La nuova questione sarda, di Pietro Soddu.

Il contributo che pubblichiamo è il testo integrale della Relazione tenuta nel Convegno: “Regionalismo costituzionale e sviluppo. Un tema per la scuola” – Cagliari 20/01/2014 T Hotel_ promosso da “Associazione ex Parlamentari della Repubblica Coordinamento regionale della Sardegna” presieduta da Giorgio Carta (ndr).Riprendiamo l’importante saggio dal sito  sardegnasoprattutto / 27 febbraio 2014.

«Con il termine “Questione sarda” la storiografia e la politica indicano il complesso di squilibri, disuguaglianze, di problemi che sono riferibili alla Sardegna in relazione al vasto mondo che la circonda, ma in particolare alle condizioni generali del Paese e ai rapporti con lo Stato. Storicamente essa ha inizio con il passaggio della Sardegna ai Savoia». « L’espressione “questione sarda” così pregnante di significato e di protesta sarebbe stata coniata soltanto nel 1865 in un articolo di G. B. Tuveri». Così inizia il paragrafo che tratta il tema “Questione sarda” nella “Grande Enciclopedia della Sardegna” curata da Manlio Brigaglia.

 

1) Anche se non aveva questo nome, la storiografia spiega che la questione sarda si era venuta formando sin dal secolo XVII e aveva trovato una certa attenzione nella seconda metà del 700 nel riformismo del Ministro piemontese Bogino, e poi nell’800 nella legge sulle chiudende, nella soppressione, ultima regione in Europa, del feudalesimo e, infine, in maniera molto più radicale nella cosiddetta “perfetta fusione” del 1847, che sancirà la fine dell’autonomia di cui godeva da secoli il Regno di Sardegna. Com’è detto sempre nella voce dell’Enciclopedia, «la classe politica sarda non aveva la consapevolezza dell’esistenza di una specifica identità sarda». I governi liberali, prefascisti e lo stesso fascismo si limitarono ad affrontare i problemi della Sardegna attraverso interventi finanziati con leggi speciali ma senza una visione globale unitaria e senza la componente culturale e politica identitaria la quale, anche se emersa nel primo dopoguerra, fu riconosciuta solo con la nuova Costituzione repubblicana, con l’Autonomia speciale e l’impegno di un intervento organico dello Stato e della Regione previsto nell’art. 13 dello Statuto che recita testualmente: «Lo Stato con il concorso della Regione dispone un piano organico per favorire la rinascita economica e sociale dell’isola».

 

Nonostante questo riconoscimento, come tutti sappiamo, la “questione sarda” non venne subito in primo piano nelle prime esperienze dell’Autonomia, ma divenne centrale solo alcuni anni dopo la nascita della Regione. I primi programmi esecutivi del piano previsto dall’art. 13 ebbero infatti attuazione solo a metà degli anni ’60. Da allora senza attendere i risultati, secondo la nostra antica tradizione, nella politica sarda si sviluppò un dibattito dominato dalla tesi del “fallimento della rinascita”, tesi arrivata senza revisioni fino ad oggi. L’espressione “questione sarda” mantiene ancora la sua forza evocativa ma risulta incompleta e distorta perché non è stata rivisitata alla luce dei cambiamenti intervenuti soprattutto nel corso degli anni ’60-’70 del secolo scorso.

 

Aldilà delle problematiche geografico – economiche derivanti dall’essere un’isola, la condizione generale della Sardegna non è più quella segnata dall’accantonamento, dalla miseria, dalla malaria, dall’analfabetismo, dalla carenza di strutture civili nel campo della scuola, della sanità, della viabilità, dei trasporti marittimi; non è più terra di banditismo; non è più solo la società del malessere; non c’è più l’emigrazione di massa, la proprietà assenteista, il conflitto pastori – contadini e città – campagna. Le condizioni della Sardegna sono cambiate e in larga misura non sono diverse da quelle delle altre regioni italiane anche se restano non piccole differenze nel reddito individuale e soprattutto nelle strutture produttive agricole e dell’industria manifatturiera. La Sardegna ha ancora problemi antichi non risolti e una condizione sociale che alimenta il disagio che chiamiamo “questione sarda”, che ci distingue dalle altre parti del paese per le condizioni politiche, sociali, culturali anche all’inizio del III millennio.

 

Da anni, purtroppo, ci misuriamo con questi problemi senza riuscire a scegliere un percorso comune, senza riuscire a definire un programma di azione capace di avviare un nuovo progetto, una nuova fase di sviluppo e di riforme dopo l’esperienza molto criticata, spesso a sproposito, della Rinascita. È arrivato il tempo di cambiare atteggiamento e non rimanere prigionieri delle vecchie polemiche e dei vecchi schemi che vedono ciascuno di noi attestato su posizioni che sono ancora quelle degli anni ’70 quando si discuteva a pochissimi anni dall’inizio del Piano di Rinascita, come ho già detto, del suo fallimento e della necessità di adottare un nuovo modello di sviluppo più strettamente collegato con le risorse e le vocazioni locali. Per affrontare efficacemente la “nuova questione sarda” bisogna, almeno secondo me, partire dal rivedere posizioni consolidate e le facili improvvisazioni come quella che considera la nostra condizione molto diversa da quella delle altre Regioni d’Italia e d’Europa. Questo non vuol dire che la Sardegna sia del tutto uguale alle altre regioni ma che dobbiamo individuare con più chiarezza ciò che rende la nostra condizione diversa e specifica rispetto alle altre.  Cercherò perciò di descrivere prima il quadro generale che ci accomuna agli altri, per poi concentrarmi su ciò che secondo me caratterizza in modo specifico “la questione sarda”.

 

2) Dalla nascita della Regione e dal varo del Piano di Rinascita sono passati decenni e il mondo è cambiato, e anche noi siamo cambiati ma i pregiudizi e le contrapposizioni, le accuse e le critiche sono sempre le stesse. Mentre noi siamo fermi nei vecchi miti, il tempo scorre inesorabile e modella senza preoccuparsi di noi il mondo che ci circonda e anche la nostra realtà costringendoci a subire passivamente tendenze e soluzioni che magari non condividiamo, critichiamo, denunciamo ma poi ci rassegniamo a subire limitandoci a gridare contro tutti coloro che deciderebbero per noi profittando delle nostre debolezze e delle nostre divisioni. La colpa è sempre di qualcun altro e noi siamo le vittime incolpevoli dell’avidità, della forza, dell’arroganza o dell’indifferenza di tutti coloro che dovrebbero prendersi cura di noi e che invece sospettiamo ci sfruttino senza alcun riguardo. Io non credo che sia così o meglio non credo che sia solo così. Le cause della crisi stanno anche in non piccola parte nel nostro ritardo, prima nel non prendere coscienza della realtà e poi nel non decidere ciò che è necessario per farci uscire dall’inerzia e dalla paralisi che ci tiene prigionieri. Il futuro non è tutto nelle nostre mani. Ma se non tutto una parte significativa di esso dipende da ciò che noi faremo, da ciò che saremo capaci di progettare e realizzare, da come ci inseriremo nel processo di cambiamento in corso nel mondo, da come riusciremo a difendere i caratteri della nostra cultura, da come riusciremo a essere ancora padroni dei beni comuni, terra, acqua, mare e cielo; dal tasso di libertà e di autogoverno di cui disporremo per difendere e valorizzare anche, e forse soprattutto, l’universo dei beni immateriali che costituiscono il nostro patrimonio identitario senza il quale saremo inevitabilmente travolti dalla forza degli elementi presenti nella seconda modernizzazione.

 

La “questione sarda” va considerata innanzi tutto nella sua interezza che è in parte antica e in parte nuova. La parte antica è quella che conosciamo meglio perché la viviamo ancora tutti i giorni nelle difficoltà materiali. Essa è fatta di tante carenze, di assenze e di ritardi; è fatta di strutture materiali inadeguate nel campo della salute, dell’istruzione, dei trasporti, dell’energia, della cultura; è fatta di carenze nell’attività amministrativa, di lacci e laccioli, di strutture sociali troppo rigide, di clientelismo, di paternalismo, di assenza di parità. È costituita cioè dalla permanenza di una parte dei vecchi fattori negativi del passato. Ma la “questione sarda” oggi non si esaurisce nei tradizionali elementi di debolezza strutturale che ci trasciniamo si può dire dall’origine della nostra storia a cominciare dall’insularità. È diventata più complessa e va vista, esaminata e affrontata tenendo conto del quadro generale, delle forze e delle tendenze che stanno prevalendo nel mondo e che investono anche noi con una violenza mai prima conosciuta. La Sardegna infatti non è più un universo chiuso, i suoi confini si sono aperti e niente ci separa o ci difende dagli influssi esterni. Immaginare, come talvolta facciamo, che sia tutta colpa degli altri, dei poteri esterni, che basti mettere argini, impedire l’arrivo e l’affermarsi di ciò che vive nel mondo esterno, rinchiuderci nel nostro universo per non essere costretti a fare i conti e se necessario a cambiare le nostre convinzioni e le nostre abitudini non solo è inutile, ma non è più possibile, ammesso che un tempo lo sia stato. Dobbiamo prendere atto che dobbiamo fare meglio la nostra parte, dobbiamo vivere, confrontarci, competere, misurarci con tutte le forze in campo in Europa e nel mondo.

