LE BEATITUDINI (Mt 5, 3-10), di Alberto MAGGI OSM

 

 

Le Beatitudini sono le grandi sconosciute dei cristiani.

Come mai quello che è il tema centrale dei vangeli è sconosciuto alle persone?

Voi sapete che una delle critiche che è stata fatta alla religione è quella di essere “oppio dei popoli”, cioè una sostanza che addormenta la gente ed il cristianesimo fu tra i principali imputati di essere questa religione come oppio dei popoli, ed in particolare proprio il contenuto delle beatitudini.

In effetti, se uno legge il vangelo, almeno nella traduzione o nell’interpretazione del passato, legge “beati i poveri, beati gli afflitti, beati gli affamati…” ed uno dice: ma dove siamo!

O questa persona che ha scritto queste cose, e che ha detto queste cose non ha mai conosciuto i poveri, non sa che cosa è l’afflizione, non sa che cosa è la fame.

E poi beati, perché? E la risposta, pronta, almeno la tradizione del passato: “beati i poveri”, perché? Perché di essi è il regno dei cieli.

Cioè cosa significa? Vanno in paradiso, ma i poveri, che sono poveri ma stupidi no, si domandavano: “Ma in paradiso guarda che ci vanno anche i ricchi, anzi ci passano avanti, perché loro quando muoiono lasciano i soldi per le messe e quindi noi siamo fregati di qui e di là”.

Allora le beatitudini sono state il grande fallimento del messaggio di Gesù; perché sapete cosa successe in passato?

Chi era nella condizione di povertà, nella condizione di afflizione, nella situazione di fame, appena gli si offriva anche una minima occasione di uscire anche solo un po’ da questa situazione di povertà, di afflizione e di fame, ne veniva fuori.

Ma guarda che se non sei più povero non sei beato! Ah, guarda, te la lascio tutta a te la beatitudine!

E d’altro canto coloro che non erano poveri né afflitti si guardavano bene di diventare poveri, afflitti e affamati, per essere beati. E questo è stato il fallimento del messaggio di Gesù ed ha portato alla non conoscenza di questo messaggio.

Un po’ ovunque, se si chiede ai partecipanti delle conferenze quanti sono i comandamenti di Mosè, tutti sanno che sono 10. Quando si chiede di enunciarli, si fa un po’ di confusione, ma tutti e 10 vengono fuori.

Ma queste sono le leggi che Mosè ha dato al popolo di Israele, non la proposta che Gesù ha fatto alla comunità cristiana.

Si vedrà tra poco che l’equivalente dei comandamenti per la comunità di Matteo – perché tratteremo le beatitudini in Matteo – sono le beatitudini. Ebbene, a malapena si trovano persone che sanno quante sono le beatitudini, e quando si chiede di enumerarle, enunciarle, non si riesce ad arrivarci.

La prima la conoscono tutti perché è la più antipatica, poi viene fuori una confusione. Le beatitudini non sono un qualcosa di appetibile, un qualcosa che attiri l’aspirazione degli uomini.

Ma è possibile che Gesù abbia proposto un messaggio così alienante? É possibile che Gesù sia il principale imputato per cui la religione è l’oppio dei popoli? In realtà non è così.

Vedremo leggendo queste beatitudini, che esse sono tutte quante legate, ed in particolar modo con la prima, vedremo che il messaggio di Gesù non è oppio dei popoli, ma è adrenalina per i popoli, è quello che mette in circolo energie, forze vitali capaci di cambiare la società; ecco perché l’ultima beatitudine parla della persecuzione.

Vedremo almeno le linee principali di questo testo che per i credenti, se conosciuto bene può rafforzare le ricchezze della propria fede, ma anche per il non credente è la conoscenza di un testo di grande valore letterario, perché gli evangelisti – lo sapete – erano dei grandi teologi, dei grandi letterati che possono competere con i nomi mondiali della letteratura. Esamineremo il testo di Matteo, perché ogni evangelista, ha un suo piano teologico; allora è buona cosa, prima di affrontare la lettura di qualunque brano del vangelo, cercare di capire quale è il piano teologico dell’evangelista.

Cosa significa che ogni evangelista ha un suo piano teologico?

Che tutti gli evangelisti annunciano lo stesso identico messaggio, le forme, le

formule e i modelli per annunciarlo sono diversi secondo l’intento dell’evangelista, secondo la sua statura teologica, letteraria, ma soprattutto tenendo conto a chi andava il messaggio.

Ebbene, l’autore del vangelo di Matteo si rivolge ad una comunità di giudei che hanno riconosciuto ed hanno accettato in Gesù il Messia atteso, ma a condizioni che sia nella linea della tradizione, cioè sulla scia di Mosè e del profeta Elia.

Allora l’evangelista compie un’abile opera didattica e letteraria per far comprendere, sulla falsariga della vita degli avvenimenti di Mosè, che Gesù è superiore.

Allora cosa fa questo evangelista?

 Mosè si credeva a quel tempo fosse l’autore dei primi cinque libri della Bibbia, quelli che sono conosciuti con il termine Pentateuco, cioè i primi cinque libri che compongono la legge; allora Matteo compone la sua opera dividendola esattamente in 5 parti, ognuna delle quali termina con parole simili, identiche, con le quali terminava uno dei libri di Mosè. Quindi il vangelo di Matteo è diviso in 5 parti.

 

 Poi conosciamo tutti la storia di Mosè, l’avvenimento straordinario, miracoloso, che lo salvò dall’ordine del Faraone di uccidere tutti i bambini ebrei primogeniti; ed ecco perché soltanto in Matteo, e non negli altri evangelisti, troviamo l’episodio della strage dei bambini di Betlemme voluta da quello che generalmente viene presentato come il nuovo Faraone, cioè, il potente, l’uomo del potere, e c’è solo in Matteo perché vuol far vedere l’equivalente.

 

 Poi il momento importante nella vita di Mosè è quando sale su un monte, il Sinai, e li da Dio promulga l’alleanza con il popolo. Ebbene anche Gesù in questo vangelo sale su un monte, ma non da Dio, ma Lui, che è stato presentato sin dalle prime righe del vangelo come il Dio con noi, annuncia la nuova alleanza. Gesù è venuto a proporre una relazione con Dio completamente diversa da come era conosciuta nel mondo giudaico. Gesù è venuto a traghettare le persone dal mondo della religione a quello della fede. Quale è la differenza tra religione e fede? Per religione si intende tutto ciò che l’uomo deve fare nei confronti di Dio; questo con Gesù è terminato. Con Gesù inizia una relazione nuova con Dio dove non conta più ciò che l’uomo fa nei confronti di Dio, ma nella accoglienza di ciò che Dio fa per gli uomini. Allora la proposta di Gesù non può essere catalogata nella categoria della religione, ma in quella della fede. E Gesù è venuto a proporre un nuovo rapporto con il Padre, con Dio, che non è più basato sull’obbedienza della sua legge, ma sulla accoglienza e sulla somiglianza del suo amore. É importante che abbiamo presente questa distinzione perchè, nel giudaismo il credente era colui che obbediva a Dio osservando le sue leggi. Se c’è una legge, significa che alcune persone per la loro particolare situazione sociale, civile, religiosa, morale, sessuale, non possono osservare questa legge, allora vengono discriminati non potendo avere ciò che permette di avere il rapporto con Dio, dalla comunione con Dio, e catalogati tra osservanti e non osservanti. Gesù allora è venuto a cambiare il rapporto con il Padre, non più il credente, colui che obbedisce a Dio osservando le sue leggi, ma colui che assomiglia al Padre praticando un amore simile al suo. Obbedire, osservare certe leggi non a tutti è possibile, accogliere l’amore immeritato, incondizionato del Padre è possibile a tutti quanti. Nella prima categoria, quella religiosa vigeva il merito, l’uomo deve meritare l’amore di Dio, e questo è ingiusto perché ci sono delle persone che per la loro situazione non riescono a meritare l’amore di Dio; con Gesù finisce la categoria del merito, l’amore di Dio non va più meritato, ma va accolto come dono gratuito del suo amore. Questa è la novità portata da Gesù e viene formulata dagli evangelisti secondo il loro modello letterario che adesso vedremo.

