Alcune tesi sulla rivoluzione organizzativa della cosiddetta sinistra e dei sovranisti in Sardegna, di Enrico Lobina

 

Alcune tesi sulla rivoluzione organizzativa della cosiddetta sinistra e dei sovranisti in Sardegna

L’Italia è in recessione. La Sardegna ancora di più. Contemporaneamente, chi vuole difendere i subalterni ha perso ed è inesistente, o quasi.
In Sardegna il tema della sovranità si lega strettamente a quello dell’antiliberismo. Ce ne siamo occupati lungamente .
In Europa le cose non vanno molto meglio, anche se qualche speranza, in Grecia ed in Spagna, si intravede. Nel mondo, a parte la luce latinoamericana, bisogna ricostruire un contesto politico e sociale.
Sinistra è una parola triste, in Sardegna ed in Italia. A parte la categoria di persone che leggono questo documento, per tutti la parola “sinistra” è collegata al PD. Il problema è che il PD è tecnicamente di destra.
Al massimo, la parola “sinistra” viene associata alla CGIL.
Non siamo affezionati alla parola sinistra. Siamo affezionati ai subalterni, perché veniamo da là, e perché crediamo che ci sia, ovunque nel mondo, una lotta di classe dei ricchi contro i poveri. Stanno vincendo i ricchi, ed in regioni periferiche come la Sardegna tutti, a parte qualche decina di persone, ne subiscono le conseguenze: piccoli e medi imprenditori, dipendenti privati, precari, dipendenti pubblici, partite IVA, artigiani, studenti, disoccupati, pensionati. Noi stiamo dall’altra parte, con tutto quello che ne comporta.
Però dobbiamo cambiare tutto. Le organizzazioni della sinistra e sovraniste hanno fallito, ed anche la cosiddetta sinistra che sta fuori i partiti non è messa bene.
A noi piace la vita, la politica, e ci piace dire come la pensiamo. Avanziamo, quindi, alcune tesi sulla rivoluzione organizzativa in Sardegna. Una cosa è certa: così non si va da nessuna parte.
Avvertenza
Le proposte che si presentano non vanno bene per qualunque tipo di organizzazione. Alcune sono pensate e proposte per organizzazioni strutturate, altre invece possono essere fatte proprie più da movimenti generali, da sistemi-rete politici e sociali.
Le presentiamo congiunte perché crediamo che sia utile mettere in mostra i principi ispiratori delle proposte.
1. Rinnovamento
“Squadra che vince non si cambia”, si usa dire. È vero anche il contrario: “squadra che perde si cambia”. Chi ha diretto e ha perso deve farsi da parte. Chi si fa da parte faccia politica nel proprio quartiere, paese e nel proprio luogo di lavoro. Se sono bravi e capaci, si facciano nominare delegati sindacali, o eleggere sindaci o consiglieri comunali, e costruiscano luoghi, sezioni, circoli in cui far crescere una nuova generazione. Studino, perché ce n’è sempre bisogno, e magari aiutino economicamente quelle realtà che si arrabattano per mettere insieme 50 euro.
Il mondo della tecnopolitica e della precarietà non può essere diretto da chi, per ragioni oggettive, si è formato politicamente in un’altra era e da chi, per quello che è successo negli ultimi 20 anni, viene visto come un simbolo negativo. Vale per la politica, ma anche per il sindacato.
2. Democrazia diretta
Le nuove piazze virtuali danno la possibilità di esprimersi in modo diretto ed in tempo reale. Le ridotte dimensioni della Sardegna permettono di sperimentare largamente forme di democrazia diretta. La rete può alimentare la piazza, e la piazza può avere un ruolo se continua nella rete.
In Sardegna c’è una fascia ampia di popolazione, prevalentemente anziana, che non utilizza le nuove tecnologie ed i social network, e dobbiamo pensare anche a loro.

Gli adulti, gli anziani, l’organizzazione e la Sardegna
La Sardegna ha una popolazione sempre più anziana. I giovani sempre più abbandonano la propria terra per emigrare verso l’Italia e l’estero. Una organizzazione politica, tuttavia, non può non porre le nuove generazioni al centro del proprio agire. Nella formazione delle posizioni politiche e dei gruppi dirigenti non può prevalere né il “professionista della politica” né il “professionista della partecipazione”.
In Sardegna una vasta fascia di popolazione è tecnologicamente analfabeta.
Una struttura organizzativa che voglia fare una politica di massa deve essere consapevole di questa situazione. Dobbiamo scientificamente pianificare una organizzazione “mista”, che ponga insieme elementi estremamente innovativi con elementi tradizionali, ma aggiornati ai tempi di oggi. Nessuno deve rimanere indietro, e gli adulti e gli anziani devono essere al centro del nostro pensiero.