 

Forse non ci siamo preparati in tempo o forse abbiamo utilizzato male le occasioni e gli strumenti che abbiamo avuto a disposizione durante tutti gli anni dell’Autonomia, nel breve e intenso periodo della “Rinascita” e soprattutto dopo quando si è interrotto il processo e non si sono visti in tempo i pericoli, le nuove difficoltà. Bisognerebbe riconoscere che forse abbiamo sbagliato a bloccare anzitempo le trasformazioni avviate con la Rinascita, facendola diventare con il passare degli anni una sorta di mito rovesciato, come se fosse stato possibile in pochissimi anni mettere tutto in ordine secondo le nostre aspettative e le nostre speranze e che ciò non è avvenuto solo per aver sbagliato gli investimenti o per non aver fatto quello che sarebbe stato decisivo  per il futuro e ci avrebbe tolto da tutti i guai, passati e futuri, ci avrebbe sollevato dalle fatiche, ci avrebbe assicurato una via di successo ininterrotto, ci avrebbe affrancato dai pericoli e dai sacrifici che abbiamo conosciuto, che conosciamo e conosceremo ancora. Ma è giusto così? possiamo continuare a girare il coltello nella ferita auto inferta e rimanere fermi nel  giudizio tutto negativo sul passato senza fare le opportune revisioni prima di assumere decisioni per il futuro? Io penso di no, ho sempre pensato che dalle vecchie polemiche bisognasse uscire giudicando più correttamente il passato per affrontare il nuovo tempo, considerando luci e ombre, successi e insuccessi, speranze e illusioni, scelte giuste e sbagliate delle precedenti esperienze, ma affrontando i nuovi problemi sociali, economici e politici che oggi dominano il nostro tempo correggendo le distorsioni e le valutazioni sbagliate del passato, ma non condannando tutto.

 

3) Proverò perciò a trattare “la questione sarda” tenendo conto delle esperienze compiute alla luce delle tendenze del futuro, di un futuro, peraltro abbondantemente e spesso pesantemente presente già ora nella nostra realtà, che come già detto, non è più quella degli anni ’80, anche se già allora molti degli elementi che compongono l’attuale quadro istituzionale e molti dei fattori che oggi dominano la struttura socio-economica e culturale erano già presenti, a cominciare dagli elementi che hanno causato la crisi che ha investito i partiti, le organizzazioni collettive, l’economia, la vita della società e delle istituzioni e in definitiva l’intero campo della politica, come emerge dalle cronache dei convegni, dagli articoli sui giornali e riviste, dalle pubblicazioni monografiche e soprattutto dai dibattiti politici nelle sedi del Consiglio regionale prima e poi del Parlamento. Ricordo in particolare che tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli ’80 la crisi dell’Autonomia era arrivata al punto tale da portare la Dc, il Psi, il Pci, il Psd’Az e il Psdi, cioè tutti i partiti autonomisti a cercare di costruire un’alleanza di governo incentrata proprio sulla riforma dello Statuto e sul rilancio dell’Autonomia, superando a questo fine le contrapposizioni ideologiche e le distinzioni maggioranza-opposizione. Il patto di unità autonomistica, come fu chiamato il tentativo di varare questa larghissima alleanza, non ebbe esito felice, ma la tematica rimase in campo con tutta l’urgenza, il vigore e la drammaticità della crisi della società sarda in tutte le sue componenti. Sempre su questa linea la seconda esperienza che ritengo molto importante e significativa è una vicenda parlamentare.

 

All’inizio degli anni ’80 la delegazione sarda aveva assunto l’impegno di operare senza distinzioni tra appartenenti alla maggioranza di governo o all’opposizione quando fossero stati in campo gli interessi fondamentali della Sardegna. Sulla base di questo impegno si verificò al momento della presentazione del primo governo presieduto dall’On. Bettino Craxi un episodio molto significativo. I deputati appartenenti ai partiti del centro-sinistra, constatato che il Presidente del Consiglio aveva ignorato nelle dichiarazioni programmatiche le questioni riguardanti specificatamente la Sardegna, chiesero a Craxi di recuperare gli argomenti della riforma statutaria  e della crisi industriale in sede di replica, facendo presente che a questo impegno era legato il loro voto di fiducia. Un po’ brutale forse ma efficace perché Craxi mantenne l’impegno, dichiarando la disponibilità del governo a negoziare con la Regione sarda le linee fondamentali di una Riforma statutaria e allo stesso tempo a ricercare e adottare insieme le azioni e gli interventi necessari a bloccare la crisi della grande industria e avviare nuove iniziative nei campi delle infrastrutture, dei trasporti, dell’ordine pubblico e in tutti gli altri campi di competenza statale o di competenza mista statale-regionale.

 

Il problema della riforma Statutaria fu oggetto di attenzione anche della Commissione bicamerale per le Riforme presieduta da Nilde Iotti, della quale sono stato uno dei vicepresidenti. Nonostante le tendenze prevalenti nella pubblicistica e nonostante le spinte all’equiparazione tra regioni speciali e ordinarie nei documenti conclusivi sulla forma di Stato venne confermata la formula della Specialità e anche la possibilità del suo ampliamento. Sempre sul versante delle riforme statutarie, ci sono stati successivamente per iniziativa del governo o di singoli parlamentari altri sviluppi che la Regione sarda ha recepito passivamente. Tra le iniziative parlamentari c’è stata l’attribuzione alla Regione della materia relativa all’ordinamento degli Enti locali, attraverso una legge costituzionale presentata dall’On. Caveri (valdostano), dall’On. Acciaro e da me. Invece su iniziativa del governo c’è stata la riforma in senso presidenziale della legge elettorale che ci ha allineato alle regioni ordinarie. Non sono dunque mancati cambiamenti anche significativi. È mancata invece totalmente l’iniziativa diretta della Regione, con l’unica importante eccezione della revisione del Titolo III dello Statuto portata avanti dalla Giunta Soru con determinazione e successo anche se l’esito rimane vulnerabile dal momento che tutto può essere rivisto e rimodellato con legge ordinaria anche solo su iniziativa unilaterale del governo e ciò può mettere a rischio la qualità dell’assistenza sanitaria e di altri settori importanti trasferiti interamente nel bilancio della Regione. La Regione è rimasta assente sempre, anche in occasione della riforma del Titolo V della Costituzione limitandosi ad esprimere una adesione generica alla un po’ improvvisata visione neofederale. Solo recentemente c’è stato un risveglio di interesse che ha portato il Consiglio a partecipare con apposita proposta alla riforma che riduce da 80 a 60 i Consiglieri regionali.

 

4) L’insieme dei provvedimenti che ho sommariamente ricordato, ha da un lato aumentato le competenze ma ha anche ridotto di molto le differenze tra regioni ordinarie e speciali. ha consentito alla Regione sarda di non rimanere troppo ferma su posizioni ormai superate ma ha messo a nudo e reso più urgente l’esigenza di procedere a una revisione e riordino dell’intero sistema attraverso una riforma di vasto respiro da negoziare con lo Stato. La riforma dell’attuale Statuto non è diventata inattuale, anzi resta uno degli elementi più importanti perché le questioni che negli anni ’80 erano solo pericoli, tendenze, lesioni occasionali o incidentali nel 2014 sono diventati fatti compiuti, danni gravi, violazioni consolidate, che hanno causato una sostanziale e grave perdita del ruolo della Regione.  Questo sul piano istituzionale e costituzionale. Se poi si guarda al fronte economico-sociale, l’assenza di organiche iniziative da parte della Regione appare altrettanto se non più grave. La crisi, incombente negli anni ’80, è diventata cronica e ha investito l’intero apparato produttivo, ha favorito un decremento demografico, ha alimentato una forte disoccupazione, ha innescato un processo di decrescita che coinvolge l’intero universo economico e sociale.

