GERMANIA IMMIGRATI, strategie d’integrazione, di Fiorella Farinelli

su Rocca

 

Bisogna che entrino nel lavoro il prima possibile. Che comincino a consumare, a pagare le tasse, a far girare l’economia. In Germania – dal gennaio 2015 sono state 965mila le richieste di asilo – l’integrazione dei profughi è un programma operativo, e una strategia politica, che non ammette indugi. Sicuramente costoso, difficile, per tanti aspetti controverso, ma perdere tempo sarebbe fatale. Per loro, e per il paese che li ha accolti. Alla disperata determinazione del viaggio, all’adrenalina che ha consentito di superarne rischi e fatiche, non deve seguire un periodo troppo lungo di dipendenza dall’assistenza, di attese passive di un nuovo futuro. Una convinzione che non è solo di Angela Merkel.
un progetto coraggioso ed efficiente
Ci sono resistenze e contrarietà incendiarie in Germania, soprattutto dopo i fatti di Colonia, ma anche una straordinaria efficienza delle istituzioni e una diffusa mobilitazione della società civile. Lo scorso settembre è stata per prima la prestigiosa Università Humboldt ad aprire i suoi corsi agli immigrati, è bene che chi ha gli strumenti prenda immediatamente familiarità con il modello tedesco dell’alta formazione, partecipi alla comunità studentesca, possa da subito guardare oltre le emergenze dell’oggi. Informarsi, orientarsi, imparare, progettare, mettere a frutto titoli di studio e competenze professionali. Ankommen, che in tedesco vuol dire «arrivare», è l’App scaricabile gratuitamente sviluppata in poche settimane da Ministero degli interni, Ufficio immigrazione, Agenzia per il lavoro, Goethe Institut e Tv pubblica. Quattro lingue – arabo, farsi, francese, inglese – per l’essenziale sulle procedure di regolarizzazione, la formazione per il lavoro, le norme e i valori necessari alla convivenza, e poi anche per un corso di base di lingua tedesca. A partire dalla sesta settimana dall’arrivo, anche se la pratica di riconoscimento dello status di rifugiato non è stata ancora con- clusa e neppure processata, si può accedere a una formazione linguistica. E si può anche chiedere di far parte della Protezione civile volontaria, come ogni buon cittadino che al suo paese ci tiene.

Come in Svezia, bisogna fare in modo che l’accesso a qualche forma di lavoro sia possibile in tempi rapidi, quasi immediatamente (tutto il contrario che da noi dove ai richiedenti asilo è impedita ogni attività finché le procedure non siano completate, col risultato che nelle strutture di accoglienza capita che si consumino nell’ozio e nella depressione anche un paio d’anni). E come in ogni democrazia evoluta, le strategie per l’integrazione sono supportate, oltre che dalle istituzioni statali e decentrate, anche dalle reti dell’associazionismo civile, laico e di ispirazione religiosa. Circa 100mila sono i volontari in azione, con le chiese protestante e cattolica in ruoli organizzativi e gestionali di spicco, e con investimenti economici importanti (90 milioni, per esempio, solo da parte della chiesa cattolica).
promuovere e pretendere
Ma l’efficienza tedesca non si spiega solo con la storia di un paese che, dopo essersi misurato nei primi anni Novanta con gli sconquassi della riunificazione e con gli imponenti flussi migratori seguiti alla dissoluzione dell’impero sovietico, ha poi saputo far fronte anche alle migrazioni determinate dalla guerra nei Balcani. Questa volta, del resto, i numeri del flusso sono non solo molto alti, ma anche concentrati in un tempo relativamente breve, così non solo è difficile riuscire a sviluppare immediatamente tutti i servizi necessari (per fare un solo esempio, solo 200mila dei 325mila minori neoarrivati sono stati inseriti nel sistema scolastico perché mancano gli insegnanti, ed è stato necessario ricorrere anche a scuole improvvisate con insegnanti siriani), ma l’attuazione del programma di integrazione sta richiedendo anche iniziative di modifica normativa. Riforme, insomma, e non di poco conto. Prima di tutto la definizione di una nuova legge sull’immigrazione, con proposte assai controverse di modifica delle regole del mercato del lavoro, che dovrebbe essere approvata e diventare attuativa nei prossimi mesi.
«Promuovere e pretendere», ha sintetizzato così Angela Merkel. Promuovere significa farli andare avanti questi giovani che arrivano da noi in fuga da guerre, povertà, disastri ambientali, ma anche determinati a costruirsi una nuova vita. Pretendere è imporre regole di comportamento e impegni scambi difficilmente aggirabili. Il programma previsto per i prossimi cinque anni (93,6 miliardi di Euro l’investimento complessivo, tra alloggi, sussidi, formazione linguistica e professionale, creazione di nuovi posti di lavoro), prevede corsi obbligatori di lingua, di orientamento/integrazione, di formazione professionale (con perdita dei sussidi e della regolarizzazione per chi si sottrae, e viceversa regolarizzazione accelerata per chi eccelle). Ma soprattutto 100mila posti di lavoro per il primo anno – con la prospettiva di moltiplicarli in seguito. Ma come?

