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Le nuove frontiere della transumanza e le trasformazioni del pastoralismo di Benedetto Meloni*

Posted By cubeddu On 10 febbraio 2012 @ 07:01 In Agricoltura,Antropologia,Blog,Società sarda,Tradizioni popolari | Comments Disabled

Benedetto Meloni, Sociologo (n. Austis 1946), docente universitario a Torino,  attualmente insegna Sociologia dell’ambiente e del territo­rio e Sociologia della famiglia presso l’Università di Cagliari. Studioso della strut­tura della società delle zone interne e dell’economia pastorale, è autore di numerosi pregevoli lavori, tra i quali La transu­manza, in Le opere e i giorni. Contadini e pastori nella Sardegna tradizionale (a cura di Giulio Angioni e Francesco Manconi), 1982; Famiçtie di pastori. Continuità e mutamento in una comu­nità della Sardegna centrale 1950-1970, 1984. Negli anni 2005-2007 è stato presidente del­l’ERSAT (-+).

Presentazione

La Sardegna possiede il 40 per cento dell’intero patrimonio ovicaprino nazionale (3 milioni di pecore e 200 mila capre) e, conseguentemente, detiene il sistema pastorale più importante in Italia. Il pastoralismo è una cultura, un modo di rapportarsi tra uomo e territorio. Non una cultura residuale ma, fino ad oggi, in espansione. Il pastore è sceso dalle montagne verso le colline e le pianure della Sardegna. Ha anche realizzato una “transumanza lunga” perché ha varcato il mar Tirreno, ha colonizzato non solo le terre abbandonate dagli agricoltori sardi ma anche quelle dei mezzadri, soprattutto della Toscana.

Nel secondo dopoguerra il progressivo appoderamento delle aziende pastorali e l’abbandono delle transumanze hanno portato a una relativa stanzialità delle greggi. Si è verificata una trasformazione degli allevamenti in aziende sedentarie con sostanziali miglioramenti fondiari, diffusione delle trattrici, degli edifici razionali, della mungitura meccanica, della refrigerazione del latte alla stalla.

Il pascolamento a cielo aperto, integrato dalla coltura degli erbai, è tuttavia

ancora oggi la base alimentare di gran lunga prevalente per gli ovini della Sardegna.

La pastorizia è da questo punto di vista, come mostrano molti studi recenti

a livello internazionale, un sistema più che mai sostenibile in tempi di crisi

ambientale e alimentare perché si mostra in grado di garantire produzioni in

ambienti marginali, abbandonati dalle moderne agricolture, se coniuga l’attività col rispetto dell’ambiente: può essere una risposta antica a problemi del futuro.

Negli ultimi anni, tuttavia, il settore pastorale presenta una crisi strutturale.

Uno dei motivi è stata la politica agricola comunitaria, a lungo disegnata su un

modello di sostegno di specifici prodotti, come il pecorino romano, e su continui aumenti quantitativi di produzione. Un modello che oggi si è rivelato esagerato e insostenibile. Contemporaneamente la produzione dei pecorini, che è notevolmente aumentata, ha subito un processo di omologazione e raramente si trovano, ad esempio, formaggi a latte crudo. Un modello produttivo fortemente sbilanciato sulla quantità non aiuta a pensare alla qualità.

In particolare, il pecorino romano (sostenuto sino a qualche decennio fa

dalle restituzioni comunitarie alle esportazioni e da un cambio favorevole), di

gran lunga il prodotto più rilevante dal punto di vista delle esportazioni, subisce sempre più la concorrenza dei prodotti simili, soprattutto nel mercato statunitense.

La produzione delle cooperative in particolare è divenuta sempre

meno remunerativa, perché rappresentata prevalentemente dal romano. Osserva il direttore della rivista «Caseus» che il pecorino romano è fatto a latte pastorizzato o termizzato, prodotto che sul mercato si posiziona ai livelli bassi di prezzo. In queste condizioni, gli aiuti all’ammasso del latte e del formaggio saranno del tutto inutili.

Una crisi, come sostiene Barack Obama, non va mai sprecata ed è quindi

necessario tentare di individuare alcune delle strategie da seguire per il futuro.

È la competitività stessa e la concorrenza con i modelli extraeuropei più agguerriti ad aver messo in crisi le politiche di sostegno basate su continui aumenti di produzione. Come osserva Paolo De Castro: «non possiamo competere sui costi bassi della manodopera dei Paesi poveri del terzo mondo, non possiamo competere con le agricolture ricche e con la dimensione aziendale.

Tutto ciò deve farci riflettere sulla necessità di rafforzare la competitività con

strumenti nuovi rispetto al passato. L’agricoltura europea vincerà la sfida se saprà trovare strumenti di politica agricola che spingano su due linee guida: distinzione e organizzazione». Il fatto che i territori possano godere di beni unici e specifici, essendo beni non facilmente riproducibili, permette di difendersi dalla concorrenza. Si può competere, quindi, in primis sui fronti della specificità territoriale e identificabilità d’origine dei prodotti, della qualità organolettica, dei contenuti dell’innovazione. Diversità e specificità: a questo si deve puntare per rimettere in moto lo sviluppo e raggiungere livelli sempre più alti di competitività, crescita economica e, conseguentemente, sociale. Temi ricorrenti, sui quali però si deve continuare a insistere, pur sapendo che questi programmi e progetti hanno tempi molto lunghi, i cui risultati non saranno certamente immediati.

Proviamo a declinare con qualche esempio in modo operativo questi concetti.

In primo luogo, si deve considerare la centralità della biodiversità casearia

regionale contro l’omologazione della produzione. Questo implica lo sdoganamento definitivo del latte crudo come elemento indispensabile della qualità organolettica, delle produzioni di qualità. In secondo luogo è necessario riconoscere un ruolo portante al radicamento territoriale delle produzioni e alle modalità di valorizzazione delle stesse. Sostanzialmente, un formaggio è frutto di un lungo processo di adattamento tra uomini e territori, tra uomini, territori e razze animali. Queste, così come le cultivars e i vitigni, non sono interscambiabili.

Quella razza, quel vitigno piuttosto che un altro sono andati radicandosi in

un determinato territorio come frutto di una lunga esperienza di adattamento.

È la sperimentazione, a volte secolare, di agricoltori e allevatori, che ha permesso di selezionare quel determinato vitigno o quella pecora da latte in quella regione; allo stesso modo sono andate diversificandosi le tecniche di caseificazione.

Nel panorama caseario la pastoralità, la riscoperta delle piccole produzioni,

la rivalutazione del pascolo a cielo aperto, come modo di utilizzare territori e risorse vegetali spontanee, altrimenti non sfruttate, rappresentano fenomeni in espansione a livello internazionale.

Il processo di valorizzazione delle produzioni casearie isolane  necessariamente deve tener conto del sistema pastorale, dello sfruttamento delle essenze foraggiere con il pascolamento e delle produzioni di qualità. Il latte, pur essendo un prodotto legato a “quel” territorio, a “quella” pecora e a “quel” pastore, è pagato in funzione della quotazione. Il primo obiettivo è quello di produrre formaggi diversi per qualità del latte. Dobbiamo fare in modo che il latte crudo di qualità venga raccolto e lavorato separatamente per produrre formaggi tradizionali o di nuova impostazione. Con la valorizzazione del latte di qualità non sarà difficile ricollocare la produzione tradizionale su fasce più prestigiose e remunerative, con un prodotto espressione di un modo nuovo di concepire il legame fra territorio e consumatori.

Le nuove frontiere della transumanza e le trasformazioni del pastoralismo di Benedetto Meloni
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