 

La “questione sarda”  ha in entrambi questi campi le sue manifestazioni più evidenti ma non si esaurisce in esse. Il discorso si è fatto più impegnativo e di più larga portata, profondità ed estensione. Alle ragioni che conosciamo da tempo si sono aggiunti gli elementi che hanno segnato il passaggio della società, dell’economia e della politica dal XX al XXI secolo. Alcuni tratti del cambiamento erano già presenti negli anni ’80 e ’90 del secolo scorso, ma in misura ancora abbastanza marginale. Oggi essi dominano oltre la scena mondiale anche quella sarda, anch’essa contrassegnata da una nuova costellazione di forze, idee, valori, principi, tendenze e comportamenti con i quali bisogna fare i conti se si vuole dare uno sbocco positivo reale e non solo formale all’universo di problemi che continuiamo ancora a chiamare “questione sarda”. Bisogna prendere atto che il quadro non è più quello che abbiamo conosciuto alla fine del secolo scorso. Sarebbe sbagliato sottovalutare le novità che esso presenta. Molte cose sono confuse e in fase di ulteriore trasformazione, ma le tendenze di fondo sono ormai consolidate e investono l’intera società in tutte le sue manifestazioni e in tutte le componenti sociali, economiche, culturali, politiche e persino religiose.

 

5) Tutto è in movimento anche qui in Sardegna, ma la politica non sembra esserne del tutto consapevole. Ho già avuto modo di esprimere le mie valutazioni qualche anno fa nel volume titolato “Autunno dell’Autonomia”  e ne cito qualche passo: «la Sardegna si affaccia al XXI secolo assolutamente impreparata a far fronte alle sfide della seconda modernizzazione e alle forze della globalizzazione. Non ci sono né istituzioni, né regole, né strumenti pubblici e privati sufficientemente attrezzati per competere alla pari con i gruppi e le idee dominanti. Non ci sono progetti, programmi e politiche in grado di porre i sardi in condizione di partecipare ai processi di trasformazione invece di assistere da spettatori alla progressiva emarginazione dell’isola e persino alla progressiva cancellazione dei suoi tratti identitari. La Sardegna sopporta purtroppo senza reagire l’erosione del patrimonio di beni materiali e immateriali e la radicale trasformazione dell’habitat naturale, del territorio, del paesaggio, della lingua, dei costumi e delle tradizioni sociali. Subisce passivamente l’urto della tecnologia e dei media. Assiste impassibile all’invasione aggressiva e rapace delle forze economiche di un mercato lasciato a sé stesso. Tutto questo avviene sotto gli occhi di tutti in un clima di fatalistica indifferenza.

Le denunce, le analisi, gli appelli preoccupati dei settori più sensibili dell’opinione pubblica non trovano risposte adeguate da parte delle istituzioni, a loro volta fortemente indebolite nella fiducia popolare. Allo stesso tempo aumenta la dipendenza e diminuisce l’autonomia in tutti i campi. La Sardegna ha perso in questi ultimi anni il controllo del suo apparato bancario, e del proprio sistema informativo e comunicativo, ha visto progressivamente indebolirsi la peculiarità delle forze politiche e di quelle sindacali nonché la specificità delle sue strutture economiche. Più in generale, l’intero tessuto delle relazioni sociali è radicalmente cambiato in parallelo con le trasformazioni del sistema di valori fondato sulla famiglia, sulla chiesa e sulla classe di appartenenza; sono cambiati, infine, i rapporti tra ceti e persino tra genitori e figli e sono venuti meno i fattori di coesione sociale che assicuravano la pacifica convivenza e la solidarietà comunitaria.

Tutto ciò che cambia si muove in direzione di una più dura e più vasta dipendenza. Nel campo economico dominano l’incertezza e la imprevedibilità crescente. […] Assistiamo impotenti al processo di svuotamento di larga parte dei territori interni e allo spopolamento dei piccoli centri senza che nessuno riesca ad individuare alternative efficaci al di fuori di generiche ripetute richieste di interventi infrastrutturali. Diminuisce a tutti i livelli la partecipazione alla vita politica; crolla il senso di appartenenza e cresce l’influenza della politica demagogica e populista. […]. La politica regionale si trova dunque di fronte a compiti e ostacoli molto più diversificati e complessi di quelli del passato. Non solo perché molti fenomeni non sono governabili in sede locale, ma anche perché tutto è reso più difficile dalla contraddittoria esigenza di conciliare le domande di sviluppo intenso e ininterrotto con le ragioni della conservazione ambientale e della sostenibilità sociale, cioè con le ragioni stesse dell’identità. Questo, in sostanza, è il nodo più difficile davanti al quale si trova la politica regionale. Nel passato anche nei momenti di massima trasformazione la libertà e l’autonomia non sono state debilitate dallo sviluppo. L’esperienza della rinascita è stata letta in tanti modi, ma nessuno ha mai dimenticato il contenuto della formula “più libertà = più sviluppo”; nessuno ha messo in dubbio il valore aggiunto rappresentato dall’autogoverno nel processo di modernizzazione della società sarda. […].

Oggi, la Sardegna come tante altre regioni periferiche dei mondo è molto più esposta di ieri ai rischi di indebolimento dei suoi valori comunitari, della sua specificità identitaria e con essa della sua stessa libertà. Il problema fondamentale che oggi si pone alla politica regionale con più urgenza di ieri è dunque quello di conciliare sviluppo e libertà. L’abbinamento non è affatto scontato. Anzi, con l’avanzare della globalizzazione e con l’affermarsi anche in Sardegna di poteri non più sottoposti alle norme nazionali e regionali, tutto va nella direzione opposta: va, cioè, verso una riduzione degli ambiti di autonomia, di sovranità e di potere decisionale degli individui dei soggetti collettivi e delle istituzioni politiche in tutti gli ambiti della vita economica e della vita civile. […] ».

 

6) Il quadro di fondo è ancora questo ma più grave e più confuso e di più difficile lettura. La Sardegna è sempre più immersa nel caos (non un caos calmo come il titolo di un recente romanzo di successo), ma in un caos agitato, che ci avvolge e ci snerva con un interminabile susseguirsi di tentativi, ipotesi e proposte di innovazione e riforma in tutti i settori. Siamo in pieno smarrimento e proviamo difficoltà a trovare la strada per uscire dal labirinto nel quale ci siamo perduti. A volte sembriamo così confusi da non sapere più chi siamo, dove siamo né dove andiamo. Non siamo più sicuri di essere sardi, italiani ed europei, figli di una storia, una cultura e una civiltà mediterranea, greco-romana e cristiana, eredi legittimi del Rinascimento e del Risorgimento. Non consideriamo particolarmente importante e tantomeno definitivo e immodificabile l’essere cittadini liberi di uno Stato democratico fondato su una Costituzione molto avanzata che riconosce le specificità e le diversità storiche, culturali, geografiche, linguistiche, al cui centro sta la persona umana con i suoi diritti fondamentali tra i quali la sovranità popolare, l’uguaglianza e la solidarietà. Siamo inquieti, continuiamo a cercare vere e più autentiche origini, più significativi passaggi della storia, confutiamo le ragioni dell’essere di diritto o di fatto cittadini di quella più grande nazione italiana della quale siamo parte da trecento anni per non dire del tempo più antico che ci vide con Roma uniti all’Italia e all’Europa per più di dieci secoli.

 

La prima cosa da fare per uscire dal caos sarebbe di decidere se siamo ancora italiani ed europei, se ci riconosciamo appartenenti a una storia e a una matrice culturale comune che unisce in un unico destino tutti i popoli che compongono l’Unione europea che hanno combattuto a lungo e più volte l’uno contro l’altro per la supremazia e il dominio, ma che non possono non riconoscersi figli di una cultura comune e collegati a un comune destino. Essere sardi, italiani ed europei, non esclude che ci consideriamo cittadini del mondo, né ci impedisce di condividere una sempre più forte integrazione pur nella distinzione delle specificità di ciascuno, né di lavorare perché queste specificità non siano cancellate ma rafforzate nella loro originalità che non contraddice e non si oppone a una comune dimensione europea e mondiale, che non possiamo non considerare determinante per garantire un futuro di pace e uno sviluppo più equo e sostenibile a tutte le parti, soprattutto a quelle più deboli. Il compito non è facile anche perché la politica non ha più l’energia e la forza di prima. Il passaggio dalla “democrazia dei partiti” alla “democrazia pubblica”, alla politica spettacolo, al consumo quotidiano dell’annuncio e dai partiti ideologici di massa ai partiti personali e carismatici, dai programmi pluriennali di sviluppo agli interventi congiunturali, assunti volta per volta ha modificato l’intero universo della vita politica, sociale ed economica rendendolo sempre più confuso e precario.