 

 Poi sapete che Mosè non riuscì ad entrare nella terra promessa, ma morì sul monte Nebo. Ecco perché Gesù, soltanto nel vangelo di Matteo, termina la sua azione conclusiva su un monte. Ma, mentre nel libro del Deuteronomio quella che viene presentata è una scena di morte di Mosè, con il bisogno di dare un successore che guidi il popolo per entrare nella terra promessa, quella di Matteo termina sul monte; ed è l’unico evangelista che termina la narrazione su un monte, ma non c’è una scena di morte, bensì la scena di una vita che è stata più forte della morte. E mentre Mosè ha avuto bisogno di un successore, Gesù non ha bisogno di un successore. Le ultime parole che Gesù pronuncia in questo vangelo “ecco io sono con voi per sempre”, letteralmente “fino alla fine dei tempi”, che non indica una scadenza, ma una qualità di presenza. Gesù è sempre presente nella sua comunità.

 

Allora vediamo questo episodio; abbiamo visto Mosè che sale sul monte e da Dio annuncia i comandamenti, i 10 comandamenti erano per un singolo popolo, per il popolo di Israele.

La novità che ha portato Gesù è che sale su un monte, ma Lui che è Dio annunzia un qualcosa di nuovo: le beatitudini.

Le beatitudini l’evangelista le costruisce con un grande capolavoro letterario.

Anzitutto è importante il numero delle beatitudini: in Matteo sono 8.

Perchè questo numero?

Nel cristianesimo primitivo era importante perché era il numero, la cifra che simboleggiava la resurrezione di Cristo.

Gesù è risuscitato il primo giorno dopo la settimana, cioè il giorno ottavo: allora il numero otto nel cristianesimo primitivo ebbe la figura della resurrezione.

Ecco perché nell’antichità i battisteri, cioè il luogo dove venivano battezzati, avevano tutti quanti una forma ottagonale, perché il numero 8 indica la vita indistruttibile.

Allora

mentre l’osservanza dei comandamenti garantiva lunga vita qui su questa terra,

l’accoglienza delle beatitudini garantisce qui già da questa esistenza una vita di una qualità che è indistruttibile.

 

Ecco perché Gesù quando parla della vita eterna non ne parla mai alla maniera giudaica. Nel mondo giudaico la vita eterna era un premio futuro da conseguire per la buona condotta nel presente.

Invece Gesù ne parla sempre al presente.

La vita eterna non è un premio nel futuro, ma una possibilità da sperimentare ora. Chi accoglie il messaggio di Gesù e lo traduce in pratica sentirà liberare dentro di lui certe energie, certe capacità, certe forze vitali d’amore che lo portano già in una dimensione che è quella definitiva.

Allora l’evangelista calcola il numero delle beatitudini: 8, significando così che la pratica, l’accoglienza di questo messaggio produce nell’uomo una vita di una qualità tale che è indistruttibile.

Ma addirittura – potrà sembrare qualcosa di maniaco, di pignolo, ma era lo stile letterario dell’epoca – l’evangelista calcola esattamente di quante parole comporre le beatitudini. E per arrivare al numero voluto inserisce una particella che di per se non era necessaria grammaticalmente, perché l’evangelista compone le beatitudini con esattamente 72 parole.

Perché 72?

Perché secondo il computo che c’è nel libro del Genesi al cap. 10, le popolazioni pagane conosciute a quell’epoca erano appunto rappresentate dalla cifra 72, che sta ad indicare tutto l’universo conosciuto, il mondo pagano.

Ricordate nel vangelo di Luca quando Gesù manda 72 discepoli?

Cosa vuol significare l’evangelista?

Mentre i comandamenti sono per un singolo popolo, Israele, le beatitudini sono per tutta l’umanità, tutti possono accogliere questo messaggio.

La prima beatitudine non è stata collocata a caso, è la condizione perché esistano tutte le altre ed è la beatitudine che crea più difficoltà. La conosciamo, è quella della beatitudine dei poveri, è quella che ci sembra la più antipatica.

“Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli”, o letteralmente “Beati i poveri per lo spirito, perché di questi è il regno dei cieli”

Mai, mai Gesù nei vangeli ha detto che i poveri sono beati, mai. Quindi affermare che Gesù ha detto che sono beati i poveri, cioè quelli che la società ha reso poveri, non è vero.

Mai Gesù nei vangeli dichiara i poveri beati. I poveri sono disgraziati che è compito e responsabilità della comunità cristiana togliere dalla condizione di povertà.

Come è nata questa diceria che Gesù abbia esaltato la povertà?

Sapete che uno dei problemi che ha avuto la chiesa cattolica, è che il vangelo fu scritto in greco (la lingua commerciale dell’epoca), ma nell’arco di pochi decenni il greco tramontò come lingua internazionale e in occidente fu soppiantato dal latino, in oriente dal siriaco, e nell’africa dal copto: allora ci fu bisogno di tradurre i testi dall’originale nelle lingue parlate.

Nella traduzione dal greco al latino certe sottigliezze grammaticali, certe finezze non poterono essere conservate, poi l’interpretazione che la chiesa diede, fece si che per l’immaginario della gente Gesù avesse proclamato “beati i poveri”.

Anzitutto le beatitudini sono scandite da questo invito: “beati”, “beati” per 8 volte.

Cosa significa il termine beato (makarioj)?

A quell’epoca indicava la felicità piena e totale che era la caratteristica gelosa ed esclusiva delle divinità. Nel mondo pagano gli dei avevano delle esclusive, una di queste era la felicità. Quando si accorgevano che sulla terra qualcuno raggiungeva una soglia di felicità che loro giudicavano esagerata, lo colpivano con qualche disgrazia.

Ebbene Gesù per 8 volte invita alla pienezza della felicità. Mentre la religione promette una illusoria felicità, insegna la felicità nell’aldilà (soffri di qua, sarai felice nell’aldilà), Gesù no, Gesù è venuto ad annunziare che è possibile essere pienamente felici qui su questa esistenza.

Che ti interessa essere felice nell’aldilà se si soffre qui? Gesù è venuto a proporre un nuovo tipo di rapporto con Dio, ma sopratutto un nuovo tipo di relazione con le persone che renda possibile la felicità, non limitata, non a metà ma una felicità piena e totale qui su questa esistenza. Dio non è nemico della felicità, Dio è l’autore della felicità, e desidera che questa felicità sia la condizione di ogni uomo.

Allora Gesù per 8 volte invita alla pienezza della felicità qui su questa terra. Ecco perché il messaggio di Gesù non è alienante, non è la promessa di una felicità nell’aldilà, ma qui su questa terra.

Allora Gesù proclama beati, cioè pienamente felici chi?“I poveri di spirito”, o per lo spirito.

Quindi mai Gesù proclama beati i poveri semplicemente in questo caso i poveri di spirito. Tutto sta a cercare di capire cosa significa questo poveri di spirito, quindi non beati i poveri che la società ha reso tali, ma quelli che sono poveri di spirito.

Dal punto di vista grammaticale “Poveri di spirito” può significare:

 deficienza dell’individuo: quelli che sono carenti di spirito, i deficienti, e non sembra possibile che Gesù abbia proclamato beati i deficienti, i tonti, poverini. Questi sono persone che è compito della comunità cristiana aiutare e agevolare, ma non è certo l’aspirazione della comunità cristiana.

