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La Sardegna ha una classe dirigente e politica all’altezza della crisi che sta vivendo? di Salvatore Cubeddu

Posted By cubeddu On 25 aprile 2013 @ 06:17 In Blog,Politica sarda,Questione sarda,Sa die de sa Sardigna | Comments Disabled

Sa die de sa Sardigna 2013. Sas chimbe preguntas, a nois. Custa est sa prima.

Nos bidimos in su Pal. Vic. in Casteddu, sabado 27/04/2013, a sas 10,00.

E’ la prima delle domande, nel metodo e come importanza. La facile risposta è …..

La Sardegna ha una classe dirigente e politica all’altezza della crisi che sta vivendo? di Salvatore Cubeddu

E’ la prima delle domande, nel metodo e come importanza. La facile risposta è NO, la classe dirigente e politica sarda non è all’altezza della crisi. Altrettanto facile, la controdeduzione: ma quale classe dirigente è all’altezza della propria crisi (fino a considerare l’ormai secolare snodo problematico della civiltà occidentale):  la classe dirigente italiana, quella europea, gli organismi internazionali? E la crisi della Chiesa, delle chiese, delle religioni, della religione?

Se è giusta la domanda, non è sempre nel corso della crisi che noi riusciamo a verificare la capacità di rispondervi. Perché al momento non si dà una risposta risolutiva a  nessuna di queste crisi, tantomeno di quella sarda. Se siamo in tale condizione vuole certo dire che non siamo stati in grado di impedirla. Chi ha compiti dirigenti, e ciascuno ai propri livelli e responsabilità. Ma poi, questa crisi sarda: cos’è, da quand’è che la stiamo vivendo, cosa c’è di nuovo in questi tempi ultimi (quelli che coincidono con il precipitare della catastrofe italiana)?

Oggi i sardi condividono con gli italiani i problemi della mancanza di lavoro, della forte riduzione del reddito, dell’incertezza del destino delle giovani generazioni, della crisi del sistema politico e istituzionale. Ma tutto questo lo vivono da più tempo e in misura più intensa e significativa. In aggiunta, i sardi si confrontano con problemi determinati dal ruolo di servizio che lo Stato  permette, o direttamente impone, alla Sardegna, come terra (… e aria e …  acqua … e vento … e sole … ) e come popolo abitante e titolare di essa.

Giustamente le chiamiamo servitù: militari, industriali, turistiche, energetiche, agricole, culturali, istituzionali … Nel tempo i nostri studiosi hanno racchiuso il rapporto intercorso tra la Sardegna e l’Italia (ma bisogna tornare anche indietro nel tempo) nei concetti di colonialismo, dipendenza, sfruttamento neocoloniale … Evidentemente questi specialisti  definiscono i sardi nel ruolo di colonizzati, sfruttati, dipendenti, servi. Le nostre classi dirigenti svolgono un ruolo sussidiario – di appoggio e/o di accettazione – di tale nostra condizione. Forse potremmo concordare in tanti nel descrivere il rapporto della Sardegna con lo Stato/nazione italiano/a italiana nei termini dello sfruttamento e dell’abbandono, in congiunzione o in alternanza a seconda del tempo e delle situazioni. In tutti quegli ambiti di cui abbiamo parlato prima.

Un esempio del passato: per circa un secolo il capitale italiano e quello straniero si sono impadroniti delle miniere sarde, le più ricche d’Europa. Trent’anni fa queste sono state chiuse per esaurimento del minerale. Alla Sardegna sono rimasti pensionati, malati e morti di silicosi, inquinamento del territorio senza risanamento né indennizzi. Oggi, un altro fatto pericoloso va crescendo sotto i nostri occhi: la trasformazione delle poche pianure dell’Isola – per il cui risanamento dalla malaria e per la cui bonifica si sono impegnati politici, tecnici ed enormi capitali – in terreno di coltura del cardo in funzione dell’industria sperimentale di P. Torres (con imitazioni a Villasor e Cagliari). Abbiamo un altro precedente simile: alla fine dell’Ottocento i caseari romani incrementarono la pastorizia rendendo conveniente ai proprietari di terre l’espulsione dei contadini, ma poi taglieggiarono i pastori che le affittavano attraverso il monopsonio del latte. Il monopsonio del carciofo porterebbe alla negazione di qualsiasi ipotesi di sovranità alimentare e di nuova ripresa delle campagne, con la fine definitiva della produzione alimentare dal nostro territorio.

I Campidani, la Nurra, la piana di Ottana, le pianure devono ricostruire la nostra riserva alimentare, rendendoci progressivamente autonomi dalle importazioni (Matrica incentivi eventualmente le colture nei soli terreni marginali ed importi il cardo dai mercati esterni). Ritorna, infatti, il tema della ruralizzazione come nuovo orizzonte di senso, di lavoro e di cultura per giovani sardi intelligenti ed intraprendenti ….

