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E SI È FATTO UOMO … Riflessioni sulla pastorale del lavoro di mons. Ottorino Alberti, di Gianni Loy

Posted By cubeddu On 3 gennaio 2023 @ 05:48 In Blog,Chiesa sarda,Economia,Economia sarda,Giustizia | Comments Disabled

L’occasione è stata la presentazione di un libro, curato da mons. Gianfrancoi Zuncheddu, che raccoglie oltre un centinaio di omelie e messaggi di mons. Alberti durante i 15 anni di episcopato nella diocesi di Cagliari.

Racconta mons. Miglio, ora cardinale, che nel giorno in cui avrebbe dovuto prendere possesso della diocesi di Iglesias in qualità di vescovo venne accompagnato in auto dall’allora arcivescovo di Cagliari, mons. Ottorino Alberti. Il comitato organizzatore lo attendeva sul sagrato dell’episcopio per dare avvio alla cerimonia di insediamento. Solo che l’auto rimase bloccata in piazza Sella, occupata dai lavoratori  che partecipavano ad una grande manifestazioni sindacale per difendere il posto di lavoro.  La prima reazione, la più istintiva, fu quella di trovare un percorso alternativo che consentisse all’auto di raggiungere la meta.  Ed invece, mons. Alberti disse a mons. Miglio che sarebbe dovuto scendere dall’auto ed andar loro incontro. Il nuovo vescovo ubbidì, scese dall’auto e si confuse con la lotta di quei lavoratori che, poco dopo, lo scortarono in episcopio per consegnarlo nelle mani dei fedeli in attesa.

Mentre il cardinal Miglio – stento ancora a dover cambiare il prefisso davanti al suo nome -  raccontava l’episodio, mi son venute istintivamente alla mente le parole: et caro factum est; si è fatto uomo. Tra il vescovo e la sua Chiesa c’era di mezzo la storia, cioè la vita, la sofferenza, le lotte che, prima ancora di  pensare al paradiso, gli uomini e le donne del mondo devono affrontare per la propria sopravvivenza e per la difesa della propria dignità.

L’occasione è stata la presentazione di un libro, curato da mons. Gianfrancoi Zuncheddu, che raccoglie oltre un centinaio di omelie e messaggi di mons. Alberti durante i 15 anni di episcopato nella diocesi di Cagliari.

Una sensazione analoga l’ho provata diversi anni prima, il 22 settembre del 2013, in occasione della visita di Papa Francesco in Sardegna. È arrivato portando con sé, dattiloscritti, i testi dei messaggi che avrebbe dovuto leggere nei diversi momenti della visita. Quella mattina, nel grande palco innanzato nella via Roma, il Papa, che si accingeva a leggere il testo programmato per quel primo incontro con  il popolo, ascoltò l’intervento di tre lavoratori che descrivevano i problemi, i sacrifici e le lotte che i lavoratori sardi sostenevano in quella fase storica.

Papa Francesco fu colpito, particolarmente, dalle parole di uno dei lavoratori che aveva lamentato che “la sofferenza ti toglie la speranza”. Quindi, quando ebbero finito, cambiò all’improvviso il programma per soffermarsi su quanto aveva appena ascoltato. Consegnò al vescovo di Cagliari il testo del messaggio che avrebbe dovuto leggere – mons. Miglio fu quindi testimone anche di quell’episodio – e pregò, invece, con le parole che in quel momento, rispondendo alle sollecitazioni, gli venivano dal cuore.

La stessa sensazione. Il bisogno di riflettere su cosa significhi il fatto che per la redenzione sia stato necessario “farsi uomo”, cioè condividere la condizione sia materiale che spirituale delle persone, intese come individui e come popolo. Che è quanto emerge, prepotentemente, dalla predicazione di mons. Alberti oggi riproposta da mons. Zuncheddu.

Non si tratta, evidentemente soltanto della predicazione dedicata al mondo del lavoro. Mons. Alberti si è fatto amico di una delle comunità più emarginate che si conoscano, quella dei rom,  gli ultimi tra gli ultimi. Anche in quel caso, è entrato nella specifico delle condizioni di vita e le ha denunciate quando ha ritenuto che le scelte delle amministrazioni  non fossero conformi al rispetto della dignità delle persone.

Mi è tornato alla mente, rileggendo la predicazione di mons. Alberti, che proprio sul tema dell’incarnazione, che apre la via dell’impegno sociale dei cristiani – in una visione, escatologica, di un cammino di salvezza che non è semplicemente rimandato all’aldilà ma deve incominciare su questa terra con un processo che metta in conto  anche la  liberazione dai mali che, nella concreta situazione storica,  affliggono i popoli e le persone – è avvenuta la mia formazione sulla base dei documenti conciliari e dell’insegnamento di Papa Giovanni XXII che invitano la Chiesa a riconoscere i segni dei tempi.

Un impegno che emerge con chiarezza e con passione nei contenuti delle omelie e dei messaggi che Mons. Alberti ci ha lasciato. Egli, in poche pagine, è capace di riassumere il faticoso percorso che ha portato la Chiesa, storicamente, con la dottrina sociale, a porsi quale baluardo nella difesa dei diritti e dei lavoratori e delle lavoratrici e, con essi, della società tutta; società oggi interessata da forme di sfruttamento che ricordano proprio l’epoca in cui, di fronte allo spietato imporsi dell’economia capitalista, ha incominciato a levarsi la voce del magistero, i lavoratori hanno incominciato ad organizzarsi autonomamente e si sono diffuse le prime idee del socialismo.

