Discorso del sen. ROBERTO COTTI AL Senato della Repubblica 14 luglio 2014.

Roma, Senato della Repubblica, 14 Luglio 2014

Intervento in Aula del Sen. Roberto Cotti

 

Signor Presidente, colleghi Senatori,

Il disegno di legge costituzionale che oggi esaminiamo non è frutto di un ponderato esame delle sopravvenute esigenze della nostra popolazione; non è una risposta alle necessità di miglioramento del nostro sistema legislativo; non è un provvedimento volto a razionalizzare o diminuire i costi della politica; è niente altro che un tentativo affrettato di adeguare la nostra forma di Repubblica alle esigenze di un premier-sindaco nazionale.

Già, sindaco nazionale: non è un termine utilizzato a caso: sembra proprio che questa nuova conformazione istituzionale voglia avvicinarsi al modello gestionale di un Comune, concentrando quanti più poteri sul governo centrale, con la scusa di dare al paese una accelerata non verso una maggiore efficienza, ma verso uno svilimento della democrazia.

Il disegno che emerge è quello di un parlamento più sottomesso al governo, di enti locali (in particolare le Regioni) depauperati di potestà legislative e di funzioni trasferite ad un governo centrale; con un parlamento formato da un Senato finto, fatto di nominati che non disturbino i manovratori, senza peraltro ridurne i costi in modo significativo, ed una Camera superstite, ancora di composizione elefantiaca, senza tagli di stipendi o di costi; con l’istituto referendario e quello delle leggi di iniziativa popolare sviliti ed azzoppati da un aumento enorme del numero di firme necessarie per le proposte dei cittadini, sempre per non disturbare chi comanda.

Ma è sul rapporto tra Stato e Regioni che intendo concentrare la mia attenzione.

Questo disegno di legge di riforma costituzionale prevede la revisione del Titolo V della Costituzione.

Ma l’impianto proposto nell’attuale riforma non è certo funzionale alla soluzione dei problemi provocati dalla riforma del 2001. Nel merito, la riforma prevede l’abolizione della legislazione concorrente tra Stato e Regioni, quella in cui lo Stato dettava i principi, con “leggi-quadro” per ragioni di omogeneità e le Regioni vi davano attuazione con le loro leggi. Evidente che in questo modo le decisioni sui nostri territori, sulla nostra vita, si allontanerebbero sensibilmente dalla gente.

La Dichiarazione sul regionalismo in Europa, approvata dall’Assemblea delle Regioni d’Europa (Are) il 4 Dicembre 1996, sostiene all’articolo 3, comma 1, che “La ripartizione delle competenze tra lo stato e le Regioni è disciplinata dalla costituzione o dalle leggi in conformità dei principi di decentralizzazione politica e di sussidiarietà. In virtù di questi principi, le funzioni devono essere esercitate al livello più vicino ai cittadini”. Evidente che in Italia stiamo andando in direzione opposta.

Sebbene la Dichiarazione dell’Are non sia un documento con valore di legge, è tuttavia una carta di principi assimilabile alle grandi dichiarazioni di principio spesso richiamate dalla comunità mondiale.

Nel nuovo quadro vengono elencate le nuove competenze statali sottratte alla legislazione concorrente. Se il problema che la riforma mira a risolvere è quello del “chi fa cosa” e quindi del contenzioso che si crea innanzi alla Corte costituzionale, bloccando o invalidando numerosissime leggi, non si capisce in che modo questa riforma lo risolverebbe. La nuova definizione di competenze non sembra essere risolutiva del problema in questione: quale opera sarà da considerarsi “dotazione infrastrutturale” (regionale) e quale “infrastruttura strategica” (statale)? E con la prevista “clausola di supremazia” per la quale «su proposta del Governo, la legge dello Stato può intervenire in materie non riservate alla legislazione esclusiva quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale» garantisce un potere centrale potenzialmente quasi assoluto. Il governo potrà utilizzare la clausola di supremazia per imporsi alle Regioni, facendo rientrare discrezionalmente qualsivoglia legge nel concetto dell’“unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale”.

Sul ricorso a questa clausola è facile poi prevedere altro contenzioso paralizzante senza risparmiare lavoro alla Corte Costituzionale.

Veniamo al tema che mi sta più a cuore: quello delle Autonomie speciali.

Pur senza abolire l’articolo 116 della carta costituzionale (propone di abolire solo il comma 3), la nuova normativa prevede un sostanziale svuotamento dell’autonomia speciale. Difatti le modifiche previste all’articolo 117 disegnano uno scenario in cui vengono trasferite al livello statale una lunga serie di competenze, che comportano la stessa attribuzione di competenze a tutte le Regioni, siano esse a Statuto speciale o a Statuto ordinario.