 

A questo si aggiunge l’assenza di una nuova teoria generale capace di guidare le scelte politiche, assicurare la permanenza (nel variare delle mode, dei costumi e delle preferenze del mercato), dei principi democratici fondamentali, garantire l’esercizio della piena sovranità popolare, la diversità delle culture, delle lingue e dei paesaggi, assicurare cioè la permanenza dei principi universali e dei diritti fondamentali contenuti nella Costituzione repubblicana. Mentre si parla molto di rafforzare la governabilità, si discute troppo poco degli indirizzi politici generali e dei programmi da porre alla base delle attività di governo. Si ignorano o si sottovalutano i problemi delle aree deboli, dei ceti più disagiati, si comprimono le minoranze, alle quali viene negata persino una minima rappresentanza nelle sedi istituzionali. L’eguaglianza è fortemente criticata, la solidarietà messa in discussione, la fiscalità progressiva negata; un destino di marginalità colpisce duramente il lavoro e i lavoratori, abbandonati in balia del mercato e alla buona volontà delle imprese, diventate le uniche protagoniste della vita produttiva. Mercato e impresa sono le altre due parole magiche del momento che si aggiungono alla globalizzazione e alla governabilità.

 

Molti dei principi della democrazia parlamentare vengono invece ignorati e messi da parte. Il destino di una terra come la Sardegna e di una società come quella sarda, da quando lo sviluppo è stato lasciato interamente alle tendenze del mercato e alle esigenze delle imprese (rivelatesi incapaci di conoscere e persino di adeguarsi alle tendenze dominanti e tantomeno a limitarne gli effetti negativi sui singoli territori e sui vari comparti dell’economia) è diventato sempre più incerto ed esposto a crisi che possono diventare irreversibili. Lo sviluppo non può essere infatti affidato solo al mercato e alle imprese. Esse comunque operano in una società, in un ambiente, in uno Stato. Hanno bisogno di leggi, infrastrutture, riconoscimento, rispetto, collaborazione, rapporti costruttivi, implementazioni di vario genere, a cominciare dalla scuola e dalla formazione professionale. Hanno soprattutto bisogno di un clima sociale dinamico e a volte anche conflittuale che non esclude una fruttuosa collaborazione tra i due fattori fondamentali – capitale e lavoro – ma fa in modo che l’uno non umili l’altro.Il mercato non assicura di per sé, qualsiasi cosa dicano i suoi più accesi sostenitori, un giusto livello di occupazione, non garantisce spontaneamente il raggiungimento di una condizione sociale accettabile di libertà, di lavoro, di accesso ai servizi, e pertanto ci dovrà essere qualcuno che si fa carico di questi problemi.

 

7) La condizione attuale è dunque una condizione di crisi più generale di quella economica. È crisi della società, dell’economia, della politica, delle istituzioni, crisi dello Stato, dei partiti, dei sindacati, della Regione, dei simboli, del linguaggio, della rappresentanza, della governance. Come spesso sentiamo dire, siamo di fronte ad un passaggio epocale. Molte cose che sembravano immutabili sono già cambiate o stanno rapidamente cambiando, a volte traumaticamente. Valori, istituzioni, principi, costumi, credenze, regole, tutto è in movimento e il movimento coinvolge, la politica, coinvolge la lealtà alla Costituzione, il senso di appartenenza, erode la coesione sociale e rende più difficili da sopportare le condizioni dei ceti sociali più deboli. Tutto ciò che compone la realtà ci obbliga ad aggiornare  le analisi e le politiche degli ultimi trent’anni. Non si tratta più soltanto di attuare lo Statuto, di difendere l’Autonomia, di riformare l’Amministrazione. Si tratta di individuare le nuove forme di sovranità necessarie per governare, anche aggiornando i progetti elaborati alla fine del secolo scorso.

 

Qualche anno fa per sintetizzare la natura della riforma statutaria avevo usato la formula “più sovranità e meno autonomia”. Questa formula ha bisogno di essere specificata meglio e articolata in modo da rispondere alle domande del nuovo tempo, tenendo conto che non siamo più all’inizio di un processo, ma siamo al centro di esso e pienamente coinvolti nei cambiamenti in corso nel mondo. Il ritardo che aveva caratterizzato la storia della Sardegna da tempo non è più la condizione dominante ma lo può ridiventare. L’isolamento e l’accantonamento possono ripresentarsi molto presto e drammaticamente se non si provvede tempestivamente e con molta determinazione a imboccare la strada delle riforme costituzionali e socio-economiche di cui parliamo da tempo ma senza riuscire a raggiungere gli accordi necessari. Non si tratta di un’impresa facile perché richiede un ripensamento profondo degli orientamenti che dominano il campo dagli anni ’70-’80; occorre rimettere in discussione da una parte le posizioni che hanno contestato in maniera radicale l’esperienza della Rinascita e dall’altra gli strumenti usati per colmare il ritardo storico; occorre riconoscere che siamo usciti dall’accantonamento, che abbiamo tentato con qualche successo di diventare protagonisti del nostro destino, e titolari del potere di orientare le scelte in campo sociale ed economico, ed essere sovrani del nostro patrimonio territoriale, storico, linguistico, ma anche che ci sono stati errori, distorsioni, forzature che hanno inciso negativamente sul contesto sardo.

 

La classe politica sarda non ha capito la portata della sfida e non ha insistito abbastanza nel proseguimento di ciò che costituiva la più ambiziosa finalità immateriale della “Rinascita” : cioè quello di riuscire nell’impresa di far diventare il popolo sardo responsabile del proprio destino, titolare legittimo del potere democratico, dell’autogoverno, garante della piena fruizione da parte di tutti dei diritti fondamentali, ma anche custode dei principali caratteri dell’identità, autore del cambiamento e allo stesso tempo produttore delle risorse necessarie a conseguire il pareggiamento delle condizioni di vita dei cittadini sardi rispetto agli altri cittadini italiani.  Per queste ragioni prima di riavviare un nuovo corso sarebbe utile, anzi posso dire  necessario riaprire una riflessione su questi punti perché non sempre questi aspetti sono stati compresi nella loro importanza, e anzi quasi sempre queste finalità sono state oscurate o assorbite dalle polemiche sul modello di sviluppo economico da cui poi è scaturito il termine molto efficace ma poco rispondente alla realtà di “fallimento della Rinascita”, e di conseguenza il fatto che la pubblicistica in campo politico, sociale ed economico si è sviluppata solo sulla parte materiale del piano, sulle insufficienze dell’industrializzazione lasciando in ombra tutto il resto, che invece era ed è essenziale per capire il grande cambiamento realizzato dalla Rinascita senza per questo ignorare le lacune, le distorsioni, gli squilibri, le “catastrofi” verificatesi in certe parti del tessuto dell’isola. Non si può capire la Sardegna di oggi, non si può definire adeguatamente la “nuova questione sarda”, senza una rivisitazione generale, attenta, scrupolosa ed oggettiva dell’esperienza complessiva della Rinascita. Essa infatti ha segnato il passaggio epocale della società sarda alla modernità, ha riunificato i sardi, ha dato loro la possibilità di riconoscersi, di riconciliarsi, di organizzarsi, di diventare un popolo consapevole dei propri diritti, impegnato a costruire un sistema democratico di autogoverno, che lo doveva trasformare da suddito in protagonista libero e responsabile delle scelte fondamentali in materia di beni comuni, di sviluppo e di diritti fondamentali.

 

Bisogna scoprire perché invece di operare le giuste correzioni si è persa la strada, si è bloccato il processo di modernizzazione, si è smesso di guardare la Sardegna nella sua unità sociale, economica, politico-culturale, come si era riusciti a fare all’inizio e per i primi anni dell’esperienza del piano. Senza questa profonda riflessione sarà difficile costruire una nuova visione generale, acquisire una chiara coscienza della propria storia, della propria identità, dei propri diritti di popolo; ritrovare la volontà necessaria per gestire responsabilmente l’autogoverno, difendere i beni comuni, orientare lo sviluppo senza violentare la realtà, ma allo stesso tempo senza escludere la Sardegna dal resto del mondo, senza bloccare il processo di modernizzazione, ma restando dentro il flusso del tempo, provvedendo ad aggiornare ogni cosa secondo le esigenze generali e i principi di democrazia e sviluppo, nel rispetto dell’identità e della cittadinanza. Purtroppo da molti anni viviamo la crisi senza riuscire a decidere da che parte andare, cosa fare per entrare nella seconda modernizzazione da protagonisti e non semplicemente da spettatori passivi costretti a subire le scelte di altri.

 

La crisi è davanti ai nostri occhi, tocchiamo con mano la distanza che si apre ogni giorno tra noi e il resto del mondo occidentale, sentiamo l’impotenza del nostro sistema, osserviamo la decadenza dei nostri tradizionali settori produttivi, constatiamo la perdita progressiva del controllo sui nostri beni comuni, assistiamo al prevalere di poteri esterni sempre più arroganti e senza controllo, sopportiamo la decadenza dell’Autonomia e la corruzione della democrazia, ci stiamo abituando a vivere nella crisi dei contenuti e prima ancora dei simboli che fino ad ora avevano orientato la nostra vita. La crisi è ormai evidente in entrambi i campi: nei contenuti materiali, ma anche nel campo dei simboli che segnavano l’identità costituzionale, il senso di appartenenza, la fede nell’Autonomia e nell’autogoverno, la fiducia nella democrazia e nell’uguaglianza. Non c’è campo dove le istituzioni, le rappresentanze e i simboli abbiamo mantenuto intatta la loro forza di aggregazione e appartenenza.

