Di una messa in latino nell’Anno Domini 2015 e di altro ancora, di Gianfranco Murtas

Ma al papa il clericalismo suscita un dolce e garbato anticlericalismo. (Segue una nota del direttore di questo sito).


Domenica l’altra – il 12 aprile cioè – nella basilica di Bonaria (nella foto) , a Cagliari, si sono riuniti un centinaio di preti, confortati dalla presenza di un cardinale e due vescovi. Con loro anche sei/settecento spettatori sparsi fra le bancate delle tre ampie navate e dei due transetti. Spettatori di una rappresentazione sacra, certo non ignota a molti, replicata in città con qualche regolare frequenza, ma sorprendente stavolta per il contesto in cui si collocava. Si è chiamata, quella rappresentata a Bonaria, “liturgia di san Pio V”, il papa ispiratore della lega santa che nel 1571 sconfisse nel mare di Lepanto gli uomini dell’impero ottomano. In tempi di ISIS e di guerra guerreggiata o di terrorismo in aree del medio oriente fino all’Afganistan e ad immense regioni dell’Africa bianca e nera, quella memoria fa pensare, nel bene e nel male. E s’accosta, per la data condivisa, al sacrificio del rogo dell’Inquisizione spagnola che asciugò il corpo debole di Sigismondo Arquer, giurista e teologo cagliaritano accusato di luteranesimo e tenuto prigioniero da sette anni nelle segrete cattoliche. E anche questo, in tempi di ecumenismo, fa pensare, ma soltanto in bene, nel senso del percorso emancipativo compiuto in quattro secoli e oltre.

Mentre tutto si fa allarme nella vita internazionale, nelle relazioni fra i popoli e anche all’interno di molte nazioni frazionate, mentre il nostro stesso Mediterraneo diventa luogo di traffici della disumanità e morte di innocenti, mentre il volontariato delle Caritas – anche delle Caritas diocesane sarde – si va facendo partner generoso e competente delle pubbliche amministrazioni per il soccorso imposto dai tempi perfino estremi che viviamo in una perduranza inquietante, nella basilica in faccia al mare non una assemblea, ma il sinedrio paludato come fossimo in un’era astratta, fuori dal tempo, alza gli incensi al cielo, e il popolo dei mau-mau come pubblico decoscientizzato assiste plaudente, cullato dalla musicalità del latino antico, dalle azioni sceniche che muovono a suggestioni evocando un mistero che tale rimane anche dopo il “ite missa est”, e fa ponte con il prossimo appuntamento in calendario, in altra chiesa, magari sopra l’antica sinagoga dei “perfidi giudei”, non dei “fratelli maggiori”.

A colpire circa la collocazione temporale della rappresentazione sacra svoltasi così di recente a Bonaria si aggiungono altre circostanze. La protesta implicita (e oserei dire arrogante nella sostanza) avversa la celebrazione da parte di papa Bergoglio del cinquantesimo della prima messa in lingua parlata che il grande pontefice Paolo VI donò alla sua diocesi romana, alla vigilia della quarta ed ultima sessione del Concilio Ecumenico Vaticano II che si sarebbe svolta nell’autunno di quel 1965.

Chi appartiene alla mia generazione ed ha una formazione cattolica è cresciuto, nella pratica parrocchiale, tutto dentro alle liturgie antiche e conserva memoria (ed un permanente incanto) del primo e del dopo di quella novità liturgica, ha vivo il sentimento del passaggio da quel prima a quel dopo vissuto nella quotidianità religiosa della propria primissima adolescenza. (A Cagliari – sia detto en passant – erano i tempi dei parrocati onorevoli di Dino Locci in cattedrale, Pasquale Sollai a Sant’Anna, Ezio Sini a Sant’Eulalia, Ignazio Piras a San Giacomo, Giuseppe Lepori a San Lucifero, Antonino Orrù a Santa Lucia, Ottavio Cauli a San Pio X, Giuseppe Aramu a Sant’Elia, ecc. ). L’emozione e il gusto del nuovo si combinavano all’educazione ricevuta tale da poter cogliere e comprendere l’arricchimento, non l’impoverimento, di quel passaggio:  perché dalla categoria dei corpi distinti – l’officiante e i fedeli – si passava a quella dell’assemblea concelebrante, del ”noi” celebrante nella distinzione dei ruoli ma nella identità e coralità della partecipazione. La stessa concelebrazione autorizzata a sacerdoti prima costretti invece ad “assistere” la celebrazione del confratello, costituiva un passaggio formidabile e profetico, nel recupero delle fonti, alla civiltà del “noi”, finalmente oltre quella dell’ “io”. Che è quello che in politica può declinarsi con la formula della democrazia partecipativa, capace di superare quella puramente rappresentativa. E’ sostanza, non soltanto figura.

