra governo (ora a Firenze) e Santa Sede hanno portato il vescovo a Nuoro, e da Nuoro si è così liberato il vicario capitolare, reggente la diocesi, a sua volta ordinato vescovo ed assegnato appunto ad Ales, monsignor Francesco Zunnui Casula, prossimo a partecipare così, con il collega di Nuoro e quello di Iglesias, alle assemblee conciliari in San Pietro.

Dal 12 aprile 1869 dunque don Sardu è stato incaricato viceparroco duominiere nella cattedrale dei Santi Pietro e Paolo in Ales; così sino al dicembre 1873.

Assegnato come vicario alla parrocchiale di San Nicolò d’Arcidano, qui è rimasto quasi nove anni, appunto fino alla nomina a Villacidro.

Dopo Villacidro passerà, alla fine del 1885, alla concattedrale di Terralba, qui rimanendo come vicario fino a tutto il 1903, e collaborando – vecchio ormai 87enne – per qualche tempo anche dopo. La morte lo incontrerà quasi 90enne, in Arcidano, nel 1905.

Per quattro anni, dunque, egli serve religiosamente la comunità cidrese: sesto vicario (titolo che sta per parroco e rimanda a quanto la titolarità parrocchiale era di un canonico urbano che non si muoveva dalla sua cattedrale, delegando al altri la cura effettiva delle anime. Canonico di Santa Barbara è stato anche il futuro cardinale Cadello, al tempo dell’aggregazione cagliaritana durata fino al 10 settembre 1767).

Fra gli interventi annotati del parrocato Sardu in Villacidro si ricorderà la rifusione della campana detta di San Sisinnio, grazie alle offerte popolari, nel 1884.

Dottor Giuseppe Ortu

Detto di don Sardu – che era pressoché nuovo alla nostra conoscenza – possono bastare poche parole invece per ricordare don Giuseppe Ortu, biografato con dettaglio e belle inquadrature nella storia municipale da Salvatore Curridori.

Potremmo dire di lui, che sarà il parroco con il quale Gigino Cadoni relazionerà per maggior tempo (come già con don Emanuele Sanna – cinque anni – e don Angelo Floris – ben 18 anni). Con don Ortu, tanto più fra 1915 e 1916, Gigino avrà a che fare anche per le corrispondenze settimanali inviate al giornale cattolico di Cagliari La Voce del Popolo, che meritoriamente Martino Contu ha raccolto in volume.

Guspinese classe 1880, figlio di calzolaio, studente del seminario diocesano dapprima e di liceo e teologia a Cagliari, ospite della locale casa delle Missioni, ha completato gli studi a Roma: è stato nella capitale nello stesso anno in cui è arrivato, anche lui studente, Angelo Giuseppe Roncalli, il futuro Giovanni XXIII. Ha frequentato il collegio apostolico Leoniano, accogliente gli studenti della Gregoriana e dell’Apollinare. E all’Apollinare, nella stessa sessione di laurea, di don Roncalli, ha completato il suo corso di studi in teologia; mesi dopo ha acquisito anche il diploma in ascetica, pastorale, pedagogia e sociologia, avviando altri approfondimenti in diritto canonico – qui raccogliendo la seconda laurea – e perfino in medicina e igiene.

Se il suo sogno era stato quello di partire missionario in India – e da lì era venuta la necessità degli studi medici e anche di quelli della lingua inglese – era stata invece, ad un certo punto, la volontà stessa del pontefice, che l’aveva conosciuto nel clero di San Pietro e fra i neolaureati –, ad orientarne il lavoro ecclesiale, munendolo di un decreto di nomina diretta alla parrocchiale di Santa Barbara, appena invedovada per la morte di don Floris.

Da due anni, invedovata è anche la diocesi, per la morte di monsignor Palmerio Garau che aveva sostituito Zunnui Casula, passato alla guida della archidiocesi di Oristano. Per altri anni, fino al 1910, la chiesa diocesana di Ales e Terralba sarà retta dall’arcivescovo di Cagliari, il conventuale fra Pietro Balestra. Arriverà poi qui monsignor Francesco Emanuelli, e saranno dolori che si scambieranno, purtroppo, lui e don Ortu, soccombente e costretto al ritiro nel 1924.

Il libro di Salvatore Curridori, al quale rimando, è bellissimo per la biografia di don Ortu ma anche per il contesto sociale e amministrativo nel quale il parroco situa il suo ministero, fecondo anche se non da tutti compreso e tanto meno apprezzato. Resta indubbia l’eccellenza della sua personalità.

Sarà lui, don Giuseppe Ortu, a celebrare i funerali di Gigino Cadoni, in quell’ottobre 1917 che è lo stesso mese della catastrofe bellica di Caporetto.

 

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