Ci fermiamo a questo cruciale esempio … estensibile ai campi in cui operano gli attivisti contro l’intensificarsi delle presenza armata nelle nostre terre, ai lavoratori che vogliono opporsi all’assistenza difendendo un lavoro produttivo, alle popolazioni che affermano il naturale diritto dei sardi anche sul proprio sottosuolo, sulla piattaforma marina e sul proprio vento-sole-mare. E  perché non apprezzarci reciprocamente come, elettori e popolo, per avere imposto con l’approvazione dei 10 referendum il cambio di marcia ai nostri politici e alle nostre istituzioni?

Ma, a quasi un anno … tutto tace, i dieci referendum sono lettera morta, a iniziare dal tema dell’assemblea costituente del Popolo sardo. Funziona nuovamente la pena di Tantalo che ci fa riiniziare tutto d’accapo la risalita della nostra libertà. La logica vertenziale rimanda all’altrui disponibilità la risoluzione dei nostri problemi. Lavoratori e popolazione hanno compiuti in questi anni fatti straordinari. In Sardegna e nel territorio italiano. Con risultati, però, irrilevanti. Prendiamone atto. Siamo, quindi, obbligatoriamente al giro di boa dell’indispensabilità di un nostro protagonismo diretto, della fine dell’inutile attesa di salvatori d’oltremare, della responsabilità nell’utilizzare le nostre risorse per rispondere ai nostri bisogni. Attenzione: le risorse sono nostre, ci servono, difendiamole e serviamocene.

Siamo di nuovo al problema di sempre. Può andare male all’Italia e sicuramente andrà peggio alla Sardegna: è l’oggi. Potrà andare bene all’Italia, senza che per noi si diano altrettanti vantaggi, ed è l’ieri. Aiùtati che … gli altri (forse) potranno aiutarti (ma non è un loro dovere): fare da te è invece un diritto e un dovere, d’ora in poi. Avrebbe dovuto esserlo sempre. Ai livelli sociali, culturali, politici, economici.

“Ma qui è il nodo centrale della questione. Abbiamo noi la forza morale di creare nel nostro organismo, di fare balzare fuori dall’oscura matrice della storia, una nazione sarda, concreta individualità cha abbia un suo compito ed una sua funzione nella vita europea?” (Camillo Bellieni, La Voce, 31 dicembre 1920, I sardi di fronte all’Italia).

Forza morale, in sardo si dice ‘animu’, che significa anche coraggio. Ciascuno risponda a suo modo e, anzitutto, dentro di sé. Quindi bisogna darsi la mano. Una fila di mani strette a formare la catena che ci lega in un destino comune. Come quel straordinario 28 aprile 1794 in cui Cagliari – tra le poche volte – fu il capoluogo e la guida dei sardi.

Prendere coscienza del proprio potere e dell’importanza di quello che può fare ciascuno di noi. Dobbiamo insomma capire che non si può pretendere rispetto e non assumersi la responsabilità dell’esempio; come non si può chiedere lavoro ed attendere che semplicemente qualcun altro ti garantisca uno stipendio; che non puoi lamentare il cinismo altrui e rispondere con comportamenti analoghi. A una cena, un commensale faceva tristi considerazioni sul servilismo degli onorevoli  sardi del centro destra, che in parlamento avevano votato per ‘la nipote di Barack’. Non è mancato chi notava che, la notte dello scorso giugno in cui il Consiglio regionale nascose la continuità antireferendaria dei propri stipendi, nessuno dei presenti del centro sinistra si oppose. Legare la rappresentanza del popolo con il diritto alla ricchezza, che è regola  tra i politici del terzo mondo, è apparso normale per i nostri politici, purtroppo tutti. Due vergogne, a Roma e a Cagliari.

Non si dà politica senza valori. Non possiamo non impegnarci perché questi si affermino. Solo su di essi, anche se immediatamente non appare, si può costruire una politica. Qualche anno fa un centinaio di intellettuali sardi si diede disponibile a girare le scuole ed i comuni dell’Isola per presentare sa die de sa Sardigna e  per esporre le proprie competenze (umanistiche o scientifiche, insieme) al servizio della nostra gente. Il professore Giovanni Lilliu ci guidava. Dovremmo continuare e riprendere il discorso. Solo delle persone convinte sono in grado di convincere gli altri. Ne era sicura anche l’antropologa statunitense Margareth Mead, la studiosa dei rapporti tra la cultura e la personalità: “Non dubitare che un piccolo gruppo di cittadini responsabili possa cambiare il mondo. E’ l’unico modo in cui ciò è sempre accaduto”.

 

 

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