Limba de campu Limba de zittade, Lingua rustica Lingua della città, di Bachisio Bandinu

Pubblichiamo la relazione del presidente della Fondazione Sardinia al convegno del 28 novembre 2014: Ratifica della Carta Europea delle lingue regionali o minoritarie e nuove linee di politica linguistica in Sardegna.

C’è ancora chi recentemente ha affermato essere il sardo “una lingua di fatto rurale, che ha assimilato solo indirettamente i termini più propriamente legati alla vita e alla cultura cittadina”.   Si insiste cioè sulla   “arcaicità, sulla rusticità, sul carattere precipuamente concreto, sulla provenienza essenzialmente plebea e rurale del lessico sardo” (Wagner), e persiste nella credenza di una lingua sarda “estremamente povera di termini astratti e di tutte quelle voci che attengono a un ordine di idee un po’ elevato”.

Da qui la falsa credenza che la lingua sarda sia povera e rozza, incapace di parlare l’attualità della nostra storia e di elaborare le più diverse espressioni della cultura. Insomma c’è un peccato originale, la sua estrazione campagnola, ferma a un rapporto strettissimo tra parola e cosa. Appunto una lingua di cose, tipica delle società primitive che non hanno ancora sviluppato la capacità di astrazione. Quasi che la parola sia estensione della cosa.

Ciò che preoccupa è il fatto che  tutte queste affermazioni provengano dal mondo universitario e quindi da docenti che trasmettono tali credenze ai loro studenti.  Eppure tutti gli studiosi di linguistica hanno affermato che ogni lingua può parlare il mondo ed è capace di esaudire tutte le esigenze del proprio tempo. Roman Jakobson ha scritto: “Le lingue differiscono essenzialmente per ciò che devono esprimere, non per ciò che possono esprimere”. J. Lacan ha puntualizzato : “Qualsiasi lingua copre tutto il campo delle significazioni”. T. Todorov ha osservato che ciascuna lingua “ricopre la totalità del dicibile” anche se tende a dare maggiore rilievo agli aspetti che meglio riflettono i propri modelli culturali e il proprio ambiente fisico. E ha aggiunto che “ogni linguaggio è destinato a specifiche funzioni ma contiene in sé una vocazione totalizzante”.

Eppure resiste l’ingenua convinzione che il linguaggio sardo riproduca il reale e si fondi sull’osservazione immediata delle cose presenti: linguaggio degradato a semplice mezzo. Quando si dice “resorgia”, coltello, la parola correrebbe all’oggetto e, invece, la parola “resorgia” inventa metafore, crea forme simboliche che non fanno riferimento alla cosa. Il linguaggio invece trova la sua inesauribile fonte espressiva in se stesso come linguaggio, non nella supposta limitatezza di un ambiente di vita. A conferma si possono citare ancora studiosi di grande rilevanza. P. Ricoeur ha scritto che il linguaggio non è solo parole e cose, e neppure parole che rinviano a parole: è soprattutto “forme oggettive” in cui l’esperienza si organizza. La lingua si distacca dai fatti perché ha una funzione simbolica, “procede per elaborazione di indici concreti”.

Non conta la parola-oggetto, ciò che più conta è l’attività degli schemi mentali dell’operazione discorsiva. (Quine)

Ma già nel periodo di vita di Wagner, gli studi di linguistica, di filosofia del linguaggio, di antropologia del linguaggio, contraddicevano fermamente questa concezione mimetica del linguaggio.

La lingua non è un semplice mezzo per nominare le cose. “Nominare non è distribuire i nomi ma chiamare dentro la parola”. (Heidegger)

Gli studi di linguistica che hanno osservato il rapporto tra il segno e l’oggetto rappresentato, e tra significante e significato, smentiscono il discorso concretista del linguaggio-oggetto. Benveniste ha dimostrato chiaramente come il pregiudizio “concretista” sia insostenibile. F. Saussure scrive: “Il fondo del linguaggio non è costituito dai nomi. È un accidente quando si trova che il segno linguistico corrisponde a un oggetto definito dai sensi, come un cavallo o il fuoco o il sole… l’oggetto è un essere esteriore…il linguaggio non è una nomenclatura di oggetti”.

Ma è dall’analisi del parlare sardo che si evince quanto la lingua sarda sia lontana da un linguaggio di cose, dal parlare diretto, da una concreta e obbligata relazione tra parola e oggetto.

