Feminas e Sardigna

 

 

Donne e identità

di Mario Cubeddu

 

“D’altra parte il multiculturalismo non prende in considerazione il “sottotesto di genere” dell’identità culturale. Con questo ci riferiamo al fatto che dell’identità culturale maschi e femmine non devono farsi carico nella stessa misura. Come afferma Michèle Doeuff, noi donne abbiamo un “sovraccarico di identità”. Ci viene addossata la funzione di assumere le essenze presuntamene genuine delle culture, i loro nuclei simbolici più duri”. .                                                                    Queste considerazioni di Celia Amoròs, a proposito dei dibattito sull’uso del burka, ci sembrano interessanti per introdurre il tema della presenza della donna sarda nel dibattito sull’identità e delle grosse novità che si sono manifestate in questo campo negli ultimi tempi. Ricordo bene quando negli anni del vento sardista molti lamentavano la scarsa presenza delle donne sarde tra le fila dei “nazionalisti”. Dove erano le Maud Gonne, bellissime ispiratrici,  muse della rivoluzione irlandese? Qualche maligno diceva: “La donna sarda aspetta solo di sposare il suo carabiniere o il suo poliziotto continentale, per mettere i propri figli sotto la tutela dello stipendio sicuro e garantito. Guarda come si battono per facilitare il successo dell’ultimo arrivato dal continente che hanno sposato e preso sotto tutela”. Di chi altri, se non della donna sarda, poteva essere la responsabilità della scomparsa del sardo, la nostra lingua madre?   Ancora una volta il maschio sardo scaricava le sue frustrazioni sulle donne. Come i maschi di tutto il mondo che faticano a riconoscere alle donne il fatto di essere individui e di avere un’identità come tali. Invece si tende a riversare su di esse il peso di essere portatrici di una simbologia identitaria imposta. Il “costume” sardo è il velo che siamo contenti indossino le nostre donne per esibirle allo straniero sotto le scalette degli aerei e nella “sfilata” di S. Efisio. Le donne devono insegnare il sardo ai bambini, noi non ci sforziamo di parlarlo neanche tra noi. La donna rappresenta i saperi e le pratiche della tradizione, ma non deve entrare nello spazio del potere. Potere politico, intellettuale, culturale. Se osano farsi avanti, prendere la parola, pretendere un ruolo all’altezza del proprio talento e aspirazioni, la reazione è pronta e violenta. Come osa proporsi a parlare di noi, del nostro popolo, della Sardegna? Cosa ne sa, cosa ne capisce? E’ quello che è toccato in sostanza a Grazia Deledda. Lei si proponeva di raccontare al mondo una realtà che amava, voleva farla conoscere e amare anche da altri. Come si permetteva? Grazia Deledda non è stata mai veramente capita dagli uomini sardi, per il velo del pregiudizio che si frapponeva allo sguardo che scorreva la pagina. Invece di cogliere ciò che lei vedeva nei sardi, ciò che immaginava e raccontava, la reazione era: ma questa non è la Sardegna. Cioè: questo non sono io. Come se ogni singolo sardo meritasse la pena di essere conosciuto e raccontato. E il sottile disprezzo per una che chiama il proprio figlio Sardus.

Sembra che oggi le cose siano in parte simili e in parte abbiano importanti caratteri di novità. Per prima cosa si ripete il fenomeno già verificatosi con Grazia Deledda: la donna sarda è capace di sfondare sulla scena culturale italiana e internazionale con una facilità e un’autorevolezza che i loro colleghi maschi si sognano. Babelia, l’inserto culturale di  El Pais , uno tra i più apprezzati e autorevoli pubblicati dai quotidiani europei, ha dedicato una pagina intera del numero uscito sabato 25 giugno a Michela Murgia. La recensione de La acabadora, appena uscito in traduzione spagnola,  è accompagnata da una lunga intervista che contorna una sua bella foto.                                             Come ha fatto Michela Murgia a conquistarsi in pochi anni una credibilità e un’attenzione ormai di carattere europeo? Uno dei caratteri più significativi della sua opera è la necessità e l’urgenza evidente di ciò che scrive. Ciò di cui parla aspettava da molto tempo di essere detto. E’ evidente per la sua ultima opera, Ave Mary, all’interno della quale si raccontano anche le occasioni che l’hanno ispirata, ma lo stesso vale per le pubblicazioni precedenti. Acabadora risponde a una necessità interna alla vicenda personale dell’autrice e al bisogno di confrontarsi con temi essenziali come l’amore e la morte. Michela Murgia sarà quindi la Grazia Deledda del nostro tempo? Di sicuro le accomuna la chiarezza di idee e la forza di volontà. Oltre naturalmente al talento. Ma Michela Murgia è spia anche di un altro fenomeno che si sta svolgendo sotto i nostri occhi. Le donne sarde, alcune donne sarde, vogliono l’indipendenza della Sardegna. Nessun uomo di cultura sardo ci aveva tenuto tanto a dire ai giornalisti che uno delle sue aspirazioni principali, un aspetto importante della propria attività culturale, era costituito dall’impegno politico per l’indipendenza della nostra isola. Con poche parole un tema trattato con le pinze, con timore, rispetto, vergogna, viene esplicitato e posto alla luce del sole come questione normale e obiettivo legittimo delle aspirazioni di un popolo. E’ un fatto senza precedenti, capace di porre questa questione su basi totalmente nuove. A condizione che il  maschio sardo che occupa gran parte dello spazio della politica e della cultura reagisca stavolta in modo diverso. Mettendosi in atteggiamento di ascolto, una volta tanto. Provando a sentire quello che hanno da dire le donne sarde sul futuro della Sardegna, ragionandoci sopra, cercando dei modi di azione efficaci e non effimeri. L‘idea dell’indipendenza ha bisogno di trovare ragioni e motivazioni legate a necessità reali e profonde, non a frustrazioni e complessi.

 

 

Condividi su:

    1 Comment to “Feminas e Sardigna”

    1. By Cristiana Velluti, 1 luglio 2011 @ 14:57

      bello sputo, bene e grazie.
      in un colpo solo, parlare di Michela ci da la possibilità di parlare di cosa abbiano da dire le donne in tutti gli ambiti, togliendole, almeno per un attimo, il velo e dunque i presunti doveri ai quali dovrebbe aderire.
      ma pure, e scusate se è poco, di parlare di indipendenza, in modo normale, senza rivendicazionismi incomprensibili e deresponsabilizzati, che hanno caratterizzato sino a pochi anni fa la “questione sarda”