La Repubblica di Sardegna. Riflessioni parallele all’oggetto (prima parte), di Gianfranco Murtas

Con una prima risposta del direttore del sito (S. C.).

La Repubblica di Sardegna. Riflessioni parallele all’oggetto (prima parte)

di Gianfranco Murtas

Sto pensando seriamente di costituirmi  in repubblica. Repubblica autonoma e autocefala, come ha fatto il collega di Mal di Ventre. Io rappresenterei l’elemento personale, di popolazione, necessario all’istituzione statuale e casa mia, con libri quadri e cartacce, tonnellate di cartacce chissà se tutte utili, potrebbe essere quello territoriale. La legge, l’ordinamento cioè, potrebbero esserlo il mio buon senso e la mia buona educazione, magari anche l’intelligenza sì media/mediocre ma attiva e mai rinunciataria. Non potrei  scambiare ambasciatori, è vero, ma a qualcosa comunque bisognerebbe pur rinunciarsi.

Aggregandomi buon ultimo, in supplemento, ai sondaggisti edimburghesi, che interrogavano sulla percezione identitaria quasi come avveniva nella mia lontana infanzia domestica, quando si trattava di confidare la propria maggiore o minore benevolenza per il babbo o la mamma, potrei/dovrei proporre un trattato per concluderne se io sia italiano o sardo, se mi senta più italiano o più sardo, e magari se e come la Sardegna sia o non sia altro dall’Italia, e se e come l’Italia sia tale proprio perché c’è, nel suo centro, e foss’anche nei suoi margini, la Sardegna…

A buttarla in polemica, a chi, esultando per il risultato recente (ancora minoritario, ma certo imponente, imponentissimo) della Catalogna, e non mancando di confermare l’odio, della cui ragione non riesco ancora a rendermi conto, verso l’Italia in quanto Italia, non in quanto governo o malgoverno italiano, direi così: alcuni amici miei si sentono più maddalenini che sardi, o carlofortini che sardi, altri addirittura più ittiresi che sardi, più villacidresi che sardi e anche più villaperuccesi che sardi e addirittura che sulcitani, figurarsi che italiani o che europei. E direi che amici miei intelligenti e cari si sono dichiarati, nel capoluogo, più stampacini che cagliaritani, e anche loro figurarsi se sardi o italiani o europei…

Per questo dico che, pacificando tutti, bisognerebbe incardinare una repubblica in capo a ciascuno che non si riconosca compagno di sorte identitaria e nazionale di qualcun altro. E forse sta proprio montando un movimento che punti all’autodeterminazione piena, non esistendo in natura, sembra, il limite alla frazione. E’ un punto centrale questo. Una comunità paesana del centro Logudoro o della Barbagia di Seulo può rivendicare anch’essa il diritto alla autodeterminazione rispetto alla ipotizzata repubblica sarda? Un mio caro collega sportivo e teologo, nazionalitario (non nazionalista), confessa di aver problemi col proprio angelo custode: l’uno è per la repubblica indipendente in capo alla sua famiglia, fra Arbus e Gonnosfanadiga, l’altro conferma di muoversi su orizzonti larghi, simpatizzando per i cosiddetti valori universali, avvertendo come la condivisione degli ideali democratici e sociali sia insieme più fascinosa ed impegnativa, impegnativissima, che non la casuale comunanza geografica di una nascita. Sarebbe abuso o prepotenza imporre la sovranità sarda – dico della repubblica sarda – a chi, nella Baunei di Barranu o nella Scano dei Corronca (cito nomi nobili e cari alla mia memoria di ricercatore della storia sardista) – si sente ogliastrino o forse baroniese più che sardo, o montiferrese o planargese o forse marghinese più che sardo.

Bisognerebbe ripensarla l’Unione Europea: la Sardegna, secondo questo flusso forse capriccioso forse bizzarro forse profetico, fornirebbe un contributo di un milione, forse più, di proposte individuali, certo più che municipali o rionali, ma anche rionali, e municipali, zonali, circondariali o mandamentali o provinciali. Repubbliche autocefale.

Quale sia il contenuto della petizione identitaria non è mai rivelato, e bisognerebbe prenderlo, quel contenuto indefinito, come un assioma. Al pari di una pastiglia: un assioma prima di prendere sonno e sognare la repubblica indipendente, svincolata da rapporti giuridici e politici con qualsiasi altro soggetto della scena internazionale.