 

Tutto questo è raccontato ogni giorno dai media e nessuno può più nascondere il declino, la decadenza, il regresso e la crisi dell’intero sistema con discorsi ottimistici e propagandistici come l’ultimo della “zona franca integrale”. Non c’è dunque settore, non c’è ambito sociale, non c’è espressione culturale che sfugga alla crisi ma la politica regionale fino ad ora non è stata in grado di affrontare la decadenza del vecchio sistema politico e di riempire il grande vuoto che si è aperto nella società, nelle coscienze e nell’orizzonte di senso che aveva dato motivazioni e ragioni all’azione individuale e collettiva, legittimando istituzioni, partiti, organizzazioni sociali, orientando la militanza, dando obiettivi all’azione politica, fissando regole e principi condivisi e rispettati. La mancanza di un nuovo orizzonte di senso ha cambiato anche il linguaggio, ed è all’origine della confusione di chi tenta di riempire il vuoto con elementi evocativi vaghi e indefiniti che non compensano il deficit nato dalla scomparsa delle vecchie ideologie, dei partiti di massa, delle rappresentanze, delle appartenenze, dei riti collettivi, dei procedimenti democratici e tantomeno suppliscono alle carenze derivanti dalla totale inesistenza di obiettivi di sviluppo condivisi, comprensibili e realistici e perciò realizzabili.

 

Fino al 2003/2004 le parole dominanti erano: inclusione, emancipazione, modernizzazione, uguaglianza, solidarietà, integrazione europea, riforma, sviluppo, autonomia. Oggi le parole dominanti sono sovranità, nazione-stato, indipendenza, impresa, mercato, zona franca, defiscalizzazione, rottamazione. Messe tutte insieme, le più recenti parole d’ordine appaiono l’espressione di una gestazione ancora confusa e incerta tutta affidata a messaggi generici alcuni anche condivisibili, ma che non producono di per sé una politica coerente ed efficace. Le idee sul primato del mercato, quelle sulla centralità dell’impresa oppure quelle di sovranismo e indipendentismo, e quelle più diffuse della rottamazione, della cancellazione dei privilegi della casta, della riduzione del costo della politica, e persino dell’istituzione della zona franca, sono almeno in parte condivisibili ma non sono da sole sufficienti a costruire un nuovo orizzonte ideale e politico, non sono in grado di  fermare la decadenza della centralità dell’interesse generale e del bene comune, non trasformano una società assistita in un soggetto protagonista, e inoltre rischiano di alimentare l’alibi di chi si rifugia nel vittimismo piagnucoloso, nella denuncia di colpe altrui per non fare i conti con sé stesso, con la propria responsabilità e i propri demeriti.

 

8) Per tutte queste ragioni ritengo sbagliato partire da zero e non tener conto delle esperienze compiute. A questo punto mi sembra utile e pertinente riportare quanto ho scritto un anno fa nella post-fazione all’Antologia del quindicinale “Il Democratico”, edito negli anni ’50-’60  dai “giovani turchi”: « […] Negli anni ‘50 del secolo scorso la Sardegna dovette affrontare con la sua complessiva organizzazione istituzionale, politica, sindacale, culturale e sociale un passaggio epocale. Si trattava di passare da una società contadina sottosviluppata, ancora immersa in gran parte nella cultura tradizionale, ad una società moderna, sia nelle strutture produttive che nella politica, nella cultura e nella convivenza civile. Come allora, anche oggi l’intera realtà sarda deve affrontare un passaggio decisivo tutt’altro che facile. Essa mostra segni di logoramento, di obsolescenza e di inadeguatezza, per non dire di declino. L’intera realtà – dai settori produttivi alla vita sociale organizzata, dall’assetto territoriale all’istruzione, dalla formazione professionale all’occupazione giovanile, dalla comunicazione ai servizi sanitari e assistenziali, dagli assetti istituzionali alle strutture amministrative regionali e locali – è in crisi, alla ricerca affannosa e fino ad ora senza esito di una riforma in grado di fermare il declino e avviare una nuova fase positiva.

Per invertire la tendenza negativa occorre fare di più di quanto è stato messo in campo fino ad oggi. Ed anche in questo può essere ancora utile l’esperienza degli anni ’50-’60 che ha rappresentato, come abbiamo cercato di dire, una svolta globale, il passaggio da una fase ad un’altra attraverso un ricambio generale di classe dirigente, un cambio rilevante di paradigma e di orizzonte di senso nella pubblica opinione, un progetto globale di riforma degli assetti produttivi, della pubblica amministrazione, dei partiti, del ruolo delle istituzioni regionali, della programmazione e dell’autogoverno. L’intero progetto si fondava su un’idea di futuro condivisa, sulla fiducia tra rappresentanti e rappresentati sulla speranza che le condizioni di miseria, di sottosviluppo e di arretratezza si potessero cambiare unendo tutte le forze disponibili orientate alla modernizzazione.

Non è difficile constatare quanto sia diversa la situazione oggi. Mentre cresce l’esaltazione delle nostre doti di intelligenza, di creatività, di professionalità antiche e recenti, di originalità e di straordinaria qualità del nostro patrimonio naturalistico, paesaggistico, linguistico e culturale in genere e continua a dominare il campo l’idea delle grandi potenzialità delle nostre risorse e dei nostri saperi, la politica e le istituzioni sembrano scorrere nella direzione del declino e della crisi, che non risparmiano nessun settore della vita materiale e di quella sociale. […]

Tutto porta a concludere che occorre un altro approccio, occorre un altro orizzonte di senso, un altro paradigma generale. In definitiva, occorre un’azione politica che non si fermi a cercare il consenso sui singoli segmenti ma si ponga l’obiettivo di portare la Sardegna il più rapidamente possibile fuori dalla crisi imboccando la strada della seconda modernizzazione. Ciò comporta, com’è naturale nei passaggi fondamentali e come dimostra, ripeto, l’esperienza degli anni ‘50-’60, un generale ricambio della classe dirigente, comporta l’elaborazione della visione generale del ruolo della Sardegna nel mondo diventato globale, comporta una riforma degli strumenti della politica a cominciare dai partiti, rende indispensabile e urgente la riforma del patto che lega la Sardegna allo Stato e all’Europa, richiede una programmazione capace di selezionare le priorità, i tempi e i modi di attuazione degli interventi, richiede l’ancoraggio a una visione universalistica che leghi la conservazione e la valorizzazione dell’identità e dell’autogoverno a valori umani generali e condivisi. In altre parole richiede il superamento dell’attuale visione dominante fondata esclusivamente sulla tecnica, sul mercato e sulla prevalenza degli interessi individuali sugli interessi generali. […]. Oggi sappiamo che il mondo è alla vigilia di una svolta di sistema: che deve affrontare il passaggio, come dicono molti studiosi, dalla seconda alla terza industrializzazione. La Sardegna si vede costretta ancora una volta a un salto di fase, cioè a passare dalla prima industrializzazione, fatta di industria di base energivora, a bassa occupazione, scarso valore aggiunto, forte impatto ambientale e tecnologie risalenti al passato, alla nuova fase fondata su bassi consumi energetici, tecnologie interamente rinnovate e innovative, basso impatto ambientale, diversa distribuzione territoriale.

Ancora una volta si rischia di arrivare in ritardo, costretti ad inseguire un processo che è già in atto in altre parti del Paese, senza mai riuscire a raggiungerlo. Nel mondo più sviluppato questo processo si basa anche sulla confluenza delle potenzialità di sviluppo offerte dalle strutture energetiche rinnovabili già disponibili in forma diffusa a vari livelli con la struttura digitale comunicativa, anch’essa praticamente alla portata di tutti. […]. Peraltro ambiare la classe dirigente è fondamentale ma non sufficiente. Occorre cambiate anche lo stile di vita, e questo è possibile solo se si riesce a elaborate una nuova “grande narrazione”, che non cancelli ma rielabori le prime, rinnovi e renda più efficaci i modi attraverso i quali si realizzano i princìpi fondamentali della democrazia, della libertà, dell’eguaglianza, della giustizia sociale, lavorando a nuove grandi strutture concettuali che stando dentro lo spirito del tempo adeguino le forme nelle quali i principi si realizzano alla nuova cornice che li deve comprendere: che si tratti dello stile di vita o dell’equilibrio tra diritti e doveri, tra tendenze del mercato e democrazia, tra diritti umani ed esigenze di bilancio, sia che si tratti di trovare un giusto equilibrio tra vecchie e nuove generazioni, tra bisogni individuali e bisogni comunitari.