Vi fu in Sardegna chi anticipò la stagione del “noi” – era insieme un “noi”ecclesiale e un “noi” sociale – e protagonisti di quella stagione furono i Piccoli Fratelli di Charles de Foucauld (si torna in Africa, e alla persecuzione o al martirio, dopo che alla missione, del soldato fattosi vittima!) che fecero sosta a Bindua, borgo minerario di Iglesias, per lavorare essi stessi – preti ordinati e diaconi – in miniera, spaccandosi la schiena e riempiendosi i polmoni di silicosi. Apostoli del “noi”, della messa parlata con gli uomini del sottoterra.

Ricordo che un anziano, anzianissimo prete cagliaritano della Fraternità foucauldiana, missionario da oltre mezzo secolo in Brasile, fracassato in tutte le ossa da uno squilibrato abitatore di una favela, saranno ormai due o tre anni fa e con rischio vero della vita, tornato nella sua città per una visita ai molti della sua comunità elettiva o di provenienza, andato a una messa e tesa la mano per ricevere l’ostia, ebbe in risposta da un povero “levita” (avrebbero scritto gli antichi e scrivono i nuovi mascherati da antichi) inconsapevole di tutto – prima di tutto di se stesso, della sua missione, e di chi gli stava davanti – un no: non si può, non sei degno di toccare con la tua mano l’ostia. L’ostia-feticcio, evidentemente.

(Parlavo in questi ultimi giorni con Paolo Matta – giornalista di Videolina e uno degli esponenti più autorevoli, per preparazione e per lunga e varia esperienza, dell’Azione cattolica e in generale del laicato cattolico diocesano: e ricordavamo insieme la figura eroica di qualche prete giovane o giovanissimo, perduto nella malattia letale, ma eroicamente gioioso nella oblazione, nell’offerta di sé all’interno della religione del “noi”, senza i goticismi dei riti antichi privi di senso nell’oggi: don Antonio Loi, che Paolo VI papa da poche settimane volle prete benché non avesse completato gli studi – ma prete-vittima, esempio virtuoso per tutti nella sua comunità di paese – e don Marcello Melis, di formazione salesiana, meravigliosa creatura della Sequela).

Nelle chiese di Cagliari, senza che il vescovo se ne preoccupi, sono molti i centri se non di propagazione dell’ateismo ideologico certo di induzione alla diserzione ecclesiale per il discredito che preti malamente funzionanti  addossano alle povere spalle delle rispettive comunità.

Alcune settimane fa un amico testimone occasionale dell’episodio mi riferiva di un parroco indicato per nome e cognome, che in apertura di anno liturgico e catechistico, alla messa dei bambini una certa domenica mattina, si lanciò in cervellotici strali ai genitori là presenti con i figli, accusandoli di aver trascurato, con la prole, la frequenza parrocchiale per preferire la spiaggia, nell’estate appena trascorsa, sicché per loro sarebbe stato meglio se si fossero legati al collo la classica macina e si fossero gettati in mare (non al Poetto però,  scegliessero altri fondali più convenienti al risultato): sconcerto e diserzioni, chissà i pensieri dei bambini vaticinati orfani.

Alcuni anni fa, al trigesimo della morte di un grande apostolo della socialità medica di Cagliari – mi riferisco a Franco Oliverio –, in un’altra parrocchia del centro storico cittadino ci presentammo forse in trecento; si avvicinò alla concelebrazione con i padri conventuali, per l’occasione, anche don Cannavera. Ma poiché quella messa era la seconda di un trittico pensato dal parroco per onorare un confratello che festeggiava i cinquant’anni di messa, e si svolgeva riflettendo sulla vocazione al sacerdozio, ecco che del tutto ininfluente si rivelò la novità: la chiesa antica e dolce straordinariamente piena, cioè, di persone col cuore gonfio ancora di dolore per la perdita di quel missionario anticipatore di tutto, con i suoi della Congregazione Mariana giovanile: anticipatore del recupero dei drogati a Sant’Elia e nell’hinterland e in città. Trecento persone a bella integrazione dei quindici di solito presenti. Ne scrissi a quel parroco incapace, senza risposta.

Come senza risposta è rimasto don Cannavera il quale aveva chiesto, nero su bianco, ai responsabili della organizzazione della visita del papa Francesco il perché fosse stato cassato per metà l’elenco dei ragazzi del carcere minorile da ammettere alla plenaria in cattedrale, mentre la gran parte dei banchi si erano rivelati pieni di impiegati dell’amministrazione penitenziaria in servizio e perfino in quiescenza, e magari – ma questo l’avrei aggiunto io – perché al primo banco ci fosse il presidente Cellino (che, a proposito di poveri prediletti, leggo da qualche parte essere stato liquidato dal Cagliari calcio con qualche milione di euro per il passaggio delle quote azionarie della società).