passaggi che scottano
La prima decisione è di far saltare provvisoriamente, per i prossimi tre anni, la priorità finora assegnata alle assunzioni di lavoratori tedeschi e di provenienza comunitaria. La seconda è di aggirare il salario minimo vigente – 8,50 Euro l’ora – con retribuzioni orarie di 1 solo Euro l’ora. Passaggi che scottano, che interrogano sulla fattibilità politica e sulle conseguenze sociali. Anche se oggi in Germania la disoccupazione è pressoché fisiologica (6,2%) e per di più in calo rispetto al 2014, non è affatto scontato che interventi di questo tipo non spalanchino pericolose concorrenze nel mercato del lavoro (se non tra tedeschi e profughi almeno tra immigrati stabilizzati e immigrati nuovi), e non abbassino per tutti tutele, diritti e retribuzioni medie.
Ma l’ipotesi, confortata da autorevoli studi economici anche internazionali, è che l’ingresso rapido nel mercato di una parte molto consistente dei nuovi arrivi, anche se con retribuzioni sotto soglia, dovrebbe produrre uno choc positivo sul piano economico e sociale: l’incremento della domanda di consumi, e quindi della produzione interna; l’avvio di numerosi processi virtuosi di miglioramento professionale e della produttività delle aziende; una nuova imprenditorialità; un nuovo gettito fiscale capace di cominciare a compensare il surplus di spesa sociale dovuto all’accoglienza e all’erogazione dei sussidi iniziali. Si tratta di giovani, comunque, che almeno inizialmente utilizzano di meno le strutture sanitarie e che per lunghi anni non peseranno sulla spesa pensionistica. E già oggi la loro presenza in Germania sta trascinando un incremento dell’occupazione nei servizi, a partire da quelli educativi per la prima infanzia e da quelli per lo sviluppo delle competenze professionali. La scommessa, dunque, è quella di un aumento del Pil.

può funzionare?
Possibile che oggi sia l’immigrazione il fattore scatenante di una svolta rispetto alle politiche europee – e tedesche – di austerità? Possibile che lo stesso fenomeno che in altri paesi fa costruire i muri di respingimento (o che, come in Italia, dà luogo a un’accoglienza generosa ma nuda di strategie di integrazione), in Germania sia vista come una risorsa primaria di sviluppo economico?
A sostenerlo non è solo Angela Merkel, perfino dal Fondo Monetario Internazionale arrivano analisi e indicazioni in questo senso. Argomentate da previsioni nerissime sugli effetti dell’invecchiamento progressivo della popolazione tedesca ed europea, quindi su una prossima carenza di forza lavoro, su precipitosi decrementi della domanda interna, su inedite scarsità di risorse professionali giovani e qualificate. Insomma, di un ormai vicinissimo inaridirsi delle potenzialità di crescita economica persino in quella Germania che è tuttora il primo motore economico europeo. Un ribaltamento secco, in sintesi, delle idee prevalenti su un’immigrazione foriera solo di impoverimento, di ulteriore debito pubblico, di pesi insostenibili di spesa sociale. Lo si osserva, fra l’altro, in quello che può sembrare un dettaglio, e invece non lo è, cioè l’attenzione tedesca al riconoscimento dei titoli di studio e delle competenze professionali dei rifugiati. Da noi non se ne parla affatto, e proprio perché si teme un’integrazione degli immigrati capace di scalzare, a colpi di lauree e diplomi, le rendite di posizione degli autoctoni, in Germania ci si aspetta invece che i giovani medici, agronomi, informatici, ingegneri siriani e di altri paesi del mondo portino nuova linfa all’economia. Vedremo presto i risultati o i contraccolpi di queste strategie innovative. È un fatto, comunque, che nel cuore dell’Europa si stanno facendo strada posizioni diverse da quelle che all’immigrazione guardano solo con paura. O che, come in Italia, coltivano un’accoglienza che non dà luogo a politiche intenzionali ed efficaci di integrazione. Ci sarebbe anche questo tema, tra i tanti cui la politica dovrebbe riconoscere assoluta priorità.

 

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