La Sardegna non può stare fuori dal processo generale di cambiamento, non può rinchiudersi in se stessa, magari illudendosi di poter scegliere in solitudine una strada diversa: e non solo perché in un mondo sempre più globalizzato e interdipendente è diventato impossibile per tutti cambiare il senso della storia di un singolo territorio, ma anche, perché la strada dell’isolamento non può essere né la più giusta né la più rispondente agli interessi della Sardegna, neppure alla conservazione dei caratteri più profondi della sua identità. […]. Per avere risultati significativi non basta cambiare solo i partiti, riformare alcuni meccanismi della democrazia. Occorre prendere atto che va cambiato radicalmente l’intero sistema del potere democratico: non riducendone la complessità, come si è tentato di fare nei tempi più recenti, ma allargando le sue strutture, facendo coincidere i meccanismi decisionali politici con le nuove dimensioni in cui si articola la società e si svolge il processo della comunicazione.

Se si vuole evitare la deriva populista, demagogica e carismatica già in atto in Italia e nel mondo il potere decisionale politico deve superare la rotta verticale dal basso in alto e dall’alto in basso ed assumere una dimensione più articolata e più rispondente alle forme dell’attuale società post-classista. Deve inglobare anche la direzione cosiddetta “laterale”, da destra a sinistra, e quella circolare costituita dall’intreccio a “rete” di tutti i processi. Questo significa che occorre trovare meccanismi di espressione della sovranità popolare che non si esauriscano nei partiti sia pure riformati ma si estendano ai nuovi soggetti che possono essere (anzi quasi sempre sono) di natura instabile, impegnati su terreni e su temi che cambiano anche rapidamente, non riconducibili nei vecchi meccanismi di formazione della volontà popolare. Si tratta di accettare che i grandi movimenti di opinione che si presentano volta per volta sulla scena sociale partecipino ai meccanismi decisionali senza essere assorbiti dai partiti o dal populismo carismatico.

Le riforme istituzionali e politiche hanno avuto fino ad ora il segno degli anni ‘90, hanno risposto a spinte moralistiche effimere e ad esigenze di semplificazione più che alle domande più profonde che sono state invece eluse o aggirate. Per questa ragione il sistema politico non è guarito e il deficit democratico si è aggravato. Se vuole essere ancora democratico il potere politico deve fondarsi su nuove forme espressive e prima ancora formative della sovranità popolare, deve accettare nuovi meccanismi che coprano tutti gli spazi nei quali si svolge la comunicazione in un corpo sociale non più diviso in classi ben distinte, ma sempre in via di scomposizione e ricomposto in forme e modalità diverse e in continuo cambiamento. Questa dinamica non è destinata a diminuite, ma semmai a crescere sulla scia dei cambiamenti nelle strutture produttive e nelle strutture di comunicazione. Questa sarà presto, anzi è già, la nuova frontiera della politica in Sardegna. […] ».

9) Ho insistito con queste autocitazioni, non per un frivolo compiacimento, ma per di mostrare che i problemi di cui parliamo oggi sono in gran parte gli stessi da diverso tempo ma non siamo ancora riusciti ad elaborare le necessarie risposte. Dobbiamo essere consapevoli di questo e non restare ancora attardati su posizioni superate, illusi che i nostri problemi siano diversi o addirittura unici rispetto al resto del mondo. Tutti sappiamo in fondo che la “questione sarda” è prevalentemente composta dagli stessi elementi che connotano la crisi di tutte le società occidentali. Viviamo infatti le stesse difficoltà, le stesse sofferenze, sopportiamo crescenti diseguaglianze, subiamo una preoccupante disoccupazione giovanile, sperimentiamo la crisi degli apparati produttivi, conosciamo le difficoltà derivanti dalla ineluttabilità della riconversione industriale, assistiamo passivamente alla crescente disaffezione alla politica, alla sempre più estesa corruzione della vita pubblica, alla perdita di ruolo e di status di una parte consistente della popolazione attiva, alla compressione della classe media, all’esasperazione dell’impoverimento dei ceti marginali.

Vediamo crescere l’insofferenza per gli immigrati, le difficoltà derivanti dall’invecchiamento della popolazione, il ritardo nella creazione delle nuove infrastrutture, la mancanza di regole nell’universo della nuova struttura comunicativa. Assistiamo quasi passivamente all’aumento del fenomeno degli “scarti” nella vita sociale e a tutti gli altri fenomeni di cui parlano tutti i giorni i media a proposito della perdita di coesione sociale, del crescere dell’egoismo individuale e di gruppo, dello sviluppo dei consumi insensati delle risorse non rinnovabili, della caduta di influenza della politica e delle pastoie che bloccano le iniziative individuali e la crescita delle imprese e ultima ma non la meno importante, alla quasi scomparsa della “categoria della giustizia” nelle scelte concrete e nella visione stessa della politica. I problemi della Sardegna non sono dunque molto diversi da quelli che vivono gli altri territori d’Italia e d’Europa. Sarebbe però sbagliato non vedere che ci sono alcuni elementi che differenziano la nostra condizione da tutte le altre. Questi elementi sono emersi con più forza nella crisi che attraversiamo, e non sono affatto marginali. Essi chiamano in causa la natura del popolo sardo, la sua condizione di nazione non del tutto realizzata e non pienamente affermata; essi hanno fatto riemergere dal passato una “coscienza infelice” che rivendica per la nazione sarda il diritto di decidere del suo destino utilizzando in modo nuovo e più ampio le possibilità offerte dalle norme costituzionali vigenti.

Quel che rende specifica e in parte “nuova” la questione sarda non sono dunque solo i cambiamenti  in corso in Italia e nel mondo, ma è anche e forse soprattutto l’incontro dei fattori più antichi dell’identità con la più recente modernità. È questo incontro che ha messo a nudo le contraddizioni, i pericoli di disgregazione, e ha avviato la forte deriva che rende più incerta la vita sociale e quella politica. Il rischio che una modernità senza un adeguamento alla nostra visione stravolga i caratteri dell’identità, renda il popolo sardo del tutto simile a quella vasta  umanità conformista che popola il mondo occidentale che non ha una patria, una terra, una lingua, una storia, non possiede più un patrimonio di beni comuni nei quali riconoscersi è diventato molto alto. C’è chi pensa che possiamo metterci al riparo dai pericoli isolandoci. Ma sbaglia perché il processo di omologazione delle diversità in atto nel mondo è in corso anche in Sardegna. Non si può fermare ma si può controllare e influenzare per evitare che corrompa e indebolisca principi e valori irrinunciabili in quanto fondanti e costitutivi sia dell’identità  sia della cittadinanza. Bisogna riconoscere che la triade modernità – identità – cittadinanza non è più compatta né sempre coerente né inattaccabile. Il processo in corso ha già bloccato in parte la modernizzazione e sta mettendo in pericolo anche, se non soprattutto, gli altri due elementi della triade cioè l’identità e la cittadinanza. Se il processo continua senza correzioni c’è il rischio di essere costretti a vivere nel mondo globale unificato e dominato dalle tecnologie e dai poteri della seconda modernizzazione e dal nuovo capitalismo finanziario senza frontiere, non più da sardi sovrani, da cittadini liberi, democratici, inclusi e protagonisti del proprio destino, ma solo come passivi destinatari delle decisioni altrui.

La nuova questione sarda si può dunque riassumere e semplificare senza forzature nella non buona condizione di salute soprattutto della diade identità – cittadinanza, nella difficoltà di conciliare l’appartenenza nella forma attuale alla Repubblica italiana con la conservazione e la valorizzazione dell’identità sarda di popolo-nazione dal momento che ad essa sarebbe negato illegittimamente il diritto di esercitare l’autodeterminazione e il possesso degli strumenti e dei poteri necessari per impedire che la seconda modernizzazione in corso nel mondo indebolisca oltre la specificità sarda anche il pieno godimento dei diritti fondamentali connessi con la cittadinanza.Sta diventando sempre più diffusa la convinzione che senza nuovi strumenti e nuovi poteri, come quelli che molti chiamano sovranità, la seconda modernizzazione rischia di andare avanti senza controllo mettendo in opposizione identità e cittadinanza condannandole entrambe alla crisi, indipendentemente dalla volontà dei sostenitori del primato dell’identità o del primato della cittadinanza perché la modernizzazione lasciata a sé stessa le mette inevitabilmente una contro l’altra.

