Bathalla, romanzo di Elia Pili, presentato da Antonello Angioni
Il romanzo di Elia Pili è stato presentato lo scorso 22 giugno 2023 presso l’ Orto dei Cappuccini, a Cagliari dall’avv. A. Angioni. Nel ringraziarlo per la disponibilità del suo intervento, avvisiamo il lettore che, in questo fine settimana – 30 giugno/ 1 luglio – a Sanluri verrà riproposta la rievocazione storica dell’evento.
Oggi presentiamo Bathalla, di Elia Pili. L’opera, di agevole lettura, si sviluppa su due registri narrativi: la storia e il romanzo. In pratica una vicenda storica, la battaglia di Sanluri, combattuta nel 1409, si mescola a figure e personaggi nati dalla fertile invenzione dello scrittore. Ma intorno alla grande “Storia” – quella con la “S” maiuscola – si sviluppa tutto il dramma di un popolo. In Sardegna erano tempi duri: la fame e la miseria, accentuate dalle ricorrenti carestie, imperversavano ovunque.
Le vicende oggetto di narrazione e i personaggi che ne sono protagonisti sono in parte reali e in parte immaginati, anche se la linea di confine, tra realtà e fantasia, non sempre è nitida e facile da individuare. Alla vicenda oggetto di narrazione fa da sfondo un borgo rurale della Sardegna degli inizi del Quattrocento, sito nel Giudicato d’Arborea. L’autore descrive questo mondo arcaico con i suoi ritmi quotidiani: il lavoro, la religione, la superstizione, i momenti di festa, il matrimonio, le tradizioni, le febbri malariche.
E lo fa arricchendo il racconto con belle descrizioni di paesaggi naturali e antropici: il castello giudicale di Las Plassas, le colline di Serrenti, la piana assolata di Barumini, il villaggio di Mara Arbarey (attuale Villamar), le chiese, il castello di Sanluri. E poi il temporale estivo, annunciato dalle nuvole gonfie di pioggia e dai tuoni, che avrebbe ingrossato a dismisura il fiume (il rio Mannu) con gravi conseguenze sull’esito della battaglia.
Bello anche il racconto sull’antica tradizione dei “compari de frores”, che ci riporta alla festa agricola di San Giovanni che ricorre il 24 giugno: tradizione probabilmente introdotta dai monaci provenienti dall’Isola del Giglio, giunti in Sardegna al seguito dei pisani. In quella notte, i giovani saltano insieme il falò e diventano appunto compari, cioè Santuannis, come si dice in lingua sarda: termine che richiama San Giovanni.
Tra i personaggi, a parte Joàn che è il principale protagonista del racconto, assai interessanti sono le figure del curato del paese, del vecchio e saggio monaco, del banditore di Guglielmo di Narbona e, soprattutto di Violette, la bella musicante che avrà un ruolo importante nella vicenda umana di Joàn. E poi la guaritrice, zia Rosa, che mischia invocazioni ai santi e formule magiche, segni di croce e amuleti. Ciò a conferma di una religiosità sacro-pagana delle popolazioni della Sardegna di allora (e, in parte, anche di oggi). Del resto la nostra Isola ha visto la confluenza di riti pagani e riti cristiani (in particolare quelli propiziatori della primavera).
È una terra in cui simbologie, credenze e rituali cristiani si fondono con elementi culturali e materiali del substrato pagano e magico. Se assistiamo a una qualunque delle nostre grandi sagre – ad esempio quella di Sant’Efisio – possiamo osservare che, nei preziosi costumi femminili, rosari, amuleti, ex voto e talismani convivono e si confondono. Qui la gente ha una religiosità antica, carica di echi e suggestioni, una spiritualità cristiano-pagana che affonda le radici nella cultura dei vari dominatori dell’Isola. Si è in presenza di un sentimento religioso forte e radicato che, essendo troppa la distanza da Dio, spesso, si concretizza attraverso l’invocazione verso santi “intermediari”, quali Santa Barbara e San Giacomo, oggi – attraverso i cammini religiosi – al centro di importanti processi di recupero e valorizzazione anche in chiave turistica.