Miglio il vescovo dell’assenza. S’era presentato col pastorale di legno, si presenta ora soltanto in comparsate, ma non è attivo, compromesso, in pressoché nulla della nostra vita ecclesiale e sociale. Abbandonò l’assemblea che a Serdiana accolse don Cugusi nuovo amministratore parrocchiale, anni addietro, per andarsene a vedere una partita di calcio: a godersi lo spettacolo da una tribuna VIP del parastadio che era stato dichiarato interdetto da prefettura e magistratura dopo gli azzardi del presidente costati, per la gara contro la Roma, i tre punti a tavolino e l’apertura di un nuovo fascicolo penale. E quando gli si fece presente che il giornale da lui dipendente aveva censurato una richiesta di chiarimento circa gli apprezzamenti alle pratiche scaramantiche/superstiziose del presidente Cellino (coinvolgenti addirittura la Vergine Maria!), da lui ancora il silenzio… Eppure ci avevano detto trattarsi del discepolo migliore di monsignor Bettazzi, il quale – vescovo conciliare e già presidente di Pax Christi – però non solo rispondeva, ma proponeva lui il dialogo, stimolava il confronto per il meglio di tutti…

Tutto si lega. In campo clericale si è sempre all’inseguimento del buonsenso, in campo evangelico ovviamente è il contrario. Don Tonino Bello anticipava, don Mazzolari anticipava, padre Turoldo anticipava, padre Balducci anticipava, e con loro quanti altri… quanti quanti altri, ma pur sempre una minoranza infima, trafitta sempre dal clero pauroso (ci si ricordi di don Milani e dei cappellani militari negli anni ’60!). I suicidi, perduti non per atroce dileggio della dottrina ma per il male oscuro covato ed esploso, venivano seppelliti fuori dai recinti sacri, ed oggi sono onorati con un surplus di pietà nei riti sacri, così come domani si farà per i malati di sla che chiedono la carità del distacco dei tubi dal simulacro di vita, mentre oggi – fra il plauso dei conformisti – si obbedisce a un cardinale ateo che ordina i funerali in piazza, non in chiesa. Tutto può continuare ad essere, nel quadro grande e in quello piccolo, quando si proclama beato il papa che negava la grazia e autorizzava la ghigliottina da lui stesso ripristinata dopo che i triumviri della Repubblica romana l’avevano abolita, nell’anno stesso in cui il fuoco dei francesi alleati del papa-re uccisero il nostro Goffredo Mameli ventenne.

Tutto si tiene, partendo da san Pio V, passando per la persecuzione dei modernisti da parte di san Pio X, per arrivare all’anticamera imposta per giorni all’arcivescovo Romero, san Romero d’America, dal santo (santo certo per il cuore fedele ed eroico, incapace talvolta però, per impacci umani, di sciogliere gli equivoci di una formazione ideale scaduta a ideologia dogmatica e sbagliata) Wojtyla . Chi l’avrebbe immaginato possibile san Romero d’America – fra breve anche lui innalzato, con la sua teologia vissuta e condivisa, agli onori degli altari – celebrare in latino senza il suo popolo, senza l’assemblea del “noi”?

L’ho chiesto a don Arrigo Miglio: che si dirà di lei fra cento anni? Davanti alla rappresentazione sacra tutta in latinorum, avrebbe detto il nostro Renzo, nei giorni gravi della nostra contemporaneità, nel dispetto alle regole conciliari, alle chiamate al “noi” della partecipazione…

 

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Caro Gianfranco,

il tuo interessante articolo merita tre precisazioni, conseguenti ad altrettante informazioni che forse ti sono sfuggite, o dalle quali non traiamo identiche valutazioni. La prima: mons. Arrigo Miglio si è assunta la responsabilità di questa troppo rimandata ordinazione sacerdotale, che ha visto (l’11 aprile scorso) la presenza in duomo di centinaia di fedeli partecipi e commossi e la concelebrazione, in presenza di un cardinale, di tre vescovi e di 72 sacerdoti (tu sai, meglio di me, quanto i sacerdoti ‘conservatori’ siano contrari alla concelebrazione conciliare); credo che la concessione della messa in latino sia stata una ‘paterna’ (riparatoria?) concessione di mons. Miglio alle opinioni del giovane ordinato; avendo partecipato ad entrambe le giornate, propendo a considerare la prima, con il vescovo, quella più significativa e meritevole di ricordo. 2) Mons. Arrigo Miglio ha guidato la Conferenza Episcopale Sarda nella presa di posizione contro l’arrivo delle scorie nucleari in Sardegna e, di persona, ha portato la sua solidarietà ai nostri amici del presidio sotto il Consiglio regionale. 3) Mons. Arrigo Miglio presiederà, il prossimo 28 aprile, ‘die de sa Sardigna’, la messa in cattedrale per pregare con i sardi credenti il Signore perché accresca la fiducia in noi stessi, il coraggio della speranza, la solidarietà di un popolo unito e fattivo. Non era mai successo così, e finora (ed il suo esempio pare venga seguito da altri presuli). In conclusione: sarei propenso a considerare l’attività dell’Arcivescovo nell’ottica di una progressiva assunzione di responsabilità dopo non pochi mesi di studio di una situazione della diocesi (ed in questo resto totalmente d’accordo con te) decisamente difficile e complessa. Ciao, Salvatore  Cubeddu.

 

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