Poveri nello spirito può significare atteggiamento spirituale; e guarda caso questa è stata proprio l’interpretazione che venne scelta in passato dalla chiesa. Cosa significa poveri nello spirito? Tu sei ricco, mantieni le tue ricchezze, l’importante è che ne sei spiritualmente distaccato, e non si è mai capito che cosa significasse per un ricco essere spiritualmente distaccato delle sue ricchezze. La povertà di spirito si trasformò in spirito di povertà. E questa guarda caso è stata la versione che ha imperato nella chiesa in passato. Non si chiedeva ai ricchi di rinunciare alla loro ricchezza, ma l’importante era che ne fossero distaccati, magari ricordandosi ogni tanto di fare un offerta di beneficenza per le opere della chiesa…. Ma siccome questa è la beatitudine più difficile da digerire, sarà quella sulla quale Gesù ritornerà più volte in questo vangelo. Quando Gesù chiede al ricco di rinunciare alle sue ricchezze e questo rifiuta e se ne va via, Gesù non gli corre dietro cercando di attenuare la sua esigenza. Non è che gli dice: “tienile, l’importante è che ne sei distaccato spiritualmente”. Il distacco dalle ricchezze è immediato, effettivo e radicale. Quindi Gesù non richiede un distacco spirituale, ma un distacco reale.

Poveri per lo spirito, può significare scelta esistenziale; cioè non persone che la società ha reso povere, ma persone che per lo spirito, cioè per la forza interiore, scelgono loro volontariamente di entrare nella condizione della povertà.

 

Ma cosa significa entrare nella condizione della povertà?

Al termine delle beatitudini c’è la reazione un po’ sorpresa della gente, e Gesù dichiara: non pensate che io sia venuto ad abolire la legge ed i profeti, cioè le due parti che componevano l’AT, ma sono venuto a portarla a compimento.

Gesù è venuto a realizzare pienamente il disegno di Dio sull’umanità che già Mosè aveva espresso, cioè che nel mio popolo nessuno sia bisognoso. Questa è la volontà di Dio. Sapete che a quell’epoca ogni nazione aveva la sua divinità, e come si faceva a credere quale fosse, non tanto la divinità vera, perché credevano che fossero tutte vere, ma quale è il Dio più importante?

Ebbene la sfida d’Israele era questa: se nel popolo nessuno sarà bisognoso, la gente dovrà credere che veramente il dio di Israele è quello vero.

Ecco perché nella primitiva comunità di Gerusalemme, scrive l’evangelista Luca, che testimoniavano con grande forza la resurrezione di Gesù, come?

Non con un catechismo, con proclami, ma infatti tra di loro nessuno era bisognoso. L’unica prova che Cristo è risorto, è che nella comunità non ci sono persone che hanno e persone che non hanno. Alla cena della comunità nessuno è bisognoso, unica prova, non ce ne sono altre. E Gesù è venuto a portare a compimento questo, a realizzare questo, solo che è difficile. Quando vai a toccare il portafoglio delle persone, cari miei, questo è un argomento che non va.

C’è nel vangelo di Luca, e sembra quasi umoristico, Gesù è seguito da una folla enorme perché va a Gerusalemme dove pensano di andare a conquistare e dividere il bottino.

E Gesù fa 3 tappe e dice:

 guardate che vado a Gerusalemme a soffrire (e siamo pronti a soffrire con te)

 forse sarò messo a morte (siamo pronti a morire per te)

 adesso chi non vende tutto quello che ha, non pensi di seguirmi.

 

Caro Messia, vai a Gerusalemme, poi quando l’hai conquistata mi mandi una cartolina…. La folla lo ha abbandonato.

Quando tocchi l’interesse, e questo è talmente vero che la comunità cristiana è riuscita a trasformare nel suo significato anche la preghiera del Padre Nostro. Quando nel Padre Nostro Gesù afferma in quella richiesta: e rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori, non sta trattando del perdono delle colpe, non sta trattando di qualcosa di spirituale, ma qualcosa di molto concreto: la cancellazione reale e radicale dei debiti.

Perché Gesù fa cosi?

Abbiamo visto che il Signore attraverso Mosè aveva emanato la speranza, l’ideale: nessuno nel mio popolo sia bisognoso. Allora: che cosa avevano fatto? avevano fatto la legge che ogni 7 anni tutti i debiti venivano cancellati. La legge era buona, la realtà peggiorò la situazione dei bisognosi. Ma chi era quel matto che andava a prestare allo scadere del sesto o settimo anno, e poi il debito veniva cancellato? E chi era quello che prestava a chi sapeva che non aveva le garanzie certe e sicure di avere indietro il prestito? Quindi questa legge che era stata a favore dei poveri, si ritorse contro di loro.

Ma Gesù l’ha ripescata, ma non ogni 7 anni, ma come pratica abituale che è il riconoscimento della comunità. Cancella a noi i nostri debiti, si riteneva nella concezione dell’epoca che l’uomo fosse debitore verso il Signore per la vita, la natura, come noi abitualmente cancelliamo i debiti degli altri. Ma debiti economici, perché forse è più facile (anche se difficile) perdonare una colpa piuttosto che cancellare un debito, specialmente se è rilevante. E questo insegnamento di Gesù è stato quindi spiritualizzato.

Allora Gesù in questa beatitudine che cosa chiede? Quelli che liberamente, volontariamente, per lo spirito (la forza interiore), entrano nella categoria di povertà, ma non per andarsi ad aggiungere ai tanti poveri che ci sono nel mondo, altrimenti è inutile, Gesù cosa sta chiedendo? Non sta chiedendo ai suoi di spogliarsi, ma di vestire chi è nudo, ed ognuno di noi può vestire qualcuno che è nudo senza bisogno di spogliarsi. Gesù sta chiedendo, la categoria della povertà va compresa e ritradotta nella nostra cultura: abbassate il vostro livello di vita per permettere a quelli che lo hanno troppo basso di innalzarlo.

Come Gesù stesso che, secondo il NT, da ricco che era si è fatto povero perché i poveri fossero ricchi. Gesù, il Signore, vuol far entrare tutti quanti nella categoria dei signori, ma non dei ricchi.

Gesù è severo con i ricchi, tanto che dice che nessun ricco entra nel regno dei cieli: perché nessun ricco può entrare nella sua comunità nel regno dei cieli?

Che cosa significa che Gesù il Signore ci invita ad entrare nella categoria dei signori? Il signore è colui che dà, e tutti possiamo essere signori. Il dare non dipende dalla salute, non dipende dalla cultura, non dipende neanche da quello che ha. Tutti siamo chiamati ad essere signori, quindi Gesù il Signore ci invita ad essere signori.

Ed il ricco chi è? É colui che ha e trattiene per sè.

Allora per Gesù non c’è posto per il ricco nella sua comunità, perché la comunità di Gesù è composta da signori, ma non da ricchi. A quell’epoca c’erano i poveri di Jahvè, quelli cioè che si fidavano del Signore per uscire dalla povertà; ma qui con Gesù succede il contrario, ci sono quelli che si fidano talmente del Signore che decidono loro di entrare nella povertà.

I poveri per lo spirito sono quelli che liberamente, volontariamente, per amore si sentono responsabili della felicità e del benessere degli altri. Ebbene dal momento che capita questo, Gesù dice “beati perché di essi è il regno dei cieli.

Ed allora ci risiamo: siccome abbiamo questa immagine spiritualizzata rientra di nuovo l’aldilà? No, Matteo è l’unico evangelista che adopera la formula “regno dei cieli”, non esiste negli altri evangelisti.

Là dove gli altri parlano di “regno di Dio”, Matteo usa la formula “regno dei cieli” perché scriveva per dei giudei ed i giudei evitavano di nominare ed anche scrivere il nome di Dio.

Allora Matteo, tutto teso a non urtare la loro suscettibilità, tutte le volte che può sostituisce il termine “Dio” con il termine “cieli”.

Lo facciamo anche noi nella lingua italiana, solo che non ce ne accorgiamo quando diciamo: “grazie al cielo”: mica ringraziamo l’atmosfera, ma grazie a Dio. Oppure: “che il ciel non voglia”, cioè Dio non voglia.

“Regno dei cieli” non è l’aldilà, ma il regno di Dio.