Ricorda, tra l’altro, mons. Alberti, che lo stesso Leone XIII, poco prima della pubblicazione della Rerum Novarum, ha riconosciuto  il diritto degli operai ad autoorganizzarsi in sindacati, cioè, secondo la terminologia del tempo, a costituire anche “associazioni semplici”, costituite da soli operai, e non più solo di quelle “miste”, come molte associazioni di Mutuo soccorso, alle quali partecipavano anche i padroni. Un diritto che era stato dalla Chiesa negato e che, in quel momento -   – forse riconoscendo pur con qualche ritardo i segni dei tempi – veniva riconosciuto.  La Chiesa, in quella fase storica, si opponeva, allo stesso tempo, alle due ideologie dominanti, quella del liberalismo economico – che sottometteva i diritti del lavoratori alle leggi del mercato – e quella del socialismo: quest’ultimo, pur schierato dalla parte dei lavoratori, proponeva, nelle sue principali componenti, contenuti non condivisi – la lotta di classe e la dittatura del proletariato -  e, spesso, una dichiarata avversione nei confronti della religione e della Chiesa.   Non è un dettaglio ricordare che Mons. Alberti, nel ricostruire tale fase storica, definisce tale idea “quella del socialismo di allora” (2000).

Nella sua predicazione, è questo l’aspetto che mi preme mettere in evidenza,  egli non si limita a ribadire i principi della dottrina sociale della Chiesa, il primato dell’uomo, il tema – fortemente rilanciato da Papa Francesco – della dignità del lavoro. Il principio che principalmente enfatizza è quello della solidarietà, “che non va intesa come una richiesta di assistenza” (1993), “che deve prevedere un livello minimo di benessere economico per tutti” (1994); una sorta di contrappeso che potrebbe essere in grado di stemperare gli eccessi, impietosi, dell’economia di mercato, ma a condizione che la politica sappia imporre concrete misure in tale direzione, e pone una ineludibile domanda: “solidarietà, sì, ma come? (1998).

Tra i principi ispiratori, non si dimentichi il richiamo al fatto che attraverso il lavoro “l’uomo esplica la sua capacità di trasformare la materia nell’intento non di distruggere ma di portare a compimento la creazione” (1999).

Ma tutto ciò non basta ancora, perché  non è sufficiente affermare a gran voce i diritti. Occorre anche assumersi la responsabilità di indicare, in qualche modo, come si misurano. Perché nessuno mai negherà che il lavoratore ha diritto ad una giusta retribuzione, ad un minimo salariale dignitoso, tale da consentirgli di mantenere sé stesso e – , come sottolinea mons. Alberti -   anche la propria famiglia (1996). Del resto, lo afferma la nostra Costituzione. Ma con “quanto”, concretamente quel principio può ritenersi rispettato? Pagando il lavoro a 4 euri l’ora o almeno a 10 euri? Con quali concrete misure lo Stato dimostra di garantire l’assistenza dei disoccupati? Altrettanto dicasi per il principio, ribadito dalla Gaudium et spes, secondo cui “l’ordine delle cose deve essere subordinato all’ordine delle persone e non viceversa”(1998). È un principio che a parole nessuno mette in discussione,  che troviamo ribadito da importanti norme internazionali, come quelle in materia di tutela della salute, dove si afferma, a chiare lettere, che occorre “adeguare il lavoro all’uomo”. Ma è questa la realtà? O non è vero proprio il contrari? Cioè che i lavoratori sono sempre più assoggettati alle macchine ed ai ritmi dell’organizzazione del lavoro sino al punto che, in non pochi casi, neppure dipendono da una persona in carne ed ossa ma vengono comandati e organizzati da un anonimo algoritmo.

Ebbene, Mons. Alberti, tutte le volte in cui si trova davanti a situazioni  storiche, non si limita a ribadire i principi ispiratori ed i valori che devono guidare l’azione della Chiesa. Egli partecipa in maniera diretta, sia con la critica, sia con il giudizio, sia con  specifiche proposte.

In presenza di un duro conflitto che contrapponeva i sindacati all’Enichem, ad esempio, sembra partecipare alla vertenza in prima persona, entrando nel merito dei suoi contenuti. Al prendere atto che  l’Azienda non aveva effettuato gli investimenti promessi, egli afferma, senza mezzi termini: “Da parte mia sono tenuto a dire, con fermezza, all’Enichem, che pacta sunt servanda”.

Non appena informato dai Postelegrafonici della  Confederazione Sindacale Sarda  che l’Azienda aveva introdotto l’obbligo di tenere aperti gli sporteli delle poste la domenica, subito (tre ore dopo aver appreso la notizia) afferma: “Voglio stigmatizzare il recente provvedimento che ha introdotto anche in Sardegna la Domenica Lavorativa Obbligatoria perché un simile provvedimento è lesivo della dignità personale del lavoratore”.

In diverse altre occasioni suggerisce concreti provvedimenti e afferma che lo Stato “deve attuare una programmazione globale (non totale) dell’economia, fino a implicare un intervento dello Stato non solo indicativo, coordinativo ma anche, in taluni casi, direttivo e imprenditivo, specie in settori di importanza strategica per il bene comune” (1994). Suggerisce, in definitