A Pirri, celebrato un parroco-fondatore con la sua comunità (2), di Gianfranco Murtas

Gustosa e preziosa più di quanto poteva immaginarsi si è rivelata l’assemblea liturgico-popolare che nella chiesa di San Giuseppe di Pirri si è riunita nella sera di mercoledì 13 gennaio, dunque pochi giorni fa, per celebrare la memoria del parroco fondatore, don Salvatore Casu, nell’occasione della uscita di una sua biografia (”Salvatore Casu una vita per la Chiesa”, Cagliari, 2015) ad opera di Tonino Cabizzosu, storico della Chiesa e autore di saggi importanti, oltreché numerosi, su eventi e personalità della Chiesa sarda dell’Otto-Novecento.

Dapprima, il vescovo emerito di Lanusei, don Antioco Piseddu, ha presieduto una messa solenne, concelebranti lo stesso don Cabizzosu e l’attuale parroco – a Pirri dal 2005 – don Roberto Atzori, personalità anch’egli di livello del clero diocesano, non soltanto sul piano culturale quanto soprattutto per la varietà delle esperienze pastorali maturate lungo tre decenni nelle parrocchie urbane (a Mulinu Becciu in esordio di ministero e successivamente a Giorgino) e foranee (da Burcei  a Guasila), ma anche nell’assistenza ai giovani di Azione Cattolica, in distinte stagioni, responsabile del servizio Oratori parrocchiali, cappellano all’IPM (prima di don Cannavera), presidente del Centro sardo di solidarietà l’Aquilone (prima di don Follesa).

A dir poco, copiosa meraviglia di talenti han mostrato i cori polifonici Arte e Musica e di Siliqua, ciascuno con la sua parte, dentro la liturgia e nel dopo, esecutori di numerosi pezzi composti o arrangiati da don Salvatore Casu, musicista provetto e creativo, capace di dare veste d’arte al suo mondo spirituale e religioso, talvolta sposandolo a quello sociale della provincia diocesana entro cui ha vissuto con intensità la sua lunga e fecondissima stagione di vita.

Don Piseddu ha ricordato il confratello che, negli anni del Concilio (1962-1965), fu suo professore di aggiornamenti biblici e pastorali nei locali del seminario minore. Dal 1961 l’arcivescovo Botto aveva impegnato i giovani sacerdoti diocesani – fra i quali era appunto don Piseddu – a frequentare tali corsi, che si svolgevano nel nuovissimo stabilimento sorto sulle pendici di San Michele, e potevano vantare nel corpo docente personalità come il presidente/decano capitolare Elvio Sitzia, don Giovanni Axedu e il pur giovane don Pier Giuliano Tiddia, futuro arcivescovo di Oristano.

Con la facondia discreta e accattivante che gli è propria, monsignore ha portato la sua testimonianza di conoscenza e frequentazione del parroco fondatore di San Giuseppe (e, negli anni ’70, primi ’80, parroco continuatore di Sant’Eulalia), evidenziando alcuni aspetti della sua personalità: di sembianze burbero, in realtà don Casu era capace di dolcezze rare fra i più, come anche la sua musica rivela; all’apparenza uomo realizzatore del presente egli viveva, non di meno,  una permanenza di profondità spirituale, nutrita da molti studi teologici, che gli consentivano di riversare nella catechesi comunitaria, di per sé formativa, le sue migliori risorse. La sua faticosa opera di iniziatore, nella porzione di mondo affidatogli dal suo arcivescovo nel 1954, aveva combinato sempre l’elemento pedagogico comunitario a quello dell’impianto di strutture: sia quelle strettamente liturgiche, mostrando però come ai cristiani potesse bastare anche poco per camminare insieme – e così si partì infatti nella casa privata “prestata” nella via Toti –, sia quelle finalizzate alle attività associative, via via implementate e ottimizzate nella loro fruizione (merito anche dei successori don Pinna, don Pittau, don Pili, don Atzori), com’è documentato nel libro di Cabizzosu.

Va detto – e questa è una mia opinione – che don Piseddu ha colto bene l’animus ecclesiale, e prima ancora umano, di don Salvatore Casu uomo di semina prima ancora che di gestione, per quanto sia poi difficile in un aggregato  sociale quale è la Chiesa – mosso sì da carismi senza per questo perdere i suoi tratti tutti umani – distinguere la parte educativa da quella operaia. Danno conto di questo anche le numerose seppur sobrie biografie di sacerdoti che s’affacciano nei saggi dei quali lo stesso vescovo emerito è stato autore nell’arco di quasi cinquant’anni – fra esse ricorderei quella però speciale su padre Virgilio Mirto –, fissando i suoi maggiori riflettori di studio sugli eventi remoti come l’invenzione delle spoglie dei  «beati martiri» nell’area di San Saturnino o l’arte stampacina del Lonis, o le relazioni senorbiesi fra Chiesa e società, o ancora la sequenza delle chiese monumentali di Cagliari e anche di Lanusei od Ogliastra…