Che cosa significa regno di Dio? Israele veniva da una esperienza disastrosa della monarchia, Dio non aveva voluto la monarchia, perché Dio non tollera che ci sia un uomo che possa comandare su altri uomini, ma Israele l’ha voluta nonostante la contrarietà del Signore. Ed il Signore attraverso i profeti dice: guardate che i vostri re prenderanno i vostri figli per farne guerrieri, le vostre figlie per farne le loro serve, prenderanno i vostri campi migliori…Non ci importa, noi vogliamo un re come gli altri popoli.

Ed è stato l’inizio della disgrazia nazionale di Israele. Un re peggio dell’altro, che poi portò ad una lotta fratricida fra i vari regni, e le potenze vicine occuparono ed assorbirono poi Israele. Allora fece sì che si proiettò in Dio il re ideale, ed il re ideale era colui che si occupava dei poveri e degli emarginati.

Allora dire che “di essi è il regno dei cieli”, significa che Dio era il loro re, cioè, che queste persone sono governate direttamente da Dio, e Dio non governa emanando leggi che gli uomini devono osservare, ma comunicando il suo spirito.

Allora questa prima beatitudine, che ha il verbo al presente, non dice che di essi sarà il regno dei cieli, cioè un domani, ma è immediato.

Se c’è un gruppo – attenzione, non un individuo: le beatitudini non sono mai rivolte ad un singolo individuo, ma sempre ad una pluralità – Gesù non viene a dire beato chi, ma beati voi.

Perché Gesù parla al plurale?

Non gli serve una persona che faccia questo, perché Lui vuol incidere profondamente nella società per cambiarne radicalmente il volto, ed allora ha bisogno di un gruppo, di una comunità.

Ebbene Gesù assicura questo: se c’è un gruppo di persone che oggi, immediatamente che sceglie liberamente, volontariamente, per amore, di essere responsabile della felicità e del benessere degli altri, da quel momento succede qualcosa di straordinario, Dio si prende cura di loro; è un cambio meraviglioso. Se noi ci prendiamo cura degli altri, finalmente permettiamo a Dio di prendersi cura di noi.

Allora sapete cosa succede?

Che si passa dal credere che Dio è Padre a sperimentarlo: è grande la differenza. Quando si chiede alla gente, ai cristiani, se credono che Dio è Padre normalmente tutti dicono si. È un po’ più difficile quando si chiede loro: “ma lo hai sperimentato come Padre?” e qui nascono i problemi. È la tragedia di noi cristiani: ci hanno imbottito di ideologie, ma non ci hanno trasmesso esperienze vitali; ci hanno fatto credere che Dio è Padre – ed è giusto – ma non ce lo hanno fatto sperimentare.

Ecco come si può sperimentare, se ci prendiamo cura e diventiamo responsabili della felicità e del benessere degli altri, da quel momento esatto permettiamo a Dio di prendersi cura Lui della nostra felicità, e la vita cambia perché si sperimenta quotidianamente, anche negli aspetti minimi insignificanti dell’esistenza, la presenza tenera di un Padre che in qualunque situazione lo senti che ti sussurra: “non ti preoccupare, fidati di me”. Questo non significa che vengono tolte le difficoltà, le avversità che la vita fa incontrare, ma c’è una forza nuova, una capacità nuova per viverle.  Ecco la prima beatitudine. Gesù è molto chiaro.

Quelli che liberamente, volontariamente. per amore,decidono oggi, in questo momento, di essere responsabili della felicità degli altri, beati perché di questi, ma non degli altri, si prende cura Dio (Questo è il significato del regno dei cieli).

Se c’è questo, ecco che vengono tutte le altre beatitudini, tutte le altre beatitudini sono condizionate dalla prima.

La prima ha il verbo al presente, tutte le altre, meno l’ultima, hanno il verbo al futuro.

Nelle altre beatitudini l’evangelista presenta da prima situazioni negative dell’umanità che sarà compito della comunità che ha scelto la prima beatitudine di eliminare.

La prima di queste situazioni di sofferenza dell’umanità è:

Beati gli afflitti, perché saranno consolati”. o letteralmente “Beati gli afflitti, perché questi saranno consolati”

Gesù afferma beati gli afflitti o gli oppressi (il termine penqoàntej può essere tradotto in entrambe le maniere), perché questi saranno consolati. Anche qui non significa che i disgraziati di questo mondo un domani nell’aldilà saranno consolati. Ma che gli interessa a chi in questo momento soffre, a chi in questo momento piange, a chi gli interessa sapere che un domani saranno consolati?

E poi Gesù non parla di conforto, ma di consolazione che è qualcosa di diverso.

Conoscete certamente il libro di Giobbe, questo uomo pio al quale capitano tutte le disgrazie di questo mondo: gli bruciano i campi, muore il bestiame, muoiono i figli, crolla la casa, gli sopravvive la moglie…

Ebbene da Giobbe vanno tre amici, tre persone pie, le persone più pericolose da incontrare nei momenti di difficoltà, e lo vanno a confortare. E sapete cosa dice Giobbe?

Ho avuto tante disgrazie, ma mai grande come questa: di voi che siete venuti a confortarmi, perché anch’io, se fossi al vostro posto, saprei usare le vostre parole.

Gesù non parla di un’afflizione qualunque, non parla di una tristezza qualunque, ma l’evangelista prende questa espressione dal libro di Isaia al cap. 61, dove si dichiara che il giorno della venuta del Messia sarà per consolare tutti gli afflitti.

Allora questa beatitudine di Gesù (“beati gli afflitti”) si rivolge ad una categoria particolare di afflitti e di oppressi. Qui non si parla di una qualunque afflizione, un rapporto difficile con un’altra persona o una situazione dolorosa; gli afflitti di cui parla Isaia è il popolo che è oppresso da due realtà che non fanno che peggiorare la sua situazione:

1. esternamente una dominazione pagana; 2. e internamente l’oppressione dei capi religiosi. Fanno si che il popolo sia in una situazione di afflizione e oppressione che non può far a meno di gridare la propria disperazione. Tanto vero che nel vangelo di Luca questa beatitudine ha il termine “beati coloro che piangono”: non sono le persone depresse, sono persone che sono talmente schiacciate da una situazione ingiusta politica, economica e sociale che non possono non gridare tutta la loro disperazione. Allora Gesù non proclama beati gli afflitti, dice gli afflitti, quelli che vivono questa situazione, quelli che la società ha schiacciato dal punto di vista economico, politico, sociale, religioso, queste persone che sono talmente schiacciate, non sono beati perché sono afflitti (la beatitudine non si riferisce mai alla condizione, è sempre nel secondo termine), ma coloro che vivono questa condizione di afflizione beate perché – e l’evangelista, grande teologo e letterato, usa attentamente i termini per le sue beatitudini, non adopera il verbo confortare (™niscÚw), ma il verbo consolare (parakalšw) che significa l’eliminazione alla radice della causa della sofferenza. Tutte queste beatitudini sono condizionate dalla prima; se c’è un gruppo di persone, una comunità che incomincia a prendersi cura di coloro dei quali nessuno si occupa, quelle persone che soffrono al punto di dover gridare per tutta la loro disperazione, beati perché grazie a questa comunità che si prenderà cura di loro vedranno la fine delle loro afflizioni. Quindi non è un messaggio alienante, un messaggio spiritualizzante, un messaggio che rimanda alla consolazione nell’aldilà, ma un messaggio immediato. C’è tanta gente che è disperata, che grida nella disperazione, e attende il nostro impegno, e noi dobbiamo essere coloro che mettono la parola fine alla loro sofferenza. Quindi gli afflitti, beati perché vedranno la fine della loro afflizione.

Adesso c’è una beatitudine della quale non si capisce il rapporto tra la situazione di sofferenza e la promessa di liberazione.

Abbiamo visto che nelle beatitudini c’è una situazione negativa con una promessa di una soluzione, quindi coloro che scelgono di essere poveri, le conseguenze negative di questa scelta verranno eliminate perché Dio è il loro re, quindi ai poveri è promesso il regno.