Non potendosi fare diversamente si è previsto che la nuova normativa entri in vigore, per quanto riguarda le Regioni a Statuto speciale, solo dopo un loro obbligatorio adeguamento delle relative carte autonomistiche. Ma di Autonomia rischia di rimanere praticamente solo il nome.

Solo grazie alla corale disaccordo proveniente dalle Regioni interessate la commissione competente ha provveduto, fortunatamente, ad introdurre la previsione dell’intesa per l’adeguamento degli Statuti delle Regioni e delle Province autonome di Trento e Bolzano, ma questo non basta. La pretesa di tagliare una miriade di competenze storicamente attribuite a queste Regioni, per evidenti motivi storici e geografici mina alle radici il patto istituzionale del 1948, che sanciva al contempo l’indivisibilità della Repubblica e l’autonomia delle Regioni a Statuto speciale. Senza la seconda (l’autonomia) non avrebbe più diritto di esistere la prima (l’indivisibilità).

Anche qui mi permetto di richiamare nuovamente la Dichiarazione dell’Are del 1996, che sempre all’articolo 3, comma 3 recita: “Le Regioni devono essere responsabili di tutte le funzioni aventi dimensione eminentemente regionali”, e al comma 6 del medesimo articolo dice esplicitamente che “Le decisioni o le misure statali riguardanti le competenze o gli interessi regionali non possono essere adottate senza l’accordo preventivo delle Regioni interessate …”!

Ma questa riforma precede le intese con le regioni, imponendola immediatamente a quelle a Statuto ordinario e creando un precedente unilaterale anche nei confronti delle intese con quelle a Statuto speciale, prevedendo un’intesa sull’adeguamento piuttosto che su nuovi rapporti da riscrivere insieme.

Nello Statuto speciale della mia Regione, all’articolo 5, è previsto che “Salva la competenza prevista nei due precedenti articoli (elenco delle materie su cui la Regione può emanare norme legislative, n.d.r.) la Regione ha facoltà di adattare alle sue particolari esigenze le disposizioni di legge della Repubblica, emanando norme di integrazione ed attuazione sulle seguenti materie: – omissis – d) nelle altre materie previste da leggi dello Stato”. Da questo esempio si comprende quanto potrebbe essere impattante il peso della riforma, soprattutto per le Regioni a Statuto speciale.

Uno degli argomenti che sento, per sostenere la necessità di uniformare le Regioni a Statuto speciale a quelle ordinarie è: “ma le Regioni autonome usano male i fondi di cui dispongono”. Verissimo; indiscutibile. Ma se questo è il problema le vittime sono proprio noi cittadini di queste regioni a statuto speciale, non gli abitanti delle altre! Gli abitanti delle altre Regioni, anch’esse non certo simbolo di virtù politico-amministrative, subiscono danni dal malgoverno della propria Regione e dal malgoverno dello Stato, che non mi pare sia da ergere a simbolo di grande purezza al confronto col malgoverno regionale.

Se qualcosa è male amministrato la soluzione non è quella di affidare l’amministrazione ad altri enti distanti dal territorio, ma quella di cambiare meccanismi di legge e magari anche classe politica.

Il venir meno di risorse alle Regioni a Statuto speciale non aumenterebbe la disponibilità delle altre Regioni, perché le aumentate competenze che verrebbero contemporaneamente trasferite dalle Regioni a Statuto speciale allo Stato finirebbero per assorbire, forse in modo più che proporzionale, quelle stesse risorse che qualcuno immagina di ripartire tra le Regioni tutte.

Ma torniamo alle Regioni a Statuto speciale, ed in particolare a quella da cui provengo: la Sardegna.

Sono numerosi, in Sardegna, i documenti politici e le prese di posizione che hanno caratterizzato il recente dibattito sulle ripartizioni di poteri tra Stato e Regione, o, se possiamo permetterci, tra Stato e Nazione, dato che, secondo i criteri più diffusi di definizione del concetto di “Nazione”, la nostra isola può tranquillamente affermare di rientrare in questa categoria. Appare chiaro a tutti, dai contenuti del dibattito in atto, che i sardi giudicano ampiamente insufficienti le attuali attribuzioni di poteri conferiti alla Sardegna dalle leggi vigenti, nonché dalla loro spesso discutibile applicazione; per questo ci troviamo nella paradossale situazione in cui, mentre ci accingiamo a chiedere più autonomia, arriva qualcuno che, senza tanti complimenti, ma con una esemplare arroganza, propone di sfilarci da sotto il naso anche quella poca autonomia attuata grazie alla nostra carta fondamentale.

