Ne “Il Califfato del terrore” l’inviato de La Stampa, Maurizio Molinari, analizza la sfida lanciata dal cosiddetto stato islamico, di Alessandro Aresu

L’articolo è stato pubblicato su La Nuova Sardegna 23 febbraio 2015.


Nel lamentare il disinteresse dell’Europa, ossessionata dal prendere tempo per la sua crisi economica, verso i processi politici che hanno interessato il Mediterraneo, lo storico delle idee Jan-Werner Mueller ha affermato che si può immaginare che in cinquant’anni gli storici considereranno la crisi dell’euro una nota a pié di pagina, mentre le “primavere arabe” e i loro fallimenti saranno viste come eventi di proporzioni globali. Eventi in cui l’Europa non ha giocato un ruolo concreto, in cui il “potere normativo” europeo non ha svolto una funzione, se non quella di accentuare la distanza. Eppure la crisi mediterranea, o meglio la crisi del vasto arco di instabilità africano e asiatico che contiene molte delle aree per cui Papa Francesco ha utilizzato l’espressione efficace “guerra mondiale a pezzi”, riguarda senz’altro l’Europa e ancor più un paese come l’Italia.

 

I nuovi acronimi. Il 2014, attorno ai vecchi e nuovi acronimi di cui è costellata la politica monetaria europea, ha imposto all’attenzione acronimi dal forte impatto geopolitico: Daesh (che riprende l’arabo Ad dawla al islamiya fi ‘Iraq wa Shem), Isis (che riprende l’inglese Stato Islamico dell’Iraq e della Siria), Isil (che riprende l’inglese Stato Islamico dell’Iraq e del Levante) o semplicemente Is, Stato Islamico. Quest’ultima forma corrente – che legittima più degli altri la natura statuale del gruppo terrorista – è particolarmente avversata dagli Stati arabi, che utilizzano in senso dispregiativo Daesh o Daish, secondo un costume utilizzato dal nostro ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, oltre che da James Terry, il generale degli Stati Uniti che ha il comando dell’operazione militare Inherent Resolve, attiva dal 2 dicembre 2014. Oltre agli acronimi, però, cosa resta all’opinione pubblica? Restano anzitutto le immagini, dalle decapitazioni degli occidentali in camice arancione al video del pilota giordano Muath al-Kasaesbeh.

 

“Il Califfato del terrore”, un libro appena pubblicato dal corrispondente da Gerusalemme per “La Stampa” Maurizio Molinari, analizza con dovizia di particolari la sfida del sedicente “Stato Islamico”. La data decisiva è il 29 giugno 2014, quando il leader di questa formazione, Abu Bakr al-Baghdadi, nato Awwad Ibrahim Ali Muhammad al-Badri al-Samarrai, proclama la restaurazione del “Califfato”. È una reale novità, come spiega Molinari, perché i tentativi precedenti di edificazione pseudostatuale da parte dei jihadisti, dall’Afghanistan al Sudan, non hanno evocato il simbolo del Califfato.

 

Il Califfato. Il Califfato stesso è, appunto, un simbolo, che vuole evocare il profeta Maometto, i quattro “califfi giusti” e la loro età dell’oro per l’espansione dell’Islam. Questo lavoro sofisticato sull’immaginario irrompe nella convergenza tra i due conflitti in corso nel mondo musulmano: la guerra tra sunniti e sciiti e la sfida interna per la supremazia sunnita (tema determinante nelle “primavere arabe”, per i diversi posizionamenti e finanziamenti delle monarchie del Golfo).

 

Una nuova geopolitica. La sfida geopolitica del Califfato è segnata dalle fratture geografiche e dall’implosione o dall’ordine precario degli Stati post-coloniali. Molinari osserva giustamente: «al posto dell’Iraq c’è un Paese diviso tra Kurdistan nel Nord-Est, sciiti filoiraniani nel Sud e Stato Islamico nelle regioni sunnite dell’Ovest e del Nord. Al posto della Siria vi sono due Stati e mezzo: i primi sono guidati da Bashar al-Assad e Abu Bakr al-Baghdadi», il territorio che rimane è in balia di diversi gruppi ribelli. Inoltre, la sostenibilità statuale è a rischio nel Libano di Hezbollah, nonché in ampie regioni giordane e turche alle prese con i profughi che derivano dalla catastrofe umanitaria siriana.

 

I finanziamenti. Daesh si muove in questo contesto, con una disponibilità economica molto elevata: le fonti di approvvigionamento più importanti sono la vendita di petrolio e il saccheggio di antichità. Nel contrabbando del greggio, si evince la volontà “statuale” del terrorismo, nella costruzione e nel mantenimento di infrastrutture formali e informali, tra cui Molinari cita «un sistema di autobotti, pulmini, pick-up, taniche a dorso d’asino, zattere e tubi interrati». C’è un continuo setaccio di aree archeologiche e conventi, con oggetti piazzati ai trafficanti e manoscritti religiosi cristiani bruciati. La demolizione delle chiese è un segno tangibile della barbarie. Nella politica di sfruttamento e di propaganda di Isis, la formazione è centrale: nelle “scuole di martirio” e nell’addestramento di centinaia di bambini per girare immagini e video di propaganda.

 

Roma. Nel terzo capitolo del libro, Molinari spiega «Perché tutto ciò ci riguarda». La prima ragione è Roma. Nella copertina di uno dei numeri della patinata rivista di lingua inglese “Dabiq” è apparso l’ormai celebre fotomontaggio della bandiera nera del Daesh a San Pietro: anche per questo si sono avuti allarmi sulla sicurezza del Papa il quale, in quanto simbolo e attore di pace, è un obiettivo ideologico molto sensibile per l’estremismo jihadista. Il simbolo di Roma è stato anche evocato in ambienti vicini a quelli in cui è maturata la strage di Parigi. La seconda ragione riguarda i “foreign fighters”, quegli occidentali che accrescono le fila di Daesh e che rappresentano una debolezza interna dei nostri Stati e una sfida sempre più difficile da disinnescare per l’antiterrorismo. È una sfida che viene amplificata dalla nuova jihad digitale, con il lavoro dei “disseminatori” del web e con azioni di propaganda come la violazione dell’account Twitter del comando centrale statunitense.

 

Il futuro. Per il prossimo futuro, tre questioni meritano particolare attenzione. L’aspetto militare: dopo l’uccisione dell’ostaggio Kayla Jean Muller, Obama ha chiesto poteri di guerra per tre anni, ma ribadendo che le forze della coalizione sono in una fase offensiva, mentre Isis è sulla difensiva, e perderà. L’aspetto culturale: si dovrà verificare quanto le posizioni lodate in Occidente, espresse dal controverso presidente al-Sisi all’Università di Al Azhar e riprese in una notevole intervista a Der Spiegel, riusciranno realmente a favorire il dibattito islamico. Infine, la guerra simbolica ha rafforzato le “imitazioni” dello Stato islamico, a partire da Boko Haram, la cui sfida allo Stato nigeriano è già riuscita a far spostare le elezioni dal 14 febbraio al 28 marzo.

 

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