Nell’assumere posizione a favore dell’una o dell’altra tesi oggi in campo è necessaria perciò molta prudenza e un di più di precauzione. Occorre fare in modo che i due elementi identità e cittadinanza rimangano collaborativi e non diventino conflittuali e oppositivi. Occorre evitare che uno dei due venga sacrificato a favore dell’altro perché ciò causerebbe un grave impoverimento della vita democratica e renderebbe incerto e precario e in qualche misura pericoloso tutto il percorso della seconda modernizzazione. Le forze politiche e il mondo della cultura non possono assistere a tutto questo passivamente lasciando andare il sistema alla deriva, consentendo che l’opinione pubblica sia investita senza contrasti da posizioni emotive radicali che rifiutano di considerare i pericoli e non tengono conto delle obiezioni, dando per scontato che le conquiste della democrazia repubblicana restino intatte in qualsiasi caso, anche nella rottura con lo Stato italiano, lasciando credere che i diritti della persona non siano a rischio, che le conquiste sociali e le prestazioni del welfare siano al sicuro, che il godimento dei diritti singoli e collettivi, la solidarietà territoriale e interpersonale, tutto il patrimonio che si è andato formando dall’avvento della Repubblica sulla base dei principi della Costituzione non corra alcun pericolo.

Purtroppo così non è. La permanenza di tutte le conquiste repubblicane non è affatto scontata come molti continuano a pensare. Si può dire anzi che molte delle componenti che costituiscono i due universi di senso dell’identità e della cittadinanza sono già fortemente indebolite e rendono il futuro dell’identità sempre più incerto e l’Autonomia speciale sempre meno in grado di bloccare il declino perché priva della sovranità necessaria. Ma neanche la cittadinanza è al sicuro. Essa attraversa un processo di progressivo indebolimento e mostra che il vecchio Patto costituzionale consacrato dallo Statuto speciale non è più sufficiente a garantirne la piena sopravvivenza. Ma sono soprattutto “identità – cittadinanza” ad essere in pericolo, a rischiare come ho già detto di diventare tra loro oppositivi fino a costringere la politica sarda a scegliere tra l’uno o l’altro. È proprio questo l’aspetto inedito della realtà politico-istituzionale che rende “nuova” la questione sarda e rende urgente la ricerca dei modi, delle forme, degli strumenti, dei contenuti politici indispensabili per salvaguardare l’identità senza rinunciare né alla cittadinanza paritaria né alla seconda modernizzazione, e poter perseguire contemporaneamente l’inclusione nel processo di modernizzazione in corso nel mondo.

In questo momento in Sardegna si stanno confrontando tre posizioni che possiamo chiamare rispettivamente autonomista, sovranista, federalista. Esse vanno giudicate non in astratto o in modo passionale ma in concreto, cioè sulla base del loro essere più o meno idonee a realizzare un sistema sociale e istituzionale capace di tenere unita e possibilmente rafforzare la triade più volte richiamata ed espressa nella formula «modernizzazione – identità – cittadinanza». Ognuna delle posizioni richiamate (autonomista, sovranista, federalista) ha pregi e difetti e deve essere valutata correttamente.  A chi ritiene che la strada sia quella dell’indipendenza, della nascita di uno Stato sardo, con la trasformazione della nazione sarda in nazione-Stato è perciò richiesta una più attenta valutazione delle sorti della cittadinanza. A chi sostiene la riforma dell’Autonomia speciale occorre ricordare che è diventato indispensabile procedere a una profonda revisione delle posizioni tradizionali magari rimettendo in capo allo Stato centrale le materie della cittadinanza e ponendo in capo alla Regione tutte le materie che incidono sull’identità, naturalmente dotando gli istituti autonomistici di nuovi poteri e di più ampia sovranità in questo campo tanto vasto quanto essenziale.

A chi invece ritiene che la soluzione più moderna e più rispettosa delle tendenze in atto nel mondo stia nella trasformazione della Sardegna da Regione autonoma in Regione federale dotata di maggiori poteri e di più larga sovranità, occorre ricordare che non è affatto scontato che basti un regime federale a conciliare la convivenza e rendere meno conflittuali i tre fattori in campo, ma che occorre individuare strumenti e condizioni per poter esercitare una sovranità condivisa, obiettivo che non appare affatto scontato. In estrema sintesi si può affermare che per evitare che  “la nuova questione sarda” rimanga irrisolta o addirittura si aggravi rendendo il declino inarrestabile, mettendo il nostro destino interamente nelle mani degli altri, occorre uscire rapidamente dall’inerzia che ha segnato negativamente gli ultimi decenni, occorre decidere responsabilmente e democraticamente le nuove politiche, ma senza perdere tempo in discussioni oziose o attestarsi su posizioni pregiudiziali.

10) Concludo con una citazione di E. Lussu tratta da un articolo pubblicato nel numero speciale dedicato alla Sardegna della rivista “Il Ponte” diretta da Piero Calamandrei, uscita nel settembre-ottobre 1951, a meno di due anni dalla conclusione dei lavori dell’Assemblea costituente e dell’approvazione dello Statuto speciale dell’Autonomia sarda. Nello stesso numero della rivista sono contenuti articoli di Giuseppe Dessì, di M. Berlinguer, di Pietro Mastino, di G. Lilliu, di Gonario Pinna, di Salvatore Ruju, di L. B. Puggioni e di tanti altri che descrivono una Sardegna arretrata, povera, in ritardo in tutti i campi. L’articolo di Lussu è quello dai toni più epici e dolenti. È pieno di delusione e di amarezza per le condizioni della Sardegna e per la sua storia antica e recente. Ma non è privo di speranza per il futuro ed è ricco di spunti per l’azione politica e utile ancora oggi per giudicare la “questione sarda”, quella antica e quella più recente.

Riporto una parte del brano iniziale, alcuni passaggi centrali e la conclusione. Ecco l’inizio: « Chi si prendesse la pena di leggere tutti i discorsi pronunziati dai rappresentanti sardi al Parlamento, da quello subalpino a quello nazionale fino ai primi decenni del secolo, si farebbe una visione abbastanza completa della vita civile dell’Isola durante il periodo dall’unificazione nazionale a poco prima del fascismo. E quel secolo è spiegato dal secolo che lo precede, ancora più meschino, tolta la parentesi rivoluzionaria popolare della fine del XVIII secolo che la illumina per un attimo. Perché la Sardegna ha vissuto un periodo così lungo di vita meschina? E perché è ancora così arretrata, secondo la mia personale esperienza la regione più arretrata d’Europa? Certo, il presente di ogni paese è legato al suo passato, né io mi propongo un saggio storico-politico sull’Isola. Mi sforzo solo di cercar d’intravvedere che cosa potrà essere l’Isola nell’avvenire.». E più avanti: «Noi siamo stati sempre disuniti e nemici fra noi stessi, sotto gli spagnoli, sotto gli aragonesi, sotto i giudicati, sotto i romani, sotto i cartaginesi, sempre. Loro solo erano uniti. Il loro Stato non era il nostro Stato, e, impotenti a sbarazzarcene, ci ripiegavamo su noi stessi, ognuno per proprio conto, nella famiglia e nel villaggio: e villaggio contro villaggio, l’uno contro l’altro nello stesso villaggio. […].

Fino al ’900, niente lotta politica. Neppure l’autonomia che ci venne dai re d’Aragona fu una nostra conquista. Gli Estamentos altro non sono stati che un sistema politico abile per rendere più sicura la nostra sconfitta. La lotta politica comincia in Sardegna con la lotta di classe dei minatori delle grandi miniere dell’Iglesiente: con essa ha inizio la Sardegna moderna. […].  La nostra umanità è nel profondo della nostra sofferenza che ci è stata tramandata da una generazione all’altra. Questa umanità, legata al ricordo del dolore dentro di noi, che finora non abbiamo espresso in forma creativa, neppure nell’arte, e tanto meno in politica,  […] ». Ed ecco la conclusione: «Noi portiamo, sotto i nostri piedi, la terra sarda, dovunque, e ci viviamo sopra come i contadini vi hanno sempre vissuto per millenni. Perché agitarsi? E a profitto di chi? Non è ancora arrivato il fatto atteso, che è già nell’inizio della rinascita popolare presente, della Sardegna collettiva, unita e operosa, che succeda alla vecchia Sardegna dei sardi solitari e immobili. Certamente, la Sardegna conoscerà una resurrezione, inserendo la sua vita nella civiltà italiana, europea e universale, di cui ormai è partecipe. […].