Naturalmente l’ONU, anche l’ONU, andrebbe ripensata e riatomizzata a schizzo d’energia supposta identitaria, anche e tanto perché così come è non funziona per niente e costa molto: anche le Nazioni Unite dovrebbero sottoporsi a un restyling, e moltiplicare per qualche milione – vado per ipotesi o per intuizioni – i rappresentanti nella sede plenaria. Occorrerebbe prenotare, per le assemblee generali, le grandi spiagge del Brasile o l’isola del Madagascar, poiché di capienza troppo ridotta sembrerebbe quella di Wight. Sarebbe l’internazionale delle relazioni interetniche, fuori dai condizionamenti della politica estera degli stati usciti dalla stagione storica dell’Ottocento, con il successo, pieno però di contraddizioni e insufficienze, del principio di nazionalità, minato appunto da ingordigie imperiali e coloniali.

Ripenso, navigando fra gli azzardi di una letteratura svaporata, alle micro repubbliche, contrappasso dei viaggi lunari e delle esplorazioni marziane promosse dalla NASA, contrappasso della internazionalizzazione della medicina e magari delle questioni correttive (sperabilmente interventi correttivi) in tema di clima e dunque di sviluppo e protezione dell’ambiente, per restituire l’acqua ai territori desertificati e abbandonati  da popolazioni in fuga disperata. Ripenso alle elaborazioni indipendentiste insufflate di succhi nazionalitari-nazionalisti, vi penso e ripenso leggendo le belle pagine – pagine sempre immaginifiche e sorprendenti – di Michele Columbu, personalità magica della nostra cultura letteraria che ho sempre amato e ammirato. Ma nei ripensamenti critici e autocritici smetto di incensare la repubblica autocefala e personale, e anche quella di condominio o rionale, o municipale, o circondariale, o di mandamento o provinciale e anche regionale. Perché mi sono convinto che ogni originalità interiorizzata, vissuta, educata, approfondita, valga non per sé ma perché donata in logica – può dirsi? – federativa, amando il contesto maggiore in cui la propria realtà si situa.

Come sarebbe povera la Sardegna senza l’Italia, e l’Italia – povera Italia – senza la Sardegna, e l’Europa senza la Sardegna e la Sardegna italiana, o senza l’Italia sardizzata non soltanto dai nuraghi ma anche da Lucifero ed Eusebio, da Eleonora e donna Grazia, da Azuni e Asproni e Lilliu!

All’indomani della seconda guerra mondiale, quando Cagliari riconquistava la sua vita dalle macerie a cui i bombardamenti degli alleati antifascisti/antiburgundi avevano ridotto i mattoni delle case o delle chiese e la carne di tanti umani, vi fu chi affacciò o rilanciò l’idea dell’abbandono del sito, per un trasferimento della capitale a Sassari o meglio ad Abbasanta. Perché, si riteneva, Cagliari costituiva un luogo troppo eccentrico rispetto alla trama millenaria delle relazioni infraisolane, magari delle transumanze armentizie, e poi perché non pareva proprio garantire tutti i carati della sardità vera e consolidata, pronta com’era sempre stata, anche al tempo della piazzaforte militare, ad imbastardirsi, concedendosi agli scambi con l’universo mondo attraverso quel porto che guardava l’Africa ma sognava l’Europa alta. Quanta Sardegna c’è a Cagliari? Ci si domandò per qualche tempo, impegnando gravi intelligenze. La storia andava però per altre vie, ignorate da quelle intelligenze. Cagliari città-regione, Cagliari città-sommatoria che diventa sempre più città-sintesi della Sardegna intera è un portato di questi ultimi settant’anni, dacché l’ordinamento regionale ha imposto o corretto fondamentali e coordinate, e la cultura diffusa anche televisiva, la scuola e lo spirito pubblico, le dinamiche dell’economia e la genialità liturgica della Chiesa hanno abbattuto separatezze facendoci quello che siamo, così diversi da quello che eravamo e certamente saremmo stati nel rilascio familiare interno ad una storia immobile.

Il punto è nella cittadinanza, anzi nella responsabilità della cittadinanza. Della cittadinanza in quanto tale, non importa qui il range, se isolano o continentale o planetario. E’ con le esigenze proprie di una cittadinanza matura, democratica, laica nel senso più ampio della parola ed innervato, potrei dire parafrasando l’ Arturo Carlo Jemolo di “Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni”, di spirito religioso e missionario, che noi dobbiamo promuovere relazioni portatrici di tratti identitari che non sono mai in una fotografia ma in un film, in un divenire cioè. Il contrario della museificazione, come i lefebvriani fanno con le liturgie della Chiesa: ignorando la sequenza si fanno prigionieri del fotogramma.