Abbiamo visto che gli afflitti saranno consolati, poi vedremo che gli affamati saranno saziati, e qui non si capisce perché questa beatitudine è:

“Beati i miti perché erediteranno la terra”. o la traduzione letterale “Beati i miti perché questi erediteranno la terra

Cosa c’entra la terra con la mitezza non si cajpisce. Quindi è chiaro, nelle altre beatitudini abbiamo la situazione negativa con la promessa di una liberazione positiva, ma qui non si capisce. Nel passato, e quando critico il passato non è tanto una critica per una malafede del passato, non avevano gli strumenti. Sapete che fino a praticamente 40 anni fa non c’era ancora il testo integrale del NT greco. È stato con il Concilio Vaticano II che la chiesa cattolica è tornata al testo greco; pensate che la prima edizione del testo greco del NT è del 1975, cioè l’altro ieri. Non c’erano le possibilità di queste conoscenze profonde del vangelo. Allora, in passato, non comprendendo questa beatitudine, la terra era stata trasfigurata nell’aldilà, con la mania del paradiso, e i miti erano i sottomessi, gli obbedienti soprattutto all’autorità ecclesiastica.

Ma torniamo a Matteo che anche in questo caso si rifà alla storia di Israele, e sta citando il salmo 37,11.

Nella storia di Israele si era verificato che, quando il popolo era entrato nella terra di Canaan, la terra fu divisa secondo le tribù e ogni tribù la divise secondo i clan, i clan divisero la terra secondo le famiglie in modo che ogni famiglia avesse un pezzo di terra.

La terra è importante in oriente; un uomo senza terra è un uomo senza dignità – e questo fa comprendere anche quando i palestinesi si vedono confiscati la terra – non è solo un appezzamento di terra, ma la vita, la dignità perché, se un uomo ha terra, lavora e quindi può nutrire e mantenere bene la propria famiglia; se non ha terra, nulla di tutto questo accade. Il possesso della terra è importante in quella società.

Ma dopo la divisione è successo che nel giro di 2 o 3 generazioni i più prepotenti, i più bravi, i più astuti, i più disonesti si impossessarono della terra delle persone meno capaci, delle persone meno furbe e delle persone più deboli. Il risultato fu che gran parte della terra fu posseduta da pochissime famiglie e la gran parte della gente era costretta ad andare a lavorare come bracciante nella terra che era stata di loro proprietà. Una situazione di totale ingiustizia, ed allora queste persone che erano state espropriate della loro terra protestavano e per calmarli, sempre le persone pie (attenti alle persone pie! Evitatele nei momenti difficili, sono sempre le persone più pericolose) arrivano a dire con il salmo 37 che fa tutto un panegirico e dice: no, non prendetevela con i ricchi, perché non sapete quanto soffrono, poveri ricchi; voi state buoni, state calmi e tranquilli (ecco la religione oppio dei popoli!) perché erediterete un terreno; cioè state buoni, lasciate fare a Dio, che Lui distribuirà secondo giustizia e vedrete questi ricchi quanto soffriranno e a voi sarà dato un terreno.

Quando? Ah, questo non si sa, lasciamolo fare a Dio, e la situazione rimase invariata.

Questo il salmo 37.

Allora questi “miti” non indica una qualità morale dell’individuo, ma una situazione sociale disperata; è la stessa differenza che c’è tra l’umile e l’umiliato: qui non si tratta di umili, ma si tratta di umiliati. Per una migliore comprensione di questa beatitudine potremmo tradurla con “i diseredati”, quelli che hanno perso tutto, può darsi per colpa propria, per incapacità.

Ma Gesù dice, i diseredati, quelli che sono stati espropriati di tutto, compresa la dignità, ebbene beati perché erediteranno la terra (e l’articolo determinativo significa la totalità).

E si ritorna alla prima beatitudine: se c’è una comunità di persone che si impegna a sentirsi responsabile della felicità degli infelici di questo mondo, i diseredati, quelli che hanno perso tutto, hanno perso l’onore, hanno perso la dignità umana, non sanno neanche più cosa significa essere una persona dignitosa, questi nella comunità ritroveranno non un terreno, un po’ di dignità, ma la terra, la totalità; cioè nell’ambito della comunità delle beatitudini, i diseredati ritroveranno una dignità che non avevano mai conosciuto nella vita, neanche prima di perderla, perché vengono trattati con amore, verranno trattati con una devozione che non avevano mai sperimentato.

Vedete che non sono beatitudini alienanti, ma beatitudini che coinvolgono: ci sono i diseredati del mondo e, purtroppo, da quando sono state pronunciate le beatitudini, continuano ad esserci.

È compito della comunità cristiana che a queste persone che vivono senza alcuna dignità, venga fatta ritrovare non una briciola di vita, ma la pienezza della vita.

Le beatitudini degli afflitti e dei diseredati vengono poi riassunte dall’evangelista in una terza beatitudine. C’è tutto uno schema con il quale l’evangelista costruisce le beatitudini, e la successiva è:

“Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati”, o letteralmente “Beati gli affamati e assetati della giustizia, perché questi saranno saziati”.

L’evangelista ha presentato 2 situazioni di ingiustizia (gli afflitti, e i diseredati), e le riassume in una terza beatitudine.

Quelli che ne fanno una questione vitale di riportare dignità a chi dignità non ce l’ha, quelli che fanno una questione vitale di liberare dall’oppressione gli oppressi, ebbene questi – assicura Gesù – in questa comunità (perché tutto dipende dalla prima beatitudine) in una comunità di gente che ha rinunciato all’ambizione, dall’avere di più, dall’arricchire, dall’essere di più degli altri ed ha capito che la felicità non consiste in quello che si ha, ma in quello che si dà, saranno felici qui pienamente su questa terra.

E ce lo dice pure, oltre la beatitudine, una frase di Gesù negli Atti degli Apostoli (20,35b), che purtroppo è sempre stata trasmessa senza il risalto che merita. Gesù dice: “c’è più gioia nel dare che nel ricevere”, ecco qui la felicità.

Molti non sono felici perché pensano che la felicità consista in ciò che gli altri devono fare per noi. Allora rimani sempre deluso perché gli altri non possono sapere ciò che lui aspetta, ciò che lui desidera e ciò che lui spera. Chi pensa che la sua felicità dipenda da quello che gli altri devono fare per lui rimane sempre deluso.  Allora Gesù dice: no, la felicità non consiste in ciò che gli altri faranno per te, in ciò che riceverai, ma in ciò che tu donerai. Allora la felicità è piena immediata e totale, la felicità consiste in ciò che si fa per gli altri; se io non so quello che gli altri possono fare per me, so ciò che io posso fare per gli altri.

Quindi l’invito di Gesù è per la pienezza della felicità, e se c’è una comunità che si occupa della felicità degli altri, in questa comunità quelli che fanno una questione vitale fame e sete di questa giustizia, saranno pienamente saziati (e qui bisognerebbe tradurre con un verbo italiano ormai un po’ in disuso, perché il termine che usa l’evangelista è il verbo cortazw che si usa per gli animali che mangiano sino a scoppiare, e si potrebbe dire satolli): cioè gli affamati e gli assetati, saranno saziati sino a scoppiare.

Ed è importante che questo verbo, essere satolli, essere sazi, l’evangelista lo riporta in un episodio importante: quello della condivisione dei pani e dei pesci dove quelli che mangiarono furono satolli (Mt 14,20). L’evangelista con questa tecnica letteraria (adoperando questo verbo solo in questi due episodi) ci fa comprendere che si sazia la propria fame e sete di giustizia, saziando la fame fisica degli altri, ma sopratutto Gesù garantisce che all’interno della sua comunità non ci sarà nessuna forma di ingiustizia, ogni forma di ingiustizia sarà messa fuori dalla porta.

E per questo Gesù prenderà delle precauzioni, purtroppo inascoltate.