Parroco lui stesso per lunghi anni (in Sant’Anna, successore immediato del professore don Axedu, e mediato del mitico don Mario Piu) – in coevità piena con il mandato di don Casu in Sant’Eulalia, la collegiata gemella di quella stampacina e di San Giacomo in Villanova –, don Piseddu conosce le complessità di una conduzione comunitaria nelle categorie parrocchiali ed è così entrato, con chiara competenza, a delineare le giuste coordinate della missione di vita e di servizio del confratello, professore e collega, tanto più all’interno della sua porzione di mondo, quella dell’hinterland cagliaritano, cui questi ha dato tutto se stesso: così nella stagione del vigore o della energie ancora giovanili (nel 1954 egli contava 41 anni) come in quella del suo crepuscolo, fra i mali del corpo, mai tentato però dal riflusso o dalla rinuncia. Sopra tutte, fra quelle coordinate, il senso gagliardo della causa, della ragione per la quale spendersi con gratuità assoluta e spirito oblativo. Le molte pagine da lui impegnate a riflettere sul mestiere del prete, teso in permanenza fra i richiami dell’ispirazione (il carburante della preghiera e dello studio biblico) e quelli del dovere ordinario e continuativo (tanto più nella formazione e nella assistenza spirituale ai malati ed anziani) paiono esemplari di questa sensibilità, ed hanno fatto cosa ottima Cabizzosu a riportarne uno ampio stralcio in appendice del suo libro (“Essere prete significa”, “Prete per fare che cosa?”) e don Piseddu a richiamarne la originalità e la profondità.

Assolutamente non previsto, ma neppure potendo evitarmi di raccogliere l’invito cordiale e assoluto di don Atzori e dello stesso autore, dopo monsignor Piseddu ho detto qualcosa io, il che doveva essere, al massimo, secondo una scaletta appuntata proprio lì e allora, in pochi minuti. La commozione piena per il… combinato disposto della incombenza della cara memoria di don Casu – la cui vita si è incrociata in vario modo e in momenti diversi con la mia – e delle meraviglie corali che hanno risvegliato nell’assemblea l’eco di spartiti (o composizioni originali o originali arrangiamenti ) forse già conosciuti e donati da don Casu musicista alla sua comunità, e svegliato in me suggestioni  non governabili, mi ha impedito, vergognosamente, di dire, pur nel breve tempo che m’ero dato, quanto m’ero ripromesso. E tutto ho limitato a considerazioni morali-generali sull’ambiente in cui quell’incontro necessario si andava svolgendo e a due proposte con cui avrei concluso il pur rapido discorso.

Le prime relative all’apparente (solo apparente) irritualità di una presentazione libraria nella stessa aula liturgica in cui s’era appena conclusa la messa, e ad un ovale (splendido mosaico) del presbiterio, sulla cui sinistra giganteggia appunto la figura di San Giuseppe che contiene nel suo seno i volti associati di Maria di Nazareth e Gesù bimbetto (come se fosse l’umanità-modello, o l’umanità-fedele dell’artigiano di Galilea a nutrirsi e insieme custodire il mistero, ragioni e strumenti, o protagonisti, della “storia della salvezza”); le ultime riguardanti la doppia proposta di un centro studi (e documentazione) da impiantare nei locali della stessa parrocchiale pirrese, intitolandolo a don Casu e riferendolo ai circuiti ecclesiali – a quelli storici ed a quelli contemporanei – dell’hinterland cagliaritano, e della stampa di un dvd o cd con le musiche dello stesso parroco celebrato. Nei dirò poi.

Lo scopo del presente intervento è quello di non disperdere le tracce di quanto mi pareva giusto, in qualche modo, offrire alla riflessione di quell’assemblea attenta e rispettosa (anche della mia commozione), e  vale dunque qui come testimonianza di una intenzione se non di un fatto. Avrei detto…

Un libro biografico, com’è questo di Cabizzosu, meriterebbe d’esser preso come un’autostrada sulla quale, viaggiandoci noi sopra, potessimo, per mille diversi richiami – nomi, volti, tempi, luoghi, circostanze –   affacciati ai margini, rallentare o fermarci a cogliere il tanto che ci ricollega ad essi, nel ripasso della nostra stessa vita, varia e spesso complicata, ma anche esposta alla casualità. Così mi permetto di riportare alla stagione di don Casu giovane vice parroco a Sant’Eulalia il mio battesimo lì, officiante il mitico dottor Floris (che meriterebbe una biografia tutta d’oro); o a lui già anziano tornato in San’Eulalia e prossimo però a lasciare definitivamente, la lunga conversazione e la registrazione televisiva che potei proporgli – era la primavera del 1981 – per dire insieme della parrocchia e del quartiere in penoso abbandono. (Fu in quello stesso contesto che, registrando decine e decine di servizi/documentari, potei anche annunciare con qualche anticipo la promozione episcopale di don Piseddu destinato, a fine anno, alla sede ogliastrina).

