Immigrazione, quale solidarietà, di EZIO MAURO

“Offrendo integrazione concreta in cambio del concreto rispetto delle nostre leggi e della Costituzione si può invece provare a coniugare una doppia responsabilità di governo per la sicurezza e per la solidarietà”. LA REPUBBLICA, 20 settembre 2016


Ci voleva il sindaco di una grande città come Milano, legittimato dal consenso elettorale che lo ha portato in municipio, per dire a voce alta che l’immigrazione nel nostro Paese non è più un’emergenza ma un terremoto continuo, che cambierà la storia, la geografia, il costume degli italiani, come sta già cambiando la politica. Non tanto per i numeri, che pure hanno una loro rilevanza fortissima in una regione come la Lombardia.

Una regione che nella “distribuzione” dei migranti arriva al 13 per cento contro il 9 per cento della Sicilia, l’8 di Piemonte, Veneto, Lazio e Campania, il 7 di Emilia, Puglia e Toscana, il 3 del Friuli e l’1 per cento delle province di Trento e Bolzano. Ma per la dimensione simbolica, emotiva, fantasmatica e dunque politica che il fenomeno ha assunto nella discussione pubblica e nella percezione di un pezzo rilevante della nostra opinione nazionale che cerca sicurezza, tutela o almeno riconoscimento: lo chiede allo Stato, e se non lo trova si rivolge come sta facendo all’antistato.

Lo Stato democratico del nuovo millennio si trova così soggetto a due spinte contrapposte, che gli impongono un doppio dovere a prima vista inconciliabile. Da un lato deve garantire solidarietà ed accoglienza al migrante che è fuggito da guerre, violenze e carestie cercando soltanto una sponda di libertà dove appoggiare il futuro dei suoi figli e ha affrontato un viaggio della disperazione verso l’immagine che noi raccontiamo di noi stessi, la terra della libertà e delle opportunità nell’uguaglianza. Dall’altro lato deve rispondere all’istinto indigeno di protezione che chiede confusamente difesa, salvaguardia, addirittura riparo e copertura rispetto al mondo di fuori che viene a bussare a casa nostra. La democrazia occidentale, fondata sui diritti, tradisce se stessa se chiude gli occhi davanti al corpo nudo del migrante che chiede solo di sopravvivere, qualcosa di sacro che viene dal profondo dei secoli. Ma la democrazia nello stesso tempo tradisce i cittadini se si tappa le orecchie davanti alla loro richiesta di sicurezza, che è comunque una richiesta di presidio e di garanzia, quindi di governo.

In buona sostanza la democrazia governante si trova davanti ad un’altra prova di sè, e cioè allo scarto tra l’universalità dei nostri valori e dei principii quando li professiamo in astratto e la loro relatività, la parzialità con cui li pratichiamo, consumandoli principalmente per noi stessi. Dopo i parametri di Maastricht è come se l’Europa volesse stabilire una quota anche alla disperazione di coloro che non hanno più nulla e fuggono da tutto, uno spread tra la loro richiesta di sopravvivere e la nostra pretesa di vivere tranquilli. Potremmo dire – ed è la cifra drammatica ed estrema dell’epoca che stiamo vivendo – che siamo davanti ad un confronto inedito, che la modernità recupera dal primordiale: il confronto-scontro tra i cittadini e i dannati della terra, i primi e gli ultimi del mondo in cui viviamo. Per la prima volta nella storia, i garantiti capiscono di poter fare a meno degli esclusi, viene meno il vincolo di interdipendenza che per decenni ha tenuto insieme i vincenti e i perdenti dentro un orizzonte comune che abbiamo chiamato società, e per di più democratica.