Il nostro popolo, in ogni caso, ha voglia di democrazia diretta. Perché negarla? Le forme di rappresentanza sono storicamente date, non storicamente eterne, e dobbiamo adeguarci. Altrimenti ciò che in Spagna è stato il 15M da noi si trasforma in Grillo, e cioè un modello individualista.
Izquierda Unida, in Andalucia, ha deciso i candidati mediante primarie. In Italia SeL lo fa da tempo. I cinque stelle applicano delle forme distorte di democrazia diretta.
Cosa ci impedisce di usarle anche noi per decidere su questioni dirimenti?
Si faccia le votazioni on-line, con registrazione con carta d’identità, e dal vivo, con gazebo e tutto il resto. La scelta maggioritaria diventa la linea da seguire, e tutti si adeguano. La storia, e la rivoluzione, non la fa una singola scelta.

Non vogliamo qua entrare nella discussione “partito di quadri – organizzazione di massa”. In qualunque caso, è necessario lavorare per creare un fronte ampio, plurale, diversificato, che si trovi d’accordo su alcuni principi, il quale decida di marciare unito. Dentro questo fronte ci possono essere partiti irreggimentati, associazioni, organizzazioni di massa, comitati, coordinamenti, realtà di lotta ed altro ancora. Nel breve periodo non vediamo la possibilità dell’esistenza di una “organizzazione guida”. La proposta, quindi, è quella di un fronte plurale, che sia sociale, di mutuo soccorso, ma anche politico.
Questo fronte deve usare elementi di democrazia diretta, che siano tarati rispetto al numero dei partecipanti ed al tema da affrontare. Esistono decine di esempi di democrazia diretta.

Progrès è l’organizzazione indipendentista sarda più importante, ed ha diversi livelli di appartenenza. Il livello più elevato è quello degli attivisti: sono poco più di 100. Sono in maggioranza persone che hanno meno di 50 anni. Ogni volta che la segreteria deve compilare un comunicato stampa, od elaborare una posizione, viene proposto in un forum interno un testo, il quale può essere commentato e modificato in tempo reale. Scaduto un periodo predeterminato, si arriva ad una sintesi, la quale sarà eventualmente oggetto di discussione alla prima assemblea nazionale utile. Nel caso vi sia molta fretta, vengono usate anche le crocette.
Nel caso di un’organizzazione di quadri di queste dimensioni si possono utilizzare questi meccanismi. Gli stessi potrebbero essere utilizzati nel caso di un’organizzazione di base.
3. Investire sulla comunicazione
Vogliamo recuperare un’idea forte di politica, che è mediata dalla combinazione dell’innovazione dell’uso della tecnologia e dall’azione collettiva in rete. Siamo per l’adozione del concetto di “tecnopolitica”, cioè “l’utilizzo tattico e strategico degli strumenti tecnologici per l’organizzazione, la comunicazione e l’azione collettiva”. I pochi soldi che abbiamo, e tante nostre energie, vanno investite in quello. Dobbiamo imparare da chi è più attento di noi a questi temi, in Italia ed all’estero.
Ogni protesta che cresce nella società deve stare nei social e nella rete. Altrimenti non cresce. Dobbiamo fare nostri concetti come quello di “evento aumentato” , o di “mobilitazione emotiva” . Oltre le strutture organizzate, siano essi partiti o movimenti, dobbiamo far nascere dei “sistemi-rete”, che si riconoscano e si cavalchino a vicenda, al di là di eventuali divergenze ideologiche o tattiche.
Dobbiamo riconoscere i nostri media, e propagandarli, partendo dal principio “Don’t hate the media, be the media”.
Facebook, Twitter e tutti gli altri social network sono semplicemente luoghi, luoghi di interazione. La tecnologia intesa come cultura materiale è una dimensione fondamentale della struttura del cambio sociale. L’obiettivo è lavorare ad un contagio, sui nostri temi, tecnologicamente strutturato.
Dobbiamo studiare meglio tecniche come il “swarming” e promuovere fenomeni simili nelle nostre realtà, nonché concentrare la nostra comunicazione sul “fattore emozionale”.
4. Emozioni, felicità e bellezza
Chi sta coi subalterni deve produrre conoscenza e passione con un progetto di lungo periodo, e con un gioco straordinario di comunicazione ed organizzazioni virali, costruendo un’architettura partecipativa, digitale e materiale, aperta e coraggiosa.
Dobbiamo fare comunità, emozionare e riscrivere i concetti di felicità e bellezza. Dobbiamo ricostruire un immaginario, rubatoci in Italia dal berlusconismo e poi ripreso parzialmente, a loro uso e consumo, da Grillo e da Renzi.
La nostra forza non deve essere la personificazione, anche se un leader ci farebbe bene, bensì l’anonimato, la diffusione. Un leader ci farebbe bene perché l’identificazione con una persona aiuta l’identificazione e la partecipazione a momenti collettivi. Si tratta di un fenomeno da trattare con attenzione e, nel corpo intermedio di qualunque organizzazione, bisogna al contrario lavorare per una leadership diffusa. La proposta di rotazione degli incarichi, e dell’assunzione del principio della circolarità, va in questa direzione.
5. Rotazione degli incarichi
In attesa di un nuovo Gramsci, vogliamo che gli incarichi siano a rotazione. A capo di un’organizzazione ci siano compagne e compagni che ci rimangono per un anno, al massimo due.
Vogliamo promuovere una circolarità degli incarichi, per cui al centro vi è l’organizzazione e la capacità di prendere decisioni collettive, e non un singolo che si crea alleanze, magari non basate su posizioni politiche, per mantenere l’incarico.
L’idea della circolarità, del cerchio, non vuol dire né tornare ad un vecchio assemblearismo per il quale non abbiamo più tempo, né fare l’apologia delle strutture leggere. In molti casi (il sindacato) abbiamo bisogno di strutture pesanti, che però non devono diventare burocrazia e burocratizzazione. Il principio della rotazione degli incarichi, che deve essere vera e non di facciata, sta là.
Nella comunicazione odierna dobbiamo far prevalere la centralità delle identità collettive.