In questo mondo statico, rurale, irrompe la guerra, annunciata dal banditore di Guglielmo che avvisa tutti affinché si preparino a combattere. E poi si sentono gli squilli di tromba e il rullìo dei tamburi seguiti dal rumore metallico di spade, elmi e alabarde. L’autore riesce a ricostruire il clima di allora attraverso dettagliate scene della battaglia. Una guerra che si doveva combattere, in un clima di disordine e agitazione, senza sapere nemmeno contro quale nemico.
Si viene così a formare un esercito improvvisato, fatto da giovani agricoltori e braccianti, scalzi e malvestiti, che – armati di forconi e roncole e, nella migliore delle ipotesi, di fionde, coltellacci e qualche vecchio stocco arrugginito – si doveva unire alle truppe regolari del Giudicato d’Arborea e a quelle pisane e genovesi appositamente giunte per cercare di bloccare l’espansione catalano-aragonese nell’Isola. Nell’esercito locale – come evidenzia l’autore – regnava la totale confusione: nella sostanza, nessuno comandava ma tutti impartivano ordini.
È la battaglia di Sanluri, Sa Battalla, che vede, da un lato, le truppe a sostegno del giudice Guglielmo III visconte di Narbona-Bas e, dall’altro, l’esercito di Martino il Giovane, re di Sicilia, che risultò superiore sul piano organizzativo oltre che militare in senso stretto. L’esercito siciliano disponeva anche delle bombarde, armi micidiali, che i sardi non possedevano, in grado di seminare terrore. Una battaglia, realmente combattuta tra il 30 giugno e il 1° luglio del 1409 che, col suo esito, l’anno seguente, determinerà la fine, di fatto, del Giudicato d’Arborea che si estinguerà anche di diritto nel 1420.
Nel ricordo di questa battaglia si mescolano storia, tradizione e invenzione. Lo scontro, tra l’esercito catalano-aragonese e le truppe giudicali si concentrò in una località che prenderà il nome di Su Bruncu de sa Battalla. Peraltro l’annientamento dei soldati del Giudicato d’Arborea in fuga avvenne nei pressi del rio Mannu, in un luogo che significativamente viene tuttora indicato come S’Occidroxiu: termine che non possiede un omologo di pari efficacia nella lingua italiana. Fu un vero massacro dove centinaia di giovani sardi perirono. La carneficina poi proseguì nel centro abitato di Sanluri, anche con saccheggi e razzie.
Ma qui, secondo la tradizione, la brutalità della guerra si stempera nella leggenda: una bellissima ragazza, la Bella di Sanluri (forse di nome Giovanna o, come scrive Pili, Maria), si sarebbe offerta al vincitore Martino il Giovane e, per vendicare il suo popolo, nel giro di poche settimane, lo avrebbe “consumato” in un amplesso amoroso. In realtà Martino morirà a Cagliari di malaria e, con lui, si estinguerà la dinastia dei conti di Barcellona. Non il Regno degli Aragonesi che, a seguito del compromesso di Caspe del giugno 1412, verrà governato dalla casata dei Trastamara, vale a dire da Ferdinando I.
Quella bruciante sconfitta segnerà profondamente il destino della Sardegna ponendo fine alle aspirazioni giudicali e, per molti secoli, di autogoverno. Il 29 marzo del 1410 verrà firmata, tra Pietro Torrellas (luogotenente generale di Martino il Vecchio) e Leonardo Cubello (capo della fazione degli Arborea contraria alla guerra), la pace che comporterà la definitiva capitolazione del Giudicato. A Leonardo verrà assegnato il Marchesato di Oristano, divenuto feudo della Corona d’Aragona.
Ancora oggi, a distanza di secoli, il ricordo della battaglia di Sanluri conserva un amaro sapore di rimpianto. Ed è forse questa la ragione per la quale lo stemma dei giudici d’Arborea (la quercia dalle radici divelte, verde in campo bianco argento), giunto sino a noi con i suoi colori sbiaditi, evoca i segni e il retaggio di un antico splendore rimasto come incagliato nelle pieghe oscure della storia e suscita il sentimento della nazione incompiuta. Ed è per questo che, per noi sardi, la quercia degli Arborensi rappresenta anche il simbolo di un’antica dolorosa frattura, di una ferita ancora aperta, il cui ricordo ci richiama alla nostra condizione attuale di subalternità, di sottosviluppo e di insicurezza.
Antonello Angioni