Il parlare in sardo è massimamente ambiguo. La parola non coincide strettamente con la cosa, non coincide totalmente neppure col significato suo, perché ha con esso rapporti instabili. Il linguaggio non è la rappresentazione  e la definizione del vero. Un’espressione verbale non corrisponde precisamente a un vissuto del corpo: è parola, invenzione, provocata da quel vissuto. La lingua non è un ammontare di parole, ha invece la capacità di creare metafore, di inventare linguaggi. Nel rapporto tra parole e cose, tra parole e parole, tra parole e contesto, in sardo, si ha una forte tendenza al mascheramento della parola, all’uso metaforico. Basterebbe analizzare l’uso del congiuntivo e del condizionale che, come ha osservato Placido Cherchi, rimanda ad una possibilità d’essere, cioè ad altro rispetto alla realtà effettuale. O si pensi alla forme linguistiche dell’antifrasi e dell’ellissi del parlare in sardo.

Habermas osserva come il linguaggio non sia soltanto un medium comunicativo. Le strutture linguistiche comportano la creazione di una complessa organizzazione culturale e coordinano persino il comportamento inconscio. Questa dimensione pragmatica del linguaggio nei confronti del proprio contesto non esclude anzi sollecita l’elaborazione espressiva per cui si formulano frasi nuove e si rinforzano le capacità esecutive a partire dalla conoscenza e dalla competenza della propria lingua.

In definitiva, non esiste un deficit della lingua, bensì dei parlanti, ai quali dunque bisogna dare le pari opportunità di parlare sardo e italiano in tutte le strutture, le funzioni e l’uso della vita sociale, economica e culturale. Attuare in pratica la pari dignità delle due lingue. E quindi parlare anche in sardo nelle scuole, nell’amministrazione, nelle attività lavorative. Grande importanza hanno la televisione, radio, siti Web, social network, e l’utilizzo di Internet. Una precisa volontà politica di parlare in sardo e in l’italiano lo sviluppo economico, le trasformazioni sociali e la mediazione culturale.

Impedire le parole vuol dire anche impedire che alle parole seguano i fatti. Alle parole sarde ritrovate ed elaborate possono seguire fatti nuovi. Parlando oggi in sardo noi non riproduciamo il passato, facciamo i conti con l’esperienza viva del presente e organizziamo in un certo modo l’immediato futuro. Le parole non possono essere che in stretto riferimento al territorio e alle persone che lo abitano. Raccontano la storia quotidiana, parlano  il luogo e il tempo del nostro abitare, lavorare e comunicare.  Il  connubio più ricco di promesse è la relazione strettissima tra lingua sarda e identità, allargando il campo da una semplice identità emotiva, psicologica, al formarsi di una identità politica, economica, territoriale che investa tutto il sistema produttivo. Coscienza del valore delle proprie risorse umane e materiali.

 

Non si tratta soltanto di una difesa della lingua come patrimonio storico e come universo di affetti, di riconoscimento e di appartenenza, ben più importante è la scommessa dell’investimento politico, economico e culturale: come legare il parlare a un fare, un modo di parlare a un modo di fare, una ricchezza di linguaggio riversata sulla progettualità e attuazione di programmi. Secondo il motto: le cose si dicono facendole e si fanno dicendole. Non si attua una politica linguistica senza la convinzione del valore identitario della lingua, del suo carattere di attualità nel parlare le cose e gli eventi, nella relazione con possibili modelli di sviluppo economico e sociale.

Il discorso sulla lingua è propriamente un discorso politico perché riguarda tutti cittadini che hanno il diritto di parlare anche la propria lingua storica.

Una volta che si condividano questi punti fondamentali e che vi sia dunque la volontà politica di promozione e valorizzazione della lingua sarda, nelle scuole, nei media e nei luoghi della comunicazione,  tutte le problematiche riferite alla scelta di uno o più standard, riferite alla didattica, ai metodi dell’insegnamento, alla formazione degli insegnanti, sono assolutamente risolvibili.

Bachisio Bandinu, presidente della  FONDAZIONE SARDINIA

Cagliari, salone di Palazzo Viceregio, 28 novembre 2014

 

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    2 Comments to “Limba de campu Limba de zittade, Lingua rustica Lingua della città, di Bachisio Bandinu”

    1. By Stevini, 2 dicembre 2014 @ 09:42

      Bellu scrittu Bachis ma… tengiu bisongiu de ddu liggi in sardu, de ddu argumentai in sardu, de ddu penzai in sardu… cali-chisiat sardu.

    2. By Mario Pudhu, 29 novembre 2014 @ 22:34

      Bachis, cantu tenes resone!
      Ma intantu sighimus a fàghere sos pistadores de abba ca s’italianu si no nos at intzegadu nos at furminadu.