La questione si complica se guardiamo dentro quel riflesso di protezione. Nasce quasi sempre non da un egoismo astratto dei nostri diritti, ma da un sentimento di inquietudine per il globale che precipita in casa nostra, frantumando la pretesa di universalità con cui noi occidentali scrivevamo da soli la storia del mondo. Tutte le storie oggi accampano gli stessi diritti, tutti i popoli della terra, come diceva Beck, hanno un presente comune, salta non solo la primazia ma anche la gerarchia occidentale, vissuta per anni come il principio ordinatore del mondo. La rivoluzione della mondializzazione e la rivoluzione tecnologica hanno sfondato la spazialità moderna e cioè lo spazio nazionale, social-culturale, politico, e di conseguenza hanno smaterializzato la sovranità popolare e quella pubblica, mandando all’aria il concetto di rappresentanza, insieme con ogni verifica di mandato politico. Resta la sensazione che il mondo si muova, ma fuori controllo, senza governo. Con il risultato di una nuova inedita frattura tra tutto ciò che è in movimento – le esperienze cosmopolite, i ragazzi di Erasmus, l’universo che vive negli spazi sovranazionali dei flussi finanziari e della tecnologia dell’informazione, dove si prendono le decisioni che contano, senza istituzioni e senza un controllo democratico – e tutto ciò che è fisso, confinato nel sottosuolo impotente degli Stati nazionali e ha paura del movimento, delle sue novità, della sua inafferrabilità nell’altrove, del suo potere senza un re e senza nemmeno un regno.

Due geografie entrano in conflitto, una immateriale e virtuale, ma egemonica e comunque sovrana, una tradizionale e concreta, spossessata e svuotata di ogni potestà effettiva. Il punto è che nella seconda geografia abitano gli anziani, sempre più numerosi, i cittadini periferici dei piccoli centri estranei al circuito multiculturale dei consumi nelle metropoli, le solitudini isolate e affidate ai badanti, gli sconfitti della globalizzazione, i senza lavoro che lo hanno perso a cinquant’anni e scoprono che non lo troveranno più. In una parola, la fascia più esposta e più fragile della nostra popolazione. Persone che spesso nel loro percorso biografico non sono uscite dai confini nazionali e che oggi si trovano in casa il mondo di fuori, magari ai giardini pubblici dove accompagnano i nipoti. Un mondo rovesciato. E una nuova categoria che chiede spazio e considerazione, tra i primi e gli ultimi: i penultimi – come li abbiamo chiamati – , timorosi del confronto con altri mondi, spaventati dalla perdita di controllo personale sull’identità del loro territorio, inquieti per lo spezzarsi del filo di memorie condivise, gelosi di un welfare che non vogliono spartire, egoisti di un lavoro che non c’è, furiosi con un’accoglienza che riserva ai disperati un’attenzione pubblica che loro non sentono più.

Non ho parlato con il sindaco di Milano, ma credo che chiedendo un governo dell’immigrazione pretendesse soprattutto un segnale politico di attenzione a questo gruppo sociale vastissimo, anonimo, disorganico e senza rappresentanza culturale, ma fondamentale per la tenuta morale del sistema. Soprattutto la sinistra dovrebbe sentirsi interpellata da queste inquietudini sparse, da questi fantasmi ingigantiti nella solitudine della luce televisiva del grande tinello italiano, dove arrivano soltanto gli imprenditori politici della paura, che non hanno soluzioni per nessun problema ma almeno scambiano un segnale di riconoscibilità sociale dallo schermo dei talk show. Ci dev’essere un’alternativa alla ruspa di Salvini e al silenzio di Grillo che disprezzano entrambi le istituzioni mentre invitano il cittadino impaurito e deluso non a cambiare il sistema ma ad uscire dal sistema, come se la soluzione fosse fuori, dove abita un’antipolitica sterile e feroce che non aiuta il cittadino a capire, perché fa di ogni erba un vero e proprio fascio.

Offrendo integrazione concreta in cambio del concreto rispetto delle nostre leggi e della Costituzione si può invece provare a coniugare una doppia responsabilità di governo per la sicurezza e per la solidarietà. Non sono solo due obblighi della democrazia, sono anche gli unici strumenti che possono governare il fenomeno, negli obblighi congiunti e concorrenti che il potere pubblico deve sentire nei confronti dei suoi cittadini e nei confronti dei migranti. Senza sicurezza non c’è effettiva libertà, e la democrazia viene meno non solo alle sue funzioni ma alle sue promesse, consumandosi. Senza solidarietà, la stessa democrazia perde l’anima, gettando a mare la civiltà italiana dei nostri padri e delle nostre madri: ciò che noi siamo, anche se spesso lo dimentichiamo.

 

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