Una rivoluzione ha bisogno di rivoluzionari di professione. Ne siamo consapevoli. Ma prima di fare la rivoluzione bisogna avere una teoria rivoluzionaria, che ancora ci manca.
In attesa di avere quella, recuperiamo un po’ di credibilità tra il popolo, quello normale che non sa nulla, ma proprio nulla, delle tante sigle nelle quali ci riconosciamo. La rotazione degli incarichi è una risposta a quella mancanza di credibilità. Ci permette di essere “diversi”.
Se poi una persona è un rivoluzionario di professione, troverà il modo di farlo anche se non avrà un incarico di coordinamento.
6. Merito e valutazione
La meritocrazia e la valutazione, nel sistema della conoscenza (scuola ed università), sono state utilizzate in modo reazionario, con risultati negativi. Non bisogna però buttare il bambino con l’acqua sporca.
Nella costruzione di un’organizzazione o si valorizza il merito e si assume il principio della valutazione, oppure tutto si basa sulla buona volontà o su accordi poco chiari. Non siamo d’accordo. Negli organismi dirigenti di un’organizzazione deve esistere il principio della responsabilità.
Bisogna premiare, anche in un’organizzazione rivoluzionaria, il merito, la competenza e l’efficienza, che deve anche essere resa pubblica.
Qualunque incarico, poi, dovrebbe essere sottoposto ad un processo di valutazione e verifica. Anzi, già dal momento in cui viene stabilito l’incarico, chi si assume l’onere e l’onore si deve dare un piano di lavoro.
Inseriamo un principio di tracciabilità del lavoro politico, in modo che sia chiaro l’apporto di questa o quella compagna, o compagno, rispetto ad un obiettivo. Questa tracciabilità deve essere pubblica. In questo modo chiunque, anche il cittadino esterno, avrà sempre il massimo controllo dell’operato del partito e del singolo.

