Caritas, la virtù di un marchio, di Gianfranco Murtas

E’ negli strilli dei giornali la questione di un uso forse improprio del marchio della Caritas diocesana  da parte di privati in ordine allo smaltimento di capi d’abbigliamento conferiti alle strutture di solidarietà sociale della Chiesa cagliaritana (e forse di quella sarda in generale). A ciascuno il suo compito, e se profili di cattiva amministrazione o addirittura di reato saranno riscontrati, chi ne è responsabile avrà da renderne conto.

Quel che mi importa qui, nel mezzo della bufera, è di testimoniare il merito sociale non tanto della Caritas come marchio registrato, e forse ora abusato, ma della Caritas per l’operosità quotidiana e feconda dei suoi volontari in tutti gli ambiti di servizio che essa si è data per sovvenire ai bisogni crescenti di larghe quote della nostra comunità cittadina e regionale. Ciò faccio con leggerezza, mentre non ho da esprimere, a supporto, alcun personale motivo di gradimento per l’algido episcopato di don Arrigo Miglio, che mi sembra per molti versi contrastante l’impostazione pontificale di Francesco. Ancora manca la risposta a una lettera inviata due anni fa al suo attuale vicario generale da don Cannavera circa l’esclusione di sei ragazzi del carcere minorali e della Collina dall’incontro con il papa in duomo.

La credibilità e la competenza del direttore della Caritas cagliaritana, don Marco Lai, sono fuori da ogni possibile sospetto. Chi è arrivato a cedere perfino il suo letto, da parroco di Santa Margherita di Pula, quando arrivarono centinaia – centinaia! – di bosniaci, di jugoslavi travolti con le proprie famiglie dalla guerra interetnica degli anni ‘90, e cercavano riparo immediato e lo ebbero perfino stabile, potrebbe chiedere a noi, piuttosto, quante volte lo abbiamo, nel concreto delle situazioni dateci, imitato.

Perché la Caritas vive, nell’incontro con il bisogno, della doppia virtù della concretezza della risposta e della affidabilità personale di chi opera con sacrificio di tempo e di energie. Non c’è solo la mensa quotidiana – 400mila pasti nel corso del 2015, prima colazione, pranzo e cena – nella offerta solidaristica concessa, nell’ordinario, a quasi tremila utenti, che sono cittadini residenti (per il 65 per cento) o del mondo, che sono cristiani o d’altra religione o di nessuna religione, che sono uomini e donne, coniugati e no, giovani e no, colti e no, occupati e no (soprattutto no), sovvenuti con denaro (microcredito) e, più ancora, vocazionalmente, con servizi e utilità, con l’ascolto e l’orientamento.

L’offerta, strettamente legata alla “cosa”, è in primo luogo offerta della relazione, se il titolo distintivo associativo – caritas – significa non elemosina ma partecipazione, compartecipazione, coinvolgimento personale, nella logica per cui l’uno è carità dell’altro, l’operatore volontario è carità per il bisognoso, l’operatore bisognoso è carità per il volontario. Viene così modulata, nell’ordinario, la relazione: con la parola e la azione. Così, anche con l’alloggio – prima accoglienza, emergenza cittadina, Domu Amiga in Quartu Sant’Elena – e la consulenza, con gli sportelli famiglie, antiusura e antitratta (disponibili staff di avvocati e psicologi), con l’assistenza medica (70 fra medici e infermieri professionali) e quella agli ex detenuti o ai detenuti con misure alternative (sovente già affiancati in carcere), con il consiglio legale, con le unità di strada, con il centro Kepos per i migranti e l’abile impiego di mediatori culturali, con gli interventi a sostegno dei profughi, con le attività educative e formative giovanili, parrocchiali o scolastiche e no, finalizzate esse alla mondialità e alla fraternità, alla cittadinanza attiva, e dunque valorizzando il volontariato civile e promuovendo “ponti” anche produttivi con aree del bisogno … (Cagliari come Ales-Villacidro, forse la Caritas apripista in Sardegna: operaio instancabile oltreché ingegnoso don Angelo Pittau e quanti altri mobilitati attorno a lui come a Cagliari attorno a don Lai!).

Tutto può leggersi anche come proposta, da parte della Caritas, di un modello di cittadinanza cosciente dei suoi doveri e partecipativa, nella consapevolezza delle necessità generali, vicine e lontane. Non è cosa laicamente, civilmente santa il ritiro delle eccedenze alimentari? e così dei capi di vestiario non utilizzati? Chi scrive queste note da quarant’anni non mette piede in un negozio d’abbigliamento o di scarpe, veste cose molto molto dignitose, e tutte sono di secondo uso (non richieste alla Caritas però e non sottratte perciò al monte-donazioni). E quando gli è occorso di parlarne, nella spontaneità della confidenza, con i ragazzi delle comunità di recupero, ha creduto di scorgere il recepimento di quel messaggio, colto per quanto c’era, più vissuto che dichiarato.

P.S. Quando venne papa Bergoglio a Cagliari, avendo già chiesto di incontrare i detenuti, i dodici nominativi elencati da don Ettore Cannavera fra i presenti all’Istituto Penale Minorile di Quartucciu e alla Collina di Serdiana furono dimezzati: d’ordine dell’arcivescovo, per incapienza (del tutto fasulla) del duomo. Cannavera dunque ne portò sei soltanto e riuscì però a farne entrare un settimo, attribuendo a questi, al check-in della sorveglianza, il proprio nome: Ettore Cannavera professione detenuto. Lui, il cappellano, si mise un berretto in testa dichiarandosi l’autista del gruppo, e fu ammesso con strappo alla regola, sì anche lui, dopo qualche minuto, nella cattedrale di Santa Maria. Erano almeno cento gli impiegati dell’amministrazione e anche quelli già in quiescenza, sui banchi destinati ai carcerati. Li avevano occupati loro, corsia preferenziale firmata dall’organizzazione. Al primo banco, giusto in faccia al papa, un miliardario (in lire), l’allora presidente del Cagliari, forse per ringraziarlo del prestito del palco stradale. Quando la storia è anche una farsa. Forse è per questo che, ancora a distanza di due anni, e pur essendo nel frattempo anche passato per la porta santa. don Miglio non ha ancora risposto al suo collega presbitero di S’Otta-Serdiana .

 

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