Gesù dirà ai suoi: attenzione! Non fatevi chiamare da nessuno “padre”, perchè l’unico Padre è quello nei cieli; non fatevi chiamare da nessuno “maestro” perché l’unico maestro sono io.

Piccola nota: sapete che nel mondo religioso l’addetto alla formazione dei novizi si chiama padre maestro…

E’ pazzesco, come se Gesù non avesse mai parlato!

Quindi Gesù, per evitare ranghi e gerarchie all’interno della sua comunità, ha preso queste precauzioni. Gesù ci assicura che quelli che fanno una questione vitale di queste forme di giustizia (se c’è una comunità che ha fatto queste scelte) beati perché saranno pienamente saziati.

E dopo aver presentato le situazioni negative dell’umanità, l’evangelista presenta gli effetti positivi all’interno della comunità negli individui che hanno fatto questa scelta.

Ricordate che Matteo scrive sul modello delle opere di Mosè che, dopo aver annunziato i comandamenti, proclama una specie di credo di accettazione di questi comandamenti, che in ebraico si chiama lo “Shemà Israel” (Ascolta Israele).

Ebbene, Matteo fa lo stesso: dopo la proclamazione delle beatitudini, presenta il Padre Nostro.

Il Padre Nostro non è una preghiera, ma è la formula, sotto forma di preghiera dell’accettazione delle beatitudini, tanto è vero che a ogni beatitudine corrisponde una richiesta del Padre Nostro.

E come nel Padre Nostro le prime richieste riguardano l’umanità, il regno e dopo le altre richieste riguardano la comunità, ugualmente si ha qui nelle beatitudini.

Quindi

 nella prima parte delle beatitudini abbiamo visto situazioni di sofferenza dell’umanità che è compito della comunità cristiana eliminare;

 ora si passa a vedere gli effetti all’interno della comunità.

 

E la prima della seconda parte è:

“Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia.” e letteralmente “Beati i misericordiosi, perché questi riceveranno misericordia”.  Attenzione, perché le beatitudini che esamineremo adesso non riguardano categorie differenti di persone: i misericordiosi, i puri di cuori, i costruttori di pace.

Non sono categorie diverse, sono tutti effetti che avvengono nell’individuo e nella comunità che hanno accolto la prima beatitudine; quindi chi sceglie la prima beatitudine e liberamente sceglie di entrare nella condizione di povertà per permettere ai poveri di uscirne, chi si rende responsabile della felicità degli altri, questi individui sono a loro volta tutti quanti misericordiosi, puri di cuore, costruttori di pace.

Quelle che l’evangelista enumera, non sono qualità degli individui, ma caratteristiche che diventano riconoscibili.

Allora la prima caratteristica è i misericordiosi.

Misericordioso (™le»mwn) non significa uno che è di sentimento misericordioso, ma uno che opera attivamente per aiutare gli altri.

La misericordia non è un sentimento, ma una azione concreta con la quale si aiutano gli altri ad uscire da una situazione di difficoltà.

Allora Gesù assicura: i misericordiosi – che non è una qualità dell’individuo, ma una caratteristica che li rende sempre riconoscibili – sono persone sulle quali si può sempre contare; quindi non è un gesto di carità una volta tanto, ma è il gesto abituale che lo rende riconoscibile; io so che quella persona è sempre pronta, sempre disponibile, ad aiutare.

Allora Gesù dice: i misericordiosi, quelli sempre pronti ad aiutare, beati perché troveranno misericordia, cioè ogniqualvolta si troveranno loro nella situazione di difficoltà, di necessità, troveranno aiuto da parte di Dio e da parte della comunità.

Ecco il cambio che si diceva all’inizio: se noi ci sentiamo responsabili della felicità degli altri, permettiamo a Dio di esserlo della nostra; è un cambio meraviglioso.

Perché per quanto noi possiamo occuparci della nostra persona, della nostra felicità, noi non ci conosciamo come ci conosce Dio. Gesù ha detto che conosce anche i capelli che sono nel nostro capo; quindi l’azione di aiuto di Dio supererà sempre la nostra azione di aiuto agli altri e soprattutto darà sempre molto di più.

C’è nel vangelo di Marco un’immagine molto bella che, spesso non compresa nel lessico, nel linguaggio dell’epoca, viene interpretata erroneamente. Conoscete quando Gesù dice: “la misura con la quale misurate sarete misurati e vi verrà dato in aggiunta” (Mc 4,24)?

Che cosa è questa misura?

Nei negozi alimentari (fino a 30-40 anni fa), i prodotti erano venduti sfusi, non erano impachettati, confezionati. Si chiedeva 1 centimetro di olio, 2 etti di farina,.. e per quantificare questi alimenti c’erano dei contenitori chiamati misure. C’era il contenitore che riempito corrispondeva a 500 grammi di farina, questa era la misura.

E Gesù sta parlando di cose che tutti capivano, e ci assicura che la misura che voi misurate, vi viene data, quindi ciò che noi diamo agli altri, quello non è una perdita, perché quello ci viene ridato, ma Dio regala vita a chi produce vita, Dio non si lascia vincere in generosità, la misura che misurate sarete misurati, ma vi verrà data qualcosa in aggiunta. Se io dò 100, non mi viene restituito semplicemente 100, ma 130. Ed io questo 130 non lo tengo per me, ma lo dono e mi viene restituito 180: cioè l’amore è la garanzia della crescita dell’individuo, più ci si dona agli altri e più si cresce dentro. Ecco perché Gesù ha detto quella espressione che, così come è tradotta ed interpretata, dà modo ad una interpellanza sindacale: “a chi ha sarà dato, a chi non ha sarà tolto anche quello che ha” (Mt 13,12). Sembra di un’ingiustizia pazzesca.

Il verbo “avere” (oecw) è un verbo risultativo, perché quando io dico “io ho”, è sempre il risultato di un’azione. Ho questa giacca che mi è stata regalata, ho questo libro perché mi è stato comprato; allora lì Gesù, quando dichiara “a chi ha sarà dato”, è dopo tutta la narrazione della parabola dei 4 terreni, vi è un seme che è capace di produrre e fruttificare.  Allora il significato è questo: a chi produce sarà data capacità di produrre ancora di più. Chi ha colto il messaggio di Gesù, lo traduce in atteggiamenti pratici, più si dona agli altri e più gli viene data capacità di dare.

Chi invece non si dà agli altri, chi non produce rende sterile la propria capacità di amare, e quando arriva il momento che ne ha bisogno, non ne è capace.

Se io mi alleno quotidianamente a superare gli inevitabili screzi che la vita comune, la vita famigliare, la vita sociale, comporta, quando arriverà il momento del torto, dell’offesa, sarò capace a perdonare perché mi sono allenato. Ma se io mi lego al dito tutti gli screzi, tutte le offese, quando arrivo al momento grosso del torto, ne sarò incapace. A chi ha sarà dato, a chi produce amore sarà data ancora più grande capacità di amare, e a chi non ha sarà tolta anche quella capacità.

Gesù ci assicura, e per questo dico che cambia la vita, se voi siete conosciuti abitualmente come persone sulle quali gli altri possono sempre contare perché sanno che quando ricorrono a voi, voi siete sempre pronti a dare una mano, pronti a dire di si, beati perché quando voi avrete bisogno sarà Dio stesso ad intervenire con molto di più di quanto voi avete potuto fare e dare agli altri.

L’altra beatitudine, la più male interpretata in passato è:

“Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio” e letteralmente “Beati i puri di cuore, perché questi vedranno Dio”.

In passato la purezza non era nel cuore, ma nei genitali. Era una generazione ossessionata dalla purezza, una generazione che anche nei gabinetti eravamo seguiti da quel triangolo con l’occhio che Dio ti vede. E la purezza era sempre per quella parte lì, ossessionati dai genitali, e questo ha fatto perdere di vista la ricchezza di questa beatitudine.

Gesù non sta parlando di purezza a livello genitale, a livello sessuale.