La mia opinione è che i legami sociali, o anzi sociali-politici fra le persone dovrebbero radicarsi in un impasto in cui i valori universali di libertà personale e civile, di democrazia partecipata, di giustizia strutturale in termini di inclusione non di selezione partigiana e viziosa – obiettivi per i quali non pochi hanno sacrificato, nel loro tempo, la propria vita (penso agli apostoli moderni, al mio Cesare Pintus e ai mille, centomila Cesare Pintus o Silvio Mastio nel mondo) – abbiano una presa ben maggiore di una astratta – astratta – conterritorialità. Diciamola così, e dico di me:  ho ben più confidenza ideale e morale con Francesco d’Assisi, che è italiano-umbro, che con Mauro Pili, sardo-iglesiente di forza nazionale, con il quale non riuscirei a condividere neppure un sorriso. E avverto una compartecipazione esistenziale maggiore con Gino Strada e don Ciotti che con Ugo Cappellacci che ha pure lui radici iglesienti, o con la fauna del politicantismo gallurese o campidanese di certi destri, e sinistri e centri a cui, malaccorti, i sardi hanno ripetutamente affidato l’amministrazione delle loro risorse e del loro futuro.

Una volta – dico tre lustri fa, forse più – stesi un copione teatrale (era il mio secondo), e lavorammo molto alle prove, nella comunità di padre Morittu a Campu’e Luas. Volevo onorare l’amico mio complesso e sfortunato Baingio Piras, e per questo allestii un canovaccio conversativo, evidentemente surreale, fra Sebastiano Satta, Totò, Gesù Nazareno e padre Morittu stesso, figure iconiche, rappresentative ciascuna di uno specifico sentimentale e intellettuale. Al centro del dibattito era proprio la questione della identità. Per convenienze sceniche costrinsi (e non lo meritava) Sebastiano a mettere i panni del sardo timoroso di quelli che vengono dal mare, colonialisti sempre (secondo una certa vulgata), a fronte di Gesù e del francescano fra Salvatore dall’ansia piuttosto universalistica, e di Totò a mezza strada fra il radicamento cultural-territoriale della sua Napoli e le ammissioni obbligate e savie della livella. Ognuno portava i suoi argomenti, ma gli umori (o i malumori) dovevano poi evolvere in sentimento, e questo poi in riflessone ragionata e morale.  Questa era la tesi che intendevo affermare, ma quel che importava più di tutto in quella esperienza chiamala pure didattica, era la partecipazione critica, meditativa, dubbiosa anche, di ciascuno secondo la propria misura, dei ragazzi chiamati sul palco, protagonisti e coprotagonisti, provenienti uno da Usini e uno da Guspini, un altro da Sassari e un ulteriore da Pirri, e Sant’Avendrace e Quartu, da Alghero e Oliena…

Alcune settimane fa mi è capitato di vedere alla televisione il film di Luigi Magni “In nome del popolo sovrano”, del 1990. Evocava le vicende esaltanti e drammatiche della Repubblica Romana del 1849, quella in cui cadde ventenne, ucciso dal fuoco francese chiamato dal papa Pio IX, il nostro Goffredo Mameli. Quella Repubblica abrogò la pena capitale, il papa che la pena l’aveva sempre applicata la ripristinò dopo la sconfitta dei rivoluzionari, la sconfitta del triumvirato Mazzini-Saffi-Armellini, di Garibaldi che abbandonò il terreno con la sua Anita morente, del barnabita Ugo Bassi ucciso con sacrilegio da altri suoi confratelli sacerdoti-sinedriti. E vedendo scorrere quelle immagini, ascoltando quel parlato, riponendomi attraverso quelle suggestioni filmiche la grande questione del rapporto Stato-Chiesa, temporale-spirituale – materia di studio che ha impegnato molti anni della mia vita – con tutti gli aggiornamenti e tutte le proiezioni che possono ipotizzarsi nel tempo nostro in specie a riferirci alle questioni della bioetica, della morale familiare ecc. – m’è venuta spontanea una domanda: ma un approccio nazionalitario alla politica che livello e qualità di interlocuzione potrebbe avere avuto con quel passato problematico e avrebbe con questo nostro oggi non meno complesso? La politica – questa è la mia opinione – vale l’equivalenza delle categorie universali, soltanto di quelle che impegnano insieme principi ideali ed interessi. E i partiti che interpretano la politica, cioè l’interesse generale nel tempo che è dato, soltanto di valori universali possono trattare per tradurli in savia legislazione od amministrazione. A meno che non si voglia ridurre un partito politico che concorre alle elezioni ad una lobby tematica. Per il che bisognerebbe però fare più scoperto il discorso. Cosa vuole essere il nostro Partito Sardo d’Azione?