 

Lo Statuto autonomistico vigente contempla questa collaborazione della Regione e dello Stato per la rinascita dell’Isola. Ma l’autonomia è ancora sulla carta, così come lo è lo Stato democratico che in comune abbiamo costituito. Molte cose sono sulla carta, in Sardegna. Ma v’è anche parecchio lievito in fermento. Tutto un nuovo mondo si muove, dentro di noi, ed è già alle sue prime luci certe del mondo esteriore. Vi sono molti secoli che premono e che ci spingono, oltre il focolare e la casa sprangata, oltre il nostro canto chiuso fatto di echi di lamenti senza principio e senza fine. Perché non dirlo? Sentiamo che il popolo sardo, come i popoli venuti ultimi alla civiltà moderna e già fattisi primi, ha da rivelare qualcosa, a se stesso e agli altri, di profondamente umano e nuovo. ».  La Sardegna non è più quella descritta da E. Lussu. Non è più la regione più arretrata d’Europa. Molte cose sono cambiate dal lontano 1951. Con l’avvento della Repubblica fondata sul lavoro, sulla persona umana, sulle autonomie, sui diritti fondamentali, sulla solidarietà tra classi e tra diverse zone del paese, e con la contemporanea approvazione dello Statuto speciale per la Sardegna è iniziato per la nostra isola un nuovo tempo. Siamo usciti dall’accantonamento, siamo entrati nella storia non più come sudditi oppressi e sfruttati ma da cittadini liberi e protagonisti della vita politica.

 

Le componenti fondamentali della “questione sarda” hanno avuto dallo Stato e dall’Autonomia molte risposte nella lotta alla miseria, alla fame, alla malaria, al tracoma, alla tubercolosi, all’analfabetismo di massa, alla denutrizione infantile, alla carenza di infrastrutture civili, alla atavica rassegnazione e all’esclusione dei ceti più deboli e delle classi popolari dalla vita politica, all’oppressione e allo sfruttamento secolare cui i sardi erano stati assoggettati dai dominatori esterni e soprattutto all’inclusione dei ceti popolari nello Stato democratico. Con l’avvento dell’Autonomia si sono costruite strade, porti, aeroporti, dighe, acquedotti, fognature, scuole, ospedali, case comunali, ambulatori, teatri, stadi, si sono realizzate riforme importanti come la riforma agraria, la trasformazione delle terre incolte, l’adozione dell’equo canone per i pascoli, si è intensificata la lotta al banditismo e alla disoccupazione, si sono attuati programmi di rinnovamento nel campo dell’artigianato, della pesca, dell’agricoltura, si è creata una base industriale; si è sviluppata una dialettica politica democratica che per la prima volta nella lunga storia dell’Isola ha portato le classi popolari alla guida delle istituzioni autonomistiche.

 

Si poteva fare di più e meglio come dimostrano le condizioni di disparità ancora esistenti tra la Sardegna e le zone più ricche d’Italia. Ma siamo entrati nella storia, abbiamo camminato con il passo del tempo, abbiamo partecipato come cittadini liberi e uguali alle vicende della Repubblica, siamo diventati più uniti e meno ostili tra noi, abbiamo preso a cuore il destino della nostra isola e siamo diventati cittadini del mondo. La vecchia questione sarda non è del tutto risolta: alcune cose rimangono ancora in piedi o si ripresentano sotto altre forme, ma gli elementi fondamentali sono stati rimossi e le cause dell’arretratezza molto ridotte. Ciò che E. Lussu auspicava e annunciava come una profezia, cioè la capacità del popolo sardo di fare cose nuove e umane di grande valore si è avverato almeno in parte. Molto rimane ancora da realizzare e per farlo c’è bisogno di una nuova consapevolezza, di un nuovo approccio più moderno e più coerente con il tempo che viviamo. Occorre una nuova responsabilità e un nuovo impegno per bloccare la crisi della triade di cui abbiamo parlato senza separare o mettere in conflitto un elemento con l’altro. La soluzione della “nuova questione sarda”  sta nel riuscire a valorizzare insieme “modernità, identità e cittadinanza”. La questione sarda si può oggi definire “post-autonomistica”, diversa nella sua natura politica dalla precedente anche per merito dell’esperienza di autogoverno realizzata dopo la nascita della Regione. Se è del tutto evidente che la questione sarda è cambiata definitivamente, dovrebbe essere altrettanto evidente che bisogna cambiare l’impostazione politica che ha dominato i sessant’anni di vita della Regione sarda. Bisogna superare la posizione rivendicazionista e risarcitoria e anche quella più moderna e in gran parte ancora attuale, elaborata da Paolo Dettori nella formula «contestazione – accettazione», quasi un ossimoro, che serviva a esprimere insieme la protesta nei confronti dello Stato e allo stesso tempo il senso pieno di appartenenza alla Repubblica e l’accettazione della Costituzione.

 

Queste posizioni mostrano oggi i segni del tempo e senza un aggiornamento, non sembrano più in grado di corrispondere alle esigenze emerse con i grandi mutamenti avvenuti nella società e nella politica nel mondo, in Europa, in Italia e anche in Sardegna. La realtà del terzo millennio come già detto, è diversa da quella che abbiamo vissuto nella seconda metà del 900 e la politica non può rimanere ancorata alle vecchie formule. È necessario elaborare e adottare una nuova linea generale , una formula più efficace, più idonea ad interpretare e orientare l’azione politica sulla base anche dei sentimenti del popolo sardo nei confronti dello Stato e della stessa Regione, quei sentimenti che, sia pure in maniera ambigua e confusa, esprimono una profonda e diffusa sfiducia per la condizione attuale. Come abbiamo visto, ci sono in campo posizioni e proposte molto diverse che hanno bisogno di approfondimenti, correzioni e ampliamenti che solo un confronto senza pregiudiziali può produrre.

 

La classe politica sarda e il mondo della cultura devono assumersi le proprie responsabilità e prendere posizione senza perdere altro tempo. Le proposte in campo anche se ancora troppo vaghe devono essere messe a confronto senza chiusure pregiudiziali tenendo conto della realtà politica, dei vincoli costituzionali, degli interessi popolari, delle condizioni economico-sociali oltre che dei sentimenti e delle passioni. Solo così si può scegliere la via più praticabile, più realistica, più rispettosa dei vincoli costituzionali, dell’esperienza storica, della cultura, delle tradizioni e dei sentimenti oltre che degli interessi della popolazione della Sardegna senza recidere pregiudizialmente l’appartenenza della Sardegna alla Repubblica italiana, e senza rinunciare a rafforzare il ruolo dell’Autonomia speciale trasformandola in un’autonomia dotata di maggiore sovranità. Detto più semplicemente, io penso che si debba negoziare un nuovo Patto costituzionale fondato sul pieno riconoscimento della natura di nazione del popolo sardo e del suo pieno diritto all’autogoverno, con istituti, norme, regole, procedimenti, strumenti e soprattutto istituzioni pensate e costruite secondo il principio di una “sovranità federale” di una “sovranità condivisa”, tale da esaltare insieme “identità e cittadinanza” e rendere possibile la grande impresa, non affatto scontata, di partecipare pienamente alla “seconda modernizzazione” in corso nel mondo, senza dover rinunciare alla specifica natura di popolo-nazione, senza cioè perdere l’identità sarda e senza rinunciare alla cittadinanza italiana.

 

È evidente che si tratta di un’impresa molto difficile e possibile forse solo con una formula costituzionale federale o se si vuole “neofederale”, inedita e quasi tutta da elaborare e costruire, ma comunque l’unica praticabile con l’attuale Costituzione. Si tratta in sostanza di elaborare norme, istituti e procedure che trasformino l’autonomismo speciale in “sovranismo federale” senza dover inseguire sogni indipendentisti, nazionalisti o nazionalitari, non solo perché si tratta di posizioni superate dalle esperienze costituzionali in corso nel mondo e perdenti nel confronto con le ragioni dello Stato centrale, ma anche per il fatto che sarebbero meno idonei per il raggiungimento delle finalità più importanti che ho cercato di illustrare. Le molte realtà federali esistenti nel mondo e in Europa dimostrano tra l’altro che si può diventare Stato senza inseguire l’indipendenza. La formula che ho scelto per definire il carattere complessivo della nuova questione sarda:  «modernità – identità – cittadinanza» risponde proprio a questa esigenza, vuole mettere in evidenza che la Sardegna può partecipare al processo in corso senza per questo rinunciare a nessuno dei principi e dei diritti derivanti dall’identità, dalla cittadinanza e dalla modernità.

 

Non posso concludere senza una considerazione che ritengo fondamentale. Tutto questo è realizzabile solo se al posto della forza che non abbiamo per vincere lo scontro con le ragioni dello Stato, riusciremo a mettere in campo le ragioni della “giustizia”, di una giustizia che chiede a tutti di assumere le decisioni fondamentali sotto un velo di ignoranza (secondo una nota teoria), cioè senza la turbativa dell’interesse personale, di classe, di appartenenza o di razza o di altra diversa natura, ma solo perché la decisione è la più “giusta”.

 

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