Nei passaggi missionari San Giuseppe – Sant’Eulalia – San Giuseppe, compiuti da don Casu fra il 1950 e, può dirsi, la fine della sua vita, a me piace evidenziare opportunità ed efficacia (almeno potenziale) dei nessi di comunione che il dono pur eccezionale di arredi liturgici od oggetti d’arte può recare con sé. Come fu per quel crocifisso forse quattro volte centenario passato dalla demolita chiesa di Santa Lucia alla Marina (dunque sotto la giurisdizione della ex collegiata di Sant’Eulalia) alla comunità pirrese. Anche in assorbimento della protesta, tardiva oggettivamente, del sempre benemerito don Mario Cugusi – subentrato nel parrocato prestigioso della Marina – ai cui argomenti, proprio con l’autorità di chi Sant’Eulalia aveva retto ormai per tredici anni, si opponeva proprio don Casu, assumendo trattarsi di un simulacro che per essere stato ospitato, dopo il mezzo crollo di Santa Lucia, in episcopio e poi in Sant’Agostino, non poteva dirsi appartenente, né mai appartenuto, pleno jure alla parrocchiale, bensì alla diocesi. Ciò anche per la intervenuta estinzione della  Arciconfraternita della Santissima Trinità e Sangue di Cristo sotto l’invocazione di Santa Lucia (1606, anni ’70 del Novecento).

Dalla circostanza avrei tratto spunto per qualche considerazione  sul tratto umano di don Casu, sovente propenso, sempre con garbo e signorilità (ed oltre l’apparente introversione), alle conclusioni ironiche, talvolta anche mestamente ironiche (o caustiche), delle battaglie dialettiche nelle quali gli poteva capitare di doversi impegnare: così ad esempio verso il Municipio sordo  ai doveri di ripristino del decoro – anche soltanto del decoro! – nel quartiere che conservava, a quarant’anni dai bombardamenti, tante tracce ancora di quell’evento sciagurato e luttuoso, per i cumuli mai rimossi delle macerie di terra e mattoni, oppure verso certo clero incapace di sobrietà anche programmatoria e sovrastata invece da confuso  sociologismo talvolta davvero improprio e più spesso inconcludente. Sotto questo profilo  è stato assai azzeccata la osservazione di don Piseddu circa l’assenza totale di maschera nella condotta quotidiana di don Salvatore Casu.

Avrei aggiunto un quadro rapido del contesto sociale cagliaritano, della grande Cagliari degli anni ’50 – quelli della erezione parrocchiale pirrese –, del capoluogo allora comprensivo delle frazioni anche di Elmas e Quartucciu e Monserrato – avendo perduto la municipalità di Cagliari l’aggregamento amministrativo di Selargius (resasi comune autonomo nel 1947) – come risultato autoritario delle disposizioni legislative del 1928, che andavano a interrompere uno status di autonomie civiche antiche e radicate.

Avrei ricordato alcuni passaggi “ricostruttori” delle amministrazioni di Pietro Leo (1949-1952, 1952-1956) – che ho evocato in un articolo neppure remoto sull’Almanacco di Cagliari –, lo sviluppo edilizio privato (direttrici San Benedetto-Fonsarda, Sant’Avendrace-Is Mirrionis-San Michele, Sant’Elia-Poetto), l’impianto scolastico rinnovato o del tutto nuovo (dieci nuove elementari – la metà nelle frazioni –, il nuovo Dettori, l’appalto del Nautico e l’incipit amministrativo delle Magistrali), l’inaugurazione delle stazioni di autolinee o marittime o delle caserme come nel viale Diaz, il rilancio dello stadio Amsicora (con contestuale impostazione delle strutture sportive in zona Fiera), l’apertura di alcuni cinematografi o dell’Auditorium in tempi di vigilia o timido esordio della tv domestica.  Ancora si lanciava, in quegli anni, il piano dei mercati civici di rione (mentre veniva demolito inesorabilmente il Partenone del Largo per far posto alle grandi banche), rinnovandosi l’annona anche con il nuovo ingrosso ortofrutticolo e il nuovo mattatoio, si ampliavano le linee dell’illuminazione pubblica. Più di tutto forse, con i rifacimenti possibili delle reti idriche e fognarie e i tentativi di stimolo  all’area industriale di Macchiareddu, dovevano essere i piani di edilizia abitativa popolare (INA, IACP, INCIS).