Lavorando attorno ad alcune carte dell’immenso archivio massonico che ho raccolto, mi è occorso, giusto avant’ieri domenica santa, di recuperarne una a firma nientemeno che di Armando Businco, ogliastrino di nascita, democratico mazziniano di formazione ideale, militante – direi quasi fossero un’unica formazione, lungo ben sessant’anni spalmati nel Novecento – dei repubblicani e dei combattenti, dei sardisti e dei gielle, degli azionisti e ancora dei sardisti e dei repubblicani, dal 1914 al 1967: nel 1914, quando anche Lussu era repubblicano (come erede di quel filone fu poi riconosciuto nel mosaico politico-ideale della prima stagione di GL), iscritto alla sezione repubblicana di Cagliari; dopo la grande guerra, partecipante alle competizioni amministrative provinciali con il PSd’A ancora di fresca formazione (rappresentante lui della sezione di Baunei, del paese che vedrà un giorno l’arresto di Titino Melis accusato, con Ugo La Malfa, d’esser parte della rete clandestina antifascista della Giovane Italia, rete a sua volta imputata dell’attentato alla Fiera di Milano); nella dolente e tremenda stagione della dittatura e della lotta resistenziale, a Bologna e ancora nei treni diretti al lager tedesco (da cui sarebbe fuggito per l’intervento provvidenziale dei partigiani padani)  gielle ed azionista; nel secondo dopoguerra candidato del PSd’A al Senato (nei collegi di Cagliari e di Oristano) alle prime elezioni parlamentari della Repubblica, nel 1948; solidale con l’alleanza sardista-repubblicana degli anni ’60, gli ultimi suoi, quando Ugo La Malfa in visita in Sardegna non mancava mai di andare a trovarlo, fosse egli, ormai vecchio, a Cagliari o a Tonara…

Armando Businco, nome fra i più illustri e benemeriti della medicina italiana nel Novecento, a cui giustamente a Cagliari è stato intitolato l’ospedale Oncologico regionale. Giovane neppure trentenne, incardinato dalla iniziazione rituale alla loggia Karales, ricusando una promozione giusto nei giorni in cui l’Italia entrava in guerra, scriveva:  «Con sempre viva fiducia nella nobile opera della Massoneria e nell’avveduta guida dei nostri Maestri, auguro a costoro e alla Associazione maggiori trionfi e soddisfazioni in una patria finalmente unificata nel segno di Mazzini e di Dante».

Mazzini e, nel maggior corso, Dante fiorentino sono estranei al nostro ieri e al nostro oggi, lo saranno al nostro domani di sardi? E’ credibile che noi abbiamo con il loro nome, con il loro vissuto, con la loro opera un rapporto della stessa cifra di quello che potremmo avere con personalità e autori della Francia o della Russia o dell’Africa? Non è né può essere soltanto la stagione delle repubbliche marinare a dire di una Sardegna italiana, mi sembra ci sia qualcosa di più che colleghi non soltanto le élite, nella traversata dei secoli, la Sardegna alla Italia per come l’Italia era e si presentava, come realtà fisica e genericamente culturale, non certo come soggetto politico ancora difettoso o inesistente.

A me pare nobile quanto, giusto nell’anno della terza guerra d’indipendenza, i massoni cagliaritani che pure – con Vivanet e Gavino Scano il magnifico, con Uda, Tanda, Mossa, con i Satta Musio, compreso don Arcangelo rettore di Orune e Marreri – ecc. facevano professione di fede eleonoriana inciampando tutti nei generosi falsi d’Arborea, lanciarono come proclama al Veneto che doveva/voleva farsi italiano: così come noi sardi elettivamente arborensi lottammo contro l’invasore aragonese, così voi veneti lottate coraggiosamente contro l’Austria imperiale, ché l’Italia è un sogno di provvidenza! e non poteva essere, l’Italia di provvidenza, né l’ordinamento monarchico e centralista in quanto tale né alcuna altra sua istituzione diplomatica o militare. Doveva essere l’Italia delle comunità territoriali riunite per godere del meglio, in diffusione, di quanto nei secoli il genio e il lavoro nelle diverse terre e città della lunga penisola avevano prodotto.