Nota bene
Ci rendiamo conto che questo principio può essere applicato solamente in organizzazioni “pesanti”, e non in movimenti sociali larghi o nella connessione di reti politiche e sociali. Nonostante ciò, crediamo sia giusto utilizzare sia moderni mezzi di valutazione dell’efficacia, sia il principio della tracciabilità e della trasparenza nella vita quotidiana di un’organizzazione, in modo che le tendenze burocratiche negative possano essere evitate e vi sia una corretta selezione della classe dirigente. La selezione della classe dirigente dei partiti della sinistra è stata, infatti, quasi sempre al contrario: venivano premiati i peggiori e non i migliori, e cioè coloro più funzionali all’autoriproduzione della struttura medesima piuttosto che alla promozione di un processo di cambiamento. Lo stesso ragionamento si può fare per il sindacato.
7. Trasparenza assoluta e questione morale
“I politici sono tutti ladri”, sentenzia il popolo. Come dar loro torto?
Poi vai a spiegare loro che non sono tutti così, che ci sono i politici di Rifondazione o di SeL che sono diversi, che quel consigliere comunale è bravo, anche se sta nel PD. Ma la persona normale ha voglia di fare queste distinzioni?…. Poi trovi quello che legge i giornali e guarda i TG e ti racconta del consigliere regionale a te vicino che se n’è andato con una buona uscita per il “reinserimento sociale” di 50.000 euro, o del consigliere comunale compagno che, nel nome de “l’urbanistica non è né di destra né di sinistra” ha permesso diverse lottizzazioni e poi alla figlia hanno venduto l’appartamento nella palazzina nuova ad un prezzo stracciato.
Queste pratiche esistono, lo sappiamo tutti, e magari sono anche fatte in buona fede, ma ci hanno sputtanato. Siamo sputtanati esattamente come gli altri. Ce lo vogliamo dire?
La questione morale esiste, ed investe anche noi. O troviamo delle soluzioni forti, subito, oppure saremo per sempre identificati come quelli che “sono uguali agli altri”.
Il principio da seguire è l’austerità e la frugalità. Chi lavora per i subalterni non può essere vittima del consumismo.
Un altro principio è quello della trasparenza. Dobbiamo dire come viviamo, come spendiamo i soldi in politica e quanti ne incassiamo.
I nostri eletti, e chiunque incassi qualunque somma dalla politica, deve essere tenuto a versarne la gran parte all’organizzazione. Anche le pensioni ed i vitalizi. Se non lo vogliono fare, vadano a fare politica da qualche altra parte. Sappiamo cosa vuol dire sopravvivere con 900 euro al mese, e se facciamo politica non è per incassare noi e poi far finta di occuparci degli altri.
8. Pochi coordinamenti, molto lavoro sul campo
Non sopportiamo le riunioni continue e lunghissime. Non sopportiamo i professionisti della partecipazione, spesso pensionati, che sono a qualunque assemblea e devono sempre intervenire. La nostra vita non ci permette di fare politica in questo modo. Vogliamo che tutti possano dire la loro, e che ognuno valga uno. Non deve essere come nelle assemblee antiche, dove vinceva chi resisteva di più, rimanendo sino alla fine.
Meno coordinamenti ci sono, meglio è. Vogliamo privilegiare lo studio ed il lavoro sul campo, ed eliminare al massimo il chiacchiericcio, sia esso reale o mediatico.
Le riunioni devono avere un orario di inizio ed un orario di fine, e devono, magari a turnazione, rispondere alle esigenze di tutti. Tutto (o quasi) dovrebbe essere in streaming, con un report, anche breve, che permetta a tutti di capire in qualche minuto cosa si è discusso e deciso.
Quando si deve decidere, se stiamo parlando di piccoli numeri, dobbiamo immaginare meccanismi che permettano anche a chi non era presente di esprimersi.
Uno dei meccanismi usati dal 15M spagnolo sono gli strumenti web che permettono di elaborare e scrivere in modo congiunto, collettivo, un testo, sia esso un volantino od un documento. Si tratta solamente di un esempio, perché le moderne tecniche ci permetterebbero di utilizzarne anche altri.