Nello stesso anno in cui don Casu assumeva la responsabilità cantieristica di San Giuseppe veniva a Cagliari a dirigere L’Unione Sarda un brillante giornalista del romano Giornale d’Italia, Fabio Maria Crivelli, che avrebbe mantenuto l’incarico per un quarto di secolo con un supplemento negli anni ’80. Avrei richiamato la circostanza per ricordare come egli, rievocando il suo arrivo in città, la dipingesse in una strana e quasi surreale alternanza di vetrine illuminate, magari in via Manno o Garibaldi o Sonnino, e di montagne di macerie in qualche angolo a distanza di pochi metri . Come a dire della fretta anche disordinata di ricostruire, di costruire modernità e benessere, prima ancora di aver fatto pulizia fra tanta rovina di case che la guerra fascista aveva lasciato in eredità.

Certo c’era allora una gara a ripartire, nella improvvisazione spesso, nella debolezza amministrativa anche del Comune: nasceva la città verticale, illusione americanista, con grattacieli perfino in piazza Jenne e fra la via Roma e il viale Bonaria, e per quanto potesse direttamente riguardarlo, il nuovo arcivescovo Paolo Botto – un decisionista dallo sguardo lungo, anche se con infiniti impacci ideologici – riorganizzava le presenze ecclesiali in città e nelle frazioni, seguendo gli indirizzi dei nuovi insediamenti abitativi . San Giuseppe nasceva in questo contesto. L’assistenza spirituale affidata a preti di valore, impegnati a tirar su le strutture e insieme a formare comunità in parte estrapolandole dalle più antiche, e sfilacciate però per le accresciute dimensioni territoriali – così a Pirri come a Monserrato, a Selargius, ecc. –, in parte crescendo ex novo le generazioni in boccio, le nuove classi anagrafiche, i bambini e i ragazzi dai quali ripartire con una azione pedagogico-catechistica di base, e con il coinvolgimento di tutti attorno a un obiettivo prettamente comunitario e religiosamente ideologico (anticomunismo).

Così don Casu dovrebbe, deve essere visto – al pari di altri suoi colleghi parroci-fondatori – come un autentico seminatore di senso comunitario e responsabilità, dunque di partecipazione. Anche la sua insistenza sulle attività musicali e corali parrebbe bello intenderlo come un modo compartecipativo e dunque in linea con gli obiettivi maggiori.

Uno studio più approfondito delle molte carte (oltre 500 cartelle) da lui lasciate ed ora custodite con fedeltà da Tilde Cabras dovrebbe puntare essenzialmente su questo: a scorgere dai suoi testi – siano panegirici o riflessioni di altra natura – quanto del proprio pensiero sulla Chiesa e i suoi ministeri riflettesse il suo tempo e quanto invece, per la profondità degli assunti, parrebbe incardinato nei fondamentali. Nel primo caso sarebbe testimonianza storica, nel secondo racconto di coscienza. Egli conobbe nella sua vita sei arcivescovi di Cagliari (a non mettere in conto Rossi, nella primissima stagione da lui trascorsa a Tunisi) – da Piovella ad Alberti, e, dal 1913, ben otto papi, attraversando la stagione conciliare e quella postconciliare, in una accelerazione di tutti i passaggi evolutivi della società sarda, italiana e del mondo.

Storicizzare la persona e il suo pensiero è quanto di più ovvio possa esserci, ma insieme meriterebbe delinearne un profilo più intimo, collegandolo se e come possibile, a quanto valga fuori dal contingente, come asse portante della sua esistenza, orientando il più sul nesso sacerdote-comunità, con il sacerdote parte della comunità, non membro esterno e trainante.

In ultimo le proposte. Un dvd con tutte le sue musiche, previo recupero degli spartiti che nel frattempo sono stati, se non dispersi, certamente distribuiti a più persone o enti, con le esecuzioni corali. Un centro documentazione capace di raccogliere in distinte sezioni (storica e contemporanea) le carte delle parrocchie dell’hinterland cagliaritano: nucleo l’asse Pirri-Monserrato, in estensione anche Selargius e Quartucciu. Nessuna parrocchia perderebbe nulla. Sembrerebbe bello sul piano morale, utile sul piano pratico, mettere in concerto gli archivi ecclesiastici dell’entroterra più immediato di Cagliari, favorendo le ricerche di studio e quindi di delineazione di un percorso storico-religioso di comunità periferiche, anche perché – secondo il condivisibilissimo input papale – le periferie meritano di essere chiamate, finalmente, al centro della scena.

 

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