Ritorno a Bellieni e alla sua lettera del 1920 indirizzata agli amici cagliaritani, che tante volte ho richiamato nelle riflessioni su questa santa e terribile materia della nostra identità sarda-italiana.  E ne lascio la riposata lettura e meditazione a chi lo voglia. Ma penso alla nostra emigrazione, ai nostri fratelli e figli e nipoti sparsi per i continenti del mondo – numericamente un’altra Sardegna –, l’emigrazione per la quale sarebbe forse sgradevole stampare tessere e passaporti (è tempo di nuovi passaporti questo!) per venirsene a far vacanza nella repubblica indipendente autocefala, magari governata da forza nazionale e dalla lega in combine.

Chiudo qui, per adesso. Il cambio recente di segreteria politica nel PSd’A, con la chiamata al ruolo di vertice di un intellettuale certamente d’eccellenza come è Giovanni Columbu, dopo tanta prolungata penosa leadership padronale di uomini non all’altezza, sembra abbia smosso qualcosa all’interno del partito che cerca di ridefinire la sua missione e insieme, evidentemente, le sue proprietà, la sua fisionomia, il suo messaggio pubblico. La adesione recente comunicata da Salvatore Cubeddu, che negli anni passati aveva avuto anche lui compiti dirigenziali di responsabilità, ne è stata una avvisaglia comunque interessante e spererei feconda se liberata dai dogmi nazionalitari.

Perché tutti abbiamo amato Antonio Simon Mossa, l’arcangelo del sardismo utopista degli anni ’60, attento alle sensibilità prepolitiche degli autonomisti. Nipote di quel Lorenzo – Renzo – Mossa, sassarese, che fu uno dei maggiori giuristi italiani del Novecento, direi di fianco a Giuseppe Lampis, che da ragazzo aveva sofferto, innocente, un anno di Buoncammino per le accuse di partecipazione sediziosa ai moti contro il carovita (era il 1906) e in età matura era divenuto giudice costituzionale della Repubblica! Mossa e Lampis, democratici rimasti tali nella dura traversata della dittatura, mazziniani sempre (meriterebbe di essere ricordata una pagina del 1946 proprio di Renzo Mossa, richiamante il sentimento apostolico dei mazziniani sassaresi e sardi già prima della dittatura, quando comandavano i prefetti e i delegati di polizia). Simon Mossa raccolse quei succhi etici rielaborandoli in chiave libertaria nel sogno emancipativo delle minoranze etniche e linguistiche, quelle delle lingue tagliate. Chi è venuto dopo, nel PSd’A, ha sostituito l’icona appassionante di Simon Mossa a quella di Lussu, a quella di Giovanni Battista Melis, a quella della classe dirigente del sardismo estintasi, per debito di natura, e quasi in accelerata, tutta o quasi nel ciclo ultimo del quale mestamente celebriamo, giusto in questi mesi, il quarantesimo anniverario: perché nel marzo 1975 perdemmo Lussu, ma a dicembre perdemmo Bellieni e Anselmo Contu, e nel luglio 1976 perdemmo Titino, l’avvocato dei poveri sottoproletari cagliaritani come l’avvocato dei poveri barbaricini era stato Luigi Oggiano, un altro mazziniano la cui figura ancora attende un biografo.

