L’UNDICESIMO COMANDAMENTO: NON PARLARE LA LINGUA DEI TUOI PADRI, di Piero Mannironi

Il Senato respinge l’arrivo in Rai della lingua sarda. Decisione motivata da un onere economico eccessivo. Ma per le minoranze di lingua tedesca, francese, ladina e slovena il problema non esiste. L’articolo, con altro titolo, è stato pubblicato su La Nuova Sardegna del 2 agosto 2015.


C’è un’insopportabile arroganza nel voto al Senato che giovedì sera ha “cancellato” il diritto dei sardi ad avere uno spazio dedicato nel servizio pubblico radiotelevisivo. Per affermare un principio violentemente discriminatorio, che insulta una comunità, si evoca con una superficialità imbarazzante l’articolo 81 della Costituzione. Cioè quello che sancisce che lo Stato deve assicurare «l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio». Come dire: nei palinsesti della Rai non c’è posto per la Sardegna, per la sua cultura, la sua storia e le sue memorie, perché concedere quello spazio costerebbe troppo. Ragione poco nobile, si dirà, ma comunque la scelta avrebbe così una sua logica. Discutibile, magari, ma comunque una logica. Ma non è così. Il principio infatti in Senato è stato fatto valere “solo” per la Sardegna. Non ci sarebbero invece problemi economici per concedere spazi culturali ai 93mila italiani che nelle valli alpine rappresentano la cultura e la lingua ladina o ai 128mila valdostani la cui cultura è in parte francese. E nessuna preclusione esiste per la minoranza friulana che parla in sloveno (poco meno di 100mila persone) e, meno che mai, per la minoranza di lingua tedesca dell’Alto Adige. Per deduzione, quindi, la Sardegna viene cancellata perché l’offerta di uno spazio alla cultura sarda sarebbe un onere eccessivo, sicuramente superiore a quello offerto alle altre comunità, incluse invece nel ddl Rai. Evidentemente, chi ha votato al Senato crede che il sardo costi di più delle altre lingue. Un insulto al buon senso. Restano quindi oscuri i meccanismi che hanno portato a questa conclusione. Anche perché nel disegno di legge vengono fissati i principi, mentre la valutazione dei costi è delegata ai successivi decreti attuativi. Il meccanismo, in teoria, dovrebbe essere questo: si afferma prima il principio e solo successivamente, in base alle risorse disponibili, si modulano e si organizzano gli spazi. Ma il fatto più grave è che sono stati feriti alcuni dei principi fondanti della nostra carta costituzionale. Prima di tutto è stato calpestato l’articolo 6 che recita: «La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche». Un valore politico e morale che si lega all’articolo 5 sulle autonomie territoriali e al principio generale dell’articolo 2 che tutela le formazioni sociali come comunità intermedie tra i singoli e la Repubblica. I principi di tutela delle minoranze linguistiche trovano un’ulteriore applicazione negli statuti speciali, che sono approvati con legge costituzionale. C’è quindi una vera e propria architettura costituzionale che riconosce la valenza identitaria dell’uso della lingua. E la Consulta l’ha più volte riconosciuta, sancendo che l’uso di una determinata lingua esprime l’appartenenza di una persona a una determinata cultura e contribuisce a determinarne l’identità. È quindi la riaffermazione del fondamentale principio del pluralismo, che contrassegna e caratterizza la nostra democrazia. Se si vuole essere poi pignoli, il Senato della Repubblica, o meglio i senatori che hanno negato un diritto costituzionale al popolo sardo, hanno dimenticato che nella nostra legge fondamentale esiste anche un articolo 3 che, al comma 1, vieta discriminazioni in base alla lingua (così come li vieta in base alla religione, alla razza, al sesso, alle opinioni politiche, alle condizioni personali e sociali) e riafferma e declina il principio pluralista della società democratica che non vuole assimilare e annullare le differenze, ma riconoscendo il “diritto alla differenza”, afferma che i diritti degli altri, intesi sia come singoli che come formazioni socio-culturali o etnico-culturali, esigono riconoscimento e tutela. A questo punto c’è da chiedersi: chi ha voluto sancire in una norma una discriminazione tanto odiosa sul piano culturale e illegittima sul piano giuridico? E c’è anche da chiedersi se nel nostro Parlamento la sudditanza alle decisioni del gruppo o del partito azzera l’autonomia di pensiero e costringe a votare in base agli ordini e non in base alla coscienza. Magari facendo finta di dimenticare quanto si spenderà in Rai per la nuova infornata di nomine, legate alla mai dimenticata filosofia del manuale Cencelli della politica.

 

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