Il cuore nel mondo ebraico non ha lo stesso significato che ha nella nostra cultura occidentale; il cuore non è la sede dell’affetto, dell’amore, ma il cuore è l’equivalente della nostra mente, della nostra coscienza: quando nel vangelo si parla di duri di cuore, non si intendono persone crudeli, ma persone ostinate, persone resistenti.

Allora Gesù sta parlando dei puri di cuore, quelli cioè che sono limpidi nella propria coscienza, nel proprio intimo, e afferma che questi personaggi limpidi, trasparenti vedranno Dio.

Anche qui l’evangelista – vedete come è tutto un richiamo all’AT? – si riferisce al salmo 24,4 che metteva la purezza di cuore come una condizione per salire al tempio e partecipare alla liturgia.

Gesù parla di persone limpide, ma anche questo non è una qualità dell’individuo, ma un atteggiamento che lo rende riconoscibile; e quando una persona ha scelto la prima beatitudine, cioè di non arricchire, ma di condividere con gli altri, di rinunciare all’ambizione dell’avere di più, dell’essere di più, finalmente diventa una persona vera, una persona autentica, cioè una persona trasparente.

Allora Gesù assicura: le persone limpide, le persone vere, le persone trasparenti, cioè quelli che hanno nel cuore, nel nostro cuore, hanno anche nella lingua, le persone che non sono doppie, le persone che non si presentano con la maschera, beate perché vedranno Dio.

Ma attenzione che Gesù non assicura le visioni, (attenti alle visioni e ai visionari perché ce n’è una inflazione…): se vi capita di avere una visione misuratevi la pressione o prendete altri provvedimenti!

Qui Gesù assicura che vedranno Dio, ma non nell’aldilà, perché nell’aldilà Dio lo vedranno tutti, anche le persone che non sono state pure di cuore. Gesù assicura una visione qui, su questa terra.

Il verbo greco “vedere” si scrive in 2 modi:

1. uno (blšpw) indica la vista fisica,

2. e l’altro (Ðraw) indica anche la percezione interiore, una profonda esperienza interiore.

 

Noi usiamo invece lo stesso verbo per dire 2 cose diverse:

1. quando parlo con una persona e vedo che quello che le dico non lo capisce, le dico: “ma non vedi che…”;

2. oppure, per richiamare l’attenzione, quante volte diciamo: “guarda che…;

 

invece in greco ci sono 2 verbi.

E qui l’evangelista non scrive che avranno delle visioni di Dio, ma Gesù assicura che chi fa la scelta della prima beatitudine sarà una persona limpida, trasparente, e siccome è trasparente con gli altri, Dio sarà trasparente con lui, e questo si accorgerà della presenza di Dio nella sua esistenza come un padre tenero che si prende cura anche degli aspetti minimi, insignificanti,  della sua vita.

La vita cambia, noi crediamo che Dio c’è, ma quando lo sperimentiamo? Quando ne facciamo esperienza? Dio c’è, ma dov’è?

Ebbene Gesù ci assicura: se voi scegliete questa prima beatitudine e diventate persone limpide, trasparenti, vi accorgerete quotidianamente della presenza di Dio anche negli aspetti minimi, insignificanti della vostra esistenza. Un Dio di una tenerezza che tutto trasforma in bene, un Dio che si mette a vostro servizio, un Dio che sempre vi è accanto.

E siamo alla beatitudine che era un po’ al centro dell’incontro, ma avete visto che sono tutte legate una all’altra e non è possibile prenderne una a scapito delle altre:

Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio” letteralmente “Beati i pacificatori, perché questi saranno chiamati figli di Dio “.

Anzitutto i termini.

Gesù non proclama beati i pacifici, ma i pacificatori, i costruttori di pace (e„rhnopoio…).

Qual è la differenza?

 Il pacifico è una qualità dell’individuo, è colui che tiene tanto alla sua pace che evita accuratamente ogni situazione di conflitto.

 Il pacificatore è un individuo che per la pace degli altri, crea situazioni conflittuali, i costruttori di pace sono dei gran rompiscatole, perché per la pace degli altri sono pronti a perdere la propria.

 

Ma vediamo chi sono questi personaggi.

Costruttori di pace: anche qui l’evangelista non indica una qualità dell’individuo, ma una attività che rende pienamente riconoscibili.

La parola pace la conosciamo dall’ebraico “shalòm”, è molto più ricca del nostro termine pace: pace significa tutto quello che concorre alla piena felicità degli uomini. Quindi vedete ancora una volta che il progetto di Dio è che gli uomini siano felici.

Se sottolineo questo è che purtroppo sapeste quante volte la gente associa più facilmente Dio all’infelicità che alla felicità; non solo, ma sapete che ci sono tante persone che non vivono serenamente neanche quei periodi di tranquillità e di felicità che la vita offre, perché se se ne accorge il Padre eterno!!.

Tanto è vero che nel linguaggio popolare quando nella vita capita qualcosa di inevitabile, si dice: lo sentivo che doveva succedere qualcosa, andava tutto troppo bene!

E questa è l’immagine pagana della divinità, degli dei che quando si accorgevano che qualcuno raggiungeva una soglia di felicità che a loro sembrava intollerabile, ecco che gli davano una mazzata.

 

Molte persone la parola “felicità” hanno paura di pronunciarla perché sembra che non sia possibile associata a Dio, tanto è vero che siamo tutti eredi della famosa “valle di lacrime”, la piscina spirituale dove le pie persone sguazzano piamente e devotamente.

Non è questo il messaggio di Gesù: egli ci invita alla pienezza della felicità qui, è possibile essere felici qui.

Sottolineo questo perché nei contatti con le persone, per la deformazione spiritualizzante che c’è stata in passato, molte persone credono che essere felici, essere gratificati, non sia corrispondente alla volontà divina.

Sapete quante persone brave, che fanno volontariato, che si dedicano agli altri, entrano in crisi perché dicono: “ma io però non faccio un sacrificio, lo faccio volentieri, mi fa piacere aiutare gli altri, sarà meritorio? Sarà valido?”

Io do sempre un consiglio: “mettiti un paio di scarpe più strette e così soffri e vedrai che la tua azione sarà meritoria….”

Perché sembra che se uno non si sacrifica, se uno non soffre, questo non sia accetto agli occhi del Signore. La persona felice sembra che non sia in sintonia con Dio. Basta guardare l’iconografia del passato, guardate i santi, che allegria, che facce particolari che hanno!

Avete mai visto un santo felice? Un santo sorridente è raro, sono sempre mesti. E’ volontà di Dio che su questa terra si realizzi la felicità e Gesù ci chiede di collaborare alla creazione di Dio.

Vedete, nella teologia giudaica si credeva e si insegnava che Dio aveva lavorato per 6 giorni e il settimo si era riposato, aveva creato il mondo, l’universo, poi gli uomini lo avevano guastato, ma Dio aveva lavorato.

Gesù non è d’accordo: quando gli rimproverano di non osservare il sabato, nel vangelo di Giovanni Gesù risponde: il Padre mio lavora e anche io lavoro, la creazione non è terminata.

La narrazione che troviamo nel libro del Genesi di quella armonia tra l’uomo e la donna, tra l’uomo e il creato, non è un rimpianto di un paradiso perduto, ma la profezia di un paradiso da realizzare.

Quindi non c’è da rimpiangere un paradiso perduto, ma da rimboccarci le maniche per realizzare questo paradiso.

Ecco perchè Paolo nella lettera ai Romani ha un grido: “l’umanità, la creazione geme nell’attesa che diventiate figli di Dio”.

Questa è la volontà di Dio, che noi diventiamo collaboratori della sua creazione; questo significa essere costruttori di pace.

Ecco perché in questa beatitudine c’è l’equivalente: perché questi saranno chiamati figli di Dio.

Figli di Dio nel mondo ebraico ha 2 significati:

1. il primo di assomigliante (figlio di Dio significa che assomiglia a Dio)

2. il secondo di protezione da parte di Dio.