Anche fra i giuristi si discute se una riforma delle autonomie speciali che di fatto potrebbe ridurle ad poco più di un fantoccio simbolico potrebbe essere approvata contro il volere del soggetto Regione Autonoma.

Durante le audizioni svoltesi di recente presso la Commissione bicamerale per le Questioni Regionali, sul tema delle autonomie regionali, tanti esperti invitati (per lo più docenti di diritto costituzionale) hanno sottolineato la necessità della considerazione di tipo pattizio l’insieme di norme che riguardano le specialità regionali.

C’è chi dice che dal 1948 siano venuti meno i motivi degli Statuti speciali.

Non mi pare che in Trentino Alto-Adige si sia cessato di parlare in Tedesco ed in Ladino. In quella Regione il riconoscimento dell’Autonomia è persino precedente alla stessa costituzione (con l’accordo De Gasperi – Gruber), mentre in Sicilia (con il Parlamento più antico d’Europa) lo Statuto preesisteva alla Costituzione. Come si fa ad “adeguarli” ad una riforma costituzionale, come se fossero un qualsiasi articolo della stessa?

E la Sardegna? Sono venuti meno i motivi della specialità?

Io ho provato a guardare la cartina geografica.

L’ho capovolta, girata e rigirata, ma la Sardegna, ve lo assicuro, continua a rimanere staccata dalla penisola italiana.

Ho anche provato a scrutare, dall’aereo, per vedere se qualche lingua di terra avesse per caso prosciugato una porzione di Tirreno, riunendo in un territorio contiguo Sardegna ed Italia: niente, il mare è sempre là.

E’ difficile trovare, in tutto il mondo, isole della dimensioni e con la popolazione della Sardegna che siano gestite dallo stato di appartenenza senza una qualche forma di autonomia per adattare la legge alla condizione di insularità.

Casi di autonomie esistenti in Europa si riscontrano in Finlandia, Francia (Corsica e territori d’oltre mare), Portogallo (Madeira), UK (Scozia, Galles, Nord Irlanda), Spagna (Catalogna, Paesi Baschi e Galizia). Trovatemi in Europa un’isola grande e popolosa come le nostre Sardegna e Sicilia che non abbiano forme di autonomia speciale!

Del resto se la costruzione di una strada in Toscana può essere utile anche ai Liguri che dovessero recarsi nel Lazio o ai Piemontesi che volessero andare in Campania, e dunque può avere un senso prendere le decisioni del caso a livello nazionale, che senso ha decidere a Roma quali strade vanno fatte in Sardegna, quali fonti energetiche dovremmo utilizzare in Sardegna, visto che questo non interferirebbe con analoghe decisioni nella penisola?

Dalla nascita della civiltà, la Sardegna ha dovuto subire dominazioni di ogni tipo e solo per una casualità della storia si è ritrovata a far parte di uno stesso stato con la repubblica italiana: ma nonostante il susseguirsi di innumerevoli dominazioni straniere la nostra terra è sempre riuscita a mantenere forme di autodeterminazione locale; a cominciare dalla sua lingua, molto più antica di quella italiana e dalla sua cultura, che affonda le radici nelle prime forme di architettura evoluta nell’Europa mediterranea, oltre 3500 anni orsono.

Che ruolo ci aspetta? Ancora quello del passato, che ha visto la maggior parte dei boschi della nostra isola brutalmente eliminati per approvvigionare di legna la penisola?

O quello di fornitrice di uomini-carne da macello in attività militari come la carneficina della prima guerra mondiale di cui ricordiamo i tristi racconti di Emilio Lussu in “Un anno sull’altipiano”?

O come preda di affaristi e cementificatori di coste?

Io credo che una terra come la Sardegna, che oggi come da sempre può chiamarsi Nazione, che per casualità storiche fa parte dello stato italiano, meriti un rapporto con questo stato con la dignità che gli diede la costituzione del 1948!

La Sardegna è una Nazione con sue forti peculiarità e lo testimonia la nostra bandiera, molto più antica di quella italiana, riconosciuta in tutta Europa; una testimonianza della nostra esistenza e del nostro essere, che non può essere semplicemente “adeguato previa intesa” a identità lontane storicamente e geograficamente da noi! Em a bolli donai a sa chi arrapresentat su guvernu sa bandera nosta. Speru diaderus chi s’Arreforma de bosàterus sperefundada siat e aici puru is crecus de unu merixeddu schinnitzosu. Voglio regalare, a chi rappresenta il governo, la nostra bandiera. E spero che la sua e della vostra riforma autoritaria fallisca miseramente come meritano le ambizioni di leader capriccioso.