Il limite, a mio avviso, del progetto di Simon Mossa – che tanto cambiò, in progress, il Partito Sardo almeno a far data dal congresso sassarese dell’autunno 1965 – fu quello di aver portato a livello politico, facendone il “tutto” del Partito Sardo – una istanza che doveva rimanere all’interno del dibattito culturale, in relazione certamente con la politica, ma non in sostituzione di essa. Perché la politica, o la storia politica, del Partito Sardo non poteva essere quella, riduttiva, delle lingue tagliate e delle minoranze etniche: era una storia che pensava insieme – insieme – sardo e italiano e europeo, ripensava il passato e viveva da protagonista, con nuovi slanci, il presente. Lo aveva pensato, quel passato preparando il futuro, il Partito Sardo, con i mazziniani e i cattaneani negli anni ’20 (ché si riconosceva, apertis verbis, in Mazzini e Cattaneo i profeti della civiltà democratica e sociale della nuova Italia) e con essi ancora all’esordio della stagione autonomistica, quando Ferruccio Parri e gli altri della maggior dirigenza repubblicana erano accorsi a sostenere le bandiere sardiste, rinunciando alle proprie nate fra le Fratellanze operaie e con l’edera a simboleggiare la Giovine Europa; lo aveva pensato negli anni ’50 partecipando, con Michelangelo Pira, con Piero Soggiu, ecc., ai dibattiti culturali e politici dell’Italia migliore – quella del “Mondo”  di Pannunzio, del Partito Radicale di Villabruna e Valiani allora appena costituitosi – alla ricerca della “terza forza” fra i blocchi armati dei democristiani e dei social-comunisti; lo aveva pensato ancora facendo lista alle politiche del 1958 con Comunità di Adriano Olivetti e il Partito dei Contadini piemontes, e diffondendo con Michele Columbu, di fianco a “Il Solco”, un giornale chiamato “Sardegna italiana”; lo aveva pensato di nuovo, nella incorrotta fedeltà ai principi, nel recupero della solidarietà politico-elettorale con i repubblicani, fino a portare Giovanni Battista Melis – l’eccellenza politica del PSd’A cioè – in parlamento fino al 1968.

Si saldava quella storia – che non era “una”storia, ma “la” storia del Partito Sardo d’Azione – a tutte le premesse, pur non sempre nel preciso dettagliate, degli anni ’20, quando comunque viaggiavano insieme le squadre d’avanguardia antifascista dei lussiani e dei mazziniani, a Cagliari e nelle città o nei paesi dell’Isola; si saldava alla militanza che era la stessa per Michele Saba, Francesco Fancello e Anselmo Contu – Giustizia e Libertà – negli anni in cui l’apostolato democratico, quello mosso ed orientato dai valori universali, non dal nazionalitarismo senza occhi, e neppure dalle convenienze delle sante bonifiche in cambio dell’appoggio al PNF (leggi fasciomori), comportava la galera.

Naturalmente seguo le vicende del Partito Sardo d’Azione – un partito che non ho mai votato ma che ho sempre amato per la generosità morale e ideale del suo imprinting – da posizioni esterne od estranee, ed estranee tanto più da quando gli ideologismi nazionalitari, che io considero intimante reazionari, hanno fatto premio sui fondamentali di quella comunità politica nata, come ricordava sempre Giovanni Battista Melis, nelle trincee della grande guerra: la terribile carneficina che valse almeno a portare entro i confini riconosciuti gli italiani costretti alla soggezione imperiale di Vienna. Di più, e valga ripeterlo: quella comunità politica nata all’interno della scuola risorgimentale democratica italiana, della scuola delle anime controcorrente, avanzate nella ricerca delle migliori condizioni di giustizia e libertà ora nel superamento dei vincoli oppressivi monarchici e centralisti, e protezionisti in economia, ora nell’infiatamento liberale della società come anche nelle salvaguardie mutualistiche dei ceti poveri. Premesse tutte ed accompagnamento  a uno sviluppo dell’ordinamento in termini di repubblica e di autonomia delle popolazioni territoriali, nel federalismo regionalista Cattaneo, nel comunalismo Mazzini, ma sempre all’interno di un vincolo politico di civiltà – di civiltà –, quello dell’Italia risorgimentale e provvidenziale, e nel sogno federativo europeo.

Certamente il vuoto ideale presente sulla scena politica generale ha preso e schiacciato (valga ripensare alla leadership padronale di Giacomo Sanna, offensiva anche del ricordo dei grandi vecchi, ultimo e a me carissimo Mario Melis) anche il Partito Sardo. Non poteva che essere così. Esso ha sofferto negli ultimi anni, e forse decenni, di una screditata classe dirigente talché non s’è neppure posta la più elementare delle domande: ma se questa nostra Sardegna potesse – e non potrà, fortunatamente non potrà mai – diventare un ordinamento statuale indipendente, a quale classe dirigente potrebbe affidarsi la sorte delle nostre popolazioni, dei nostri ceti umili più bisognosi di inclusione e futuro?

 

Condividi su:

    Comments are closed.