 

Ebbene Gesù assicura: quelli che costruiscono la pace, cioè quelli che lavorano per la felicità, per la dignità e la libertà degli uomini, beati perché prima di tutto assomigliano a Dio.

Se assomigliano a Dio significa che fanno lo stesso lavoro di Dio. E poi beati perché avranno Dio dalla parte loro. Dio sta dalla parte non di chi toglie la felicità, ma di chi la costruisce, non di chi toglie la dignità, ma di chi restituisce la dignità agli uomini, cioè Gesù ci invita a collaborare alla creazione.

Vedete c’è un’espressione nel NT che però con il nostro limite traduciamo tutto con la nostra mentalità occidentale e non secondo i criteri orientali.

Quando Paolo, o anche in altri passi si parla che noi siamo stati scelti per essere figli adottivi di Dio, noi abbiamo la nostra immagine occidentale in cui l’adozione è quel un gesto d’amore con il quale si prende un bambino nel seno di una famiglia; ma il significato teologico di essere figli di Dio, figli adottivi di Dio è molto più ricco.

A quell’epoca si usava così: quando un re o un imperatore vedeva la sua vita ormai alla fine, non lasciava il suo regno, il suo impero, ad un figlio suo naturale, ma sceglieva tra i propri generali, tra i propri ufficiali, la persona che gli sembrava più adatta, la più capace di continuare come lui il suo impero, e lo adottava come figlio.

È questa l’adozione a figli, cioè un Dio talmente innamorato degli uomini, un Dio che ha talmente stima di noi che ci chiede di essere suoi figli adottivi, cioè di collaborare con Lui e come Lui alla creazione del mondo, a costruire la pace.

È inevitabile che, per costruire la pace, bisogna toglierla a quelli che sono i nemici della pace, quando si lavora per favorire la vita degli oppressi, bisogna disturbare un po’ la vita degli oppressori.

Abbiamo visto che queste beatitudini sono tutte quante al futuro, e sono possibili condizioni se esiste la prima beatitudine, ma poi arriva l’ultima beatitudine che ha di nuovo il verbo al presente, esattamente come la prima:

“Beati i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli”.

Vedete che la seconda parte della prima e dell’ultima beatitudine sono identiche, uno non si aspettava questa doccia fredda. Dopo tutto questo elenco di beatitudini uno si aspetterebbe quasi l’applauso della gente.

Invece Gesù è molto chiaro: quelli che sono fedeli a tutto questo programma, (la giustizia significa colui che è fedele), quelli che sono fedeli alle beatitudini, non si aspettino l’applauso, non si aspettino il riconoscimento dalla società né civile, né religiosa, ma si aspettino la persecuzione.

Quello che è grave è che il verbo “perseguitare” adoperato dall’evangelista (dièkw) è un verbo che indica la persecuzione in nome di Dio, la più terribile, perché non viene da nemici esterni viene proprio da quelli sui quali credevi di contare, quelli avrebbero dovuto collaborare con te.

Gesù parla di questo perché chi accoglie le beatitudini entra in sintonia con Dio, vede Dio, cioè lo sente presente nella propria vita ed ha bisogno di manifestarlo sempre in forme nuove.

Allora accade che proprio all’interno della comunità cristiana ci sia una parte invece che si è fermata e che anziché la proposta di Gesù di creare una comunità dinamica animata dallo spirito si è degradata ad una istituzione immobile regolata dalle leggi: allora questi non sopporteranno la presenza dei profeti all’interno della comunità e la perseguiteranno.

Ecco perché Gesù dirà: “Gerusalemme, la città santa, Gerusalemme, sei una città assassina, tutti gli inviati, i profeti che Dio ti ha mandato, li hai tutti quanti assassinati”.

Allora l’ultima beatitudine, Gesù assicura, quelli che sono fedeli a questo programma verranno perseguitati in nome di Dio. Quelli che vi avrebbero dovuto aiutare saranno quelli che vi daranno contro.

Gesù dirà nel vangelo di Giovanni: “verrà il momento in cui chiunque vi uccide crederà di rendere culto a Dio”.

Sapete che mai si ammazza con tanto gusto, come quando si ammazza in nome di Dio, quindi in nome di Dio vi perseguiteranno, ma, beati perché Dio sta dalla parte vostra: la persecuzione per il credente, per la comunità cristiana non sarà un segno di sconfitta, ma un fattore di crescita.

Nella parabola dei 4 terreni Gesù parla del chicco che cade in un terreno pietroso e mette radici, spunta, ma poi viene il sole e lo brucia perché le radici non erano andate in profondità.L’azione del sole per la pianta è fondamentale, necessaria, vitale; se la pianta si brucia non è colpa del sole, è colpa della pianta che non ha messo radici, e Gesù, dandone la spiegazione, parla di quelli entusiasti che accolgono il suo messaggio, ma poi quando arriva la persecuzione crollano.

La persecuzione è un fattore di crescita per la comunità, è come l’azione del sole sulla pianta, la irrobustisce e la fa crescere; questo non significa che bisogna andare in cerca delle persecuzioni, ce ne sono già abbastanza per conto suo; ma Gesù ci assicura che vivere così comporterà la persecuzione, ma Dio tra chi perseguita e chi viene perseguitato, sta sempre dalla parte del perseguitato. Tra chi condanna in nome di Dio e i condannati, Dio sta sempre dalla parte dei condannati, tra chi accende il rogo e chi viene arrostito, Gesù, Dio sta sempre dalla parte degli arrostiti. E forse la tragica storia della nostra chiesa, non è che non ha saputo riconoscere i santi, i profeti, gli inviati da Dio, li ha subito individuati e, quando è stato possibile li ha eliminati. Ma poi la storia passa e quelli che sono stati sacrificati, quelli che sono stati umiliati passano ad essere i veri testimoni del Signore.

Prendo per esempio un personaggio che mi sta particolarmente caro e che conoscete tutti, questa donna straordinaria che è stata Teresa di Avila.

Era entrata tra le monache di clausura, ma lei era la donna delle beatitudini, cioè in sintonia con Dio, sentiva insufficienti i mezzi, gli strumenti che la regola le dava ed aveva bisogno, proprio perché era in sintonia con Dio, di agire in una forma nuova. Ebbene il vescovo scrive al santo uffizio queste testuali parole: “ho qui nella mia diocesi una monaca che è femmina inquieta e vagabonda”. È un autoritratto bellissimo, la monaca femmina inquieta e vagabonda, la chiesa, dopo un po’ di tempo l’ha riconosciuta dottore della chiesa, invece del vescovo se ne è persa la memoria.

Ma aveva ragione, povero cristo: o Teresa mia, sono secoli che le monache diventano sante con queste regole, che bisogno c’è di modificarle, di cambiarle?

Ecco gli uomini delle beatitudini, i costruttori di pace, quelli che sono in sintonia con Dio, trovano i mezzi dei loro contemporanei, sempre insufficienti e avranno bisogno di crearne sempre nuovi perché la comunità voluta da Gesù è una comunità dinamica animata dallo Spirito. Il rischio è che si degradi in rigida istituzione regolata dalla legge e quindi refrattaria all’azione dello Spirito.

Come facciamo a sapere se siamo nella dinamica comunità animata dallo Spirito, quella delle beatitudini, o nella rigida istituzione immobile regolata dalle leggi?

C’è una frase che è un segnale di allarme: quando di fronte ad una proposta nuova, quando di fronte ad una novità diciamo, sentiamo dire: “ma perché cambiare? Si è sempre fatto così”, attenzione perché siamo dalla parte della legge e non dello Spirito, rischiamo di passare ad essere persecutori anziché perseguitati. Vi ringrazio.

 

Conferenza

presso l’associazione

“I beati costruttori di pace.”

Padova 2006

trasposizione da audioregistrazione non rivista dall’autore

Nota: la trasposizione è alla lettera, gli errori di composizione sono dovuti alla differenza fra la lingua scritta e la lingua parlata e la punteggiatura è posizionata a orecchio.

 

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