Chistionare de su mundu chi lu juchet, di Andrea Deplano

Montaigne avrebbe detto che si cerca di “avere delle teste ben piene anziché ben fatte”. E sulla questione dell’apprendimento e insegnamento delle lingue diede contributi notevoli per una didattica ancora attuale.

I sardi hanno sempre rinunciato ad insegnare preferendo fare. Chi volesse apprendere “basta che guardi e… impara”. Tutt’al più, si interveniva per correggere lo sbaglio. Poi la famiglia e la società hanno abdicato non solamente a correggere ma anche a costruire il contenuto da imparare. Tutto si è riversato sulla scuola e questa deve edificare per intero l’educazione linguistica e culturale. Così come l’educazione civica, l’educazione ambientale, artistica, stradale, musicale, fisica, oltre alle innumerevoli discipline di insegnamento quali la storia, la letteratura, la geografia, la matematica, le scienze naturali e sociali, le lingue moderne e classiche, la religione e le varie materie di indirizzo. Era quanto richiedeva Gargantua a suo figlio Pantagruel.

Se ancora ci sforzassimo di far entrare tutti quei contenuti negli alunni occorrerebbero decenni di permanenza fra i banchi. Così si rincorre un sistema economico per costruire non più i contenuti ma le competenze: a ischìre a facher. Si direbbe un ritorno indietro. Non più homo sapiens ma homo faber. Ciò non sottrae nulla alla conoscenza: chi la possiede saprà anche fare. L’importante è costruire solide basi.

A fondamento di tutto sta la lingua nella sua essenza di suoni, parole, frasi per articolare funzioni comunicative e sviluppare riflessione su lingua e linguaggi. Senza questo non è possibile diversificare il lessico e affrontare contenuti settoriali. Soprattutto oggi che il sardo non è più lingua madre ma lingua seconda o compresente con l’italiano, se non terza lingua.

Ha ragione Bachisio Bandinu nell’affermare che la costruzione della lingua si fonda sulla parlata locale perché l’apprendimento di questa abbia una forma di riconoscimento nel territorio in cui si vive: per un gratificante riscontro immediato di ciò che si va a studiare. Perciò la lingua, grazie a ciò che consente la legge 482 può essere introdotta – come osserva Giuseppe Corongiu – fino alla scuola media inferiore. Nei limiti dell’autonomia scolastica. Purtroppo la stessa legge nazionale non entra nella media di II grado e men che meno nell’università. Ma neppure la proposta di legge regionale 167 supera questa mancanza e l’autonomia scolastica del decreto 275 non consente lo studio della limba in ogni scuola superiore. Così, solo alcune materie, finora in modo sporadico, hanno avuto la possibilità di veicolare contenuti disciplinari in sardo, o per volontà del docente o per intervento di “esperti esterni”.

Un corso di lingua sarda nelle scuole isolane non ha ancora avuto possibilità di svolgimento.

Solo attraverso l’Offerta Formativa Coordinata, curata dalla RAS di concerto con l’USR e le Autonomie Scolastiche, potrà finalmente aversi un curricolo comprendente il sardo.

Ad oggi solo istituti tecnici e professionali possono moltiplicare le chances di inserimento della limba nel proprio POF oltre che nella quota di autonomia scolastica del 20 per cento (rispetto al 15 dei licei) e anche nella quota di flessibilità fino al 30-35 dell’orario annuale.

Insomma, se la RAS ne avesse intenzione, qualche prospettiva per creare un curricolo a forte identità linguistica e culturale ci sarebbe.

Si pone allora il problema di formare i docenti fin dal percorso universitario, istituendo cattedre di lingua sarda negli atenei e concretizzando la laurea in lingua sarda come oggi si ha in inglese, francese, catalano, tedesco… Corso di laurea abilitante all’insegnamento della limba nelle scuole di ogni ordine e grado perché la conoscenza delle lingue si diversifica, per le competenze da raggiungere, e a seconda dell’indirizzo di studi della scuola superiore: si ha un inglese per i motori marini nel nautico, uno commerciale nei tecnici, uno letterario nello scientifico, un inglese del tessile, del turismo, dei servizi socio-sanitari, della ristorazione, dell’agricoltura… La diversificazione dei registri e dei gerghi della lingua rispecchia il corpo vivo della comunicazione sociale. In questa precisa fase si pone la necessità di mettere a punto uno standard per una medesima lingua da veicolare nei testi dei diversi settori dell’economia e della società, che maturi principalmente come scelta editoriale condivisa prima ancora che come corpus linguistico.

Prima di questo sarebbe bene riflettere sull’opportunità di conservare l’Osservatorio istituito con la legge 26/97. Forse è utile sostituirlo con un ente per la ricerca terminologica ed il lessico, una Accademia della limba costituita da competenti sardo parlanti che, come spesso accade, non sono accademici.

Buona l’idea contenuta nella succitata proposta 167 della Consulta didattica interna all’assessorato, purché essa produca i materiali per verificare e certificare le competenze linguistiche secondo il QCER per docenti e alunni, perché finalmente questi ultimi abbiano titoli spendibili come credito formativo nel loro portfolio. La dignità di lingua per il sardo si misura anche su questo riconoscimento che suonerà quale incentivo all’apprendimento de sa limba.

Al giovane competente si potrà allora domandare di chistionare de su mundu chi lu juchet.

Andrea Deplano

 

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