Gli organizer
Il sindacato americano è passato, negli anni novanta, dal modello del business unionism a quello del social movement e del community unionism. Si afferma il principio del community organizing e quello del community organizer. L’organizzatore individua un territorio quale arena privilegiata, vi investe fortemente, con iniziative strategicamente orientate e visibili, al fine di costruire alleanze in un territorio, costruire leadership ed inquadrare in una narrazione generale, universalistica, la battaglia sindacale o politica. Il processo, che dura anni, si conclude con la presa in carico del movimento da parte di una leadership locale formata nel corso degli anni.
L’Italia, e forse tutta l’Europa, ha bisogno nel campo politico di passare dalle strutture ferme a strutture come gli organizer.
9. Politica di massa, linguaggio di massa
La lotta di classe esiste. La stanno facendo i ricchi contro i poveri. Negli Stati Uniti, in Europa, dappertutto. Se andiamo in televisione e diciamo “la lotta di classe esiste” difficilmente verremo capiti.
Modifichiamo completamente il linguaggio che usiamo, e rifiutiamo in qualunque modo il politichese. Per molti di noi è duro, dobbiamo trasformarci, ma è l’unico modo per reimpostare un lavoro politico di massa.
Non crediamo che oggi sia possibile avere un’organizzazione politica di massa. Crediamo che sia possibile avere delle politiche di massa, che passino dai quartieri e dal paese alla rete, nella rete si gonfino ed esplodano, per poi tornare alle strade ed alle piazza, in un ciclo virtuoso.
Politica di massa significa innanzitutto capire come ragionano in un quartiere, in un paese, e come parlano, quali corde utilizzare.
Vogliamo recuperare il concetto di comunità. Dobbiamo fare ed essere una comunità. Sbandieriamo sempre un termine bruttissimo e bellissimo, solidarietà, ma dobbiamo praticarla, e dobbiamo dimostrarlo alla maggioranza della popolazione, che odia qualunque cosa abbia a che fare con la politica.
Un modo per praticare veramente il concetto di solidarietà, e farlo uscire dall’aurea negativa, è praticare la comunità: di quartiere, di paese, di luogo di lavoro, di vicinato. Spesso a sinistra abbiamo individuato come reazionario il comunitarismo, ed in parte lo è, ma abbiamo buttato il bambino e l’acqua sporca.
Nell’attuale fase storica, in cui l’internazionalizzazione del capitale distrugge lavoro e socialità, riprendere la comunità è un obbligo.
Immaginiamo la Sardegna tra 20 anni. Se si seguono gli attuali principi di politica economica, il destino è segnato: impoverimento, spopolamento, emigrazione, diminuzione dei diritti.
La “democrazia” ed il “mercato”, così come storicamente definiti, sono falliti. Le soluzioni già sperimentate dalla storia, però, non danno conto del modo di produrre e di relazionarsi della contemporaneità. Ed anche i modelli organizzativi od il linguaggio che usiamo non sono attuali.
All’interno di questo contesto, in un percorso da sviluppare, il concetto di “comunità” può essere rivoluzionario. Non si parte da zero. Se ne sono occupati in tanti.
10. No al volontarismo, si allo studio
Tantissimi documenti politici letti in questi anni elencavano una serie lunghissima di mobilitazioni da promuovere, a cui presenziare. Era quasi inversamente proporzionale alla capacità di questa o quella forza politica di essere veramente presente nelle lotte. Non ne abbiamo bisogno.
Vogliamo meno volontarismo e più studio. Studio organizzato, collettivo, che porti ad una ricaduta reale, con lavoro pratico, che serva a sbugiardare la classe dirigente. Dobbiamo sviluppare una proposta di governo, e ragionare come forza di governo. Dobbiamo gettare alle ortiche il ribellismo, non la ribellione, e giocarci il tutto per tutto quando è necessario ed utile.
In questo modo acquisiremmo quella credibilità necessaria per poter essere classe dirigente, per avere il consenso duraturo di chi, donna, tra lavoro extra familiare e familiare non ha un minuto di tempo libero, o del precario che ci impiega tre ore per andare in una moderna fabbrica (magari un call center, o un hotel) dove guadagna 600 euro, o le mille altre figure sociali che ci possono seguire, e magari ci seguono per un po’, ma poi ci abbandonano perché ci vedono velleitari o parolai.
11. Bilinguismo
Il sardo può morire. Tantissime lingue nascono, si sviluppano e muoiono. Dobbiamo decidere che fare del sardo. Non abbiamo molto tempo.
La politica e gli intellettuali, con le loro (non) azioni, hanno deciso che il sardo deve morire.
Noi pensiamo che il sardo sia stata la lingua dei subalterni per secoli, e che per molti lo sia ancora. Per questo deve essere ripresa e divenire sinonimo di riscatto sociale. La lingua è un mondo, perderla significa rinunciare ad un punto di vista, arrendersi al pensiero dominante unico, anche nella forma dell’espressione dei propri pensieri, sogni ed emozioni. È dura, deve essere un percorso che coinvolge ogni persona singolarmente, in un’ attività di studio e di pratica che avremmo dovuto fare a scuola e da bambini, quando i nostri genitori parlavano con noi in italiano e tra di loro in sardo.
Se decidiamo di farlo, usiamo anche il sardo.

 

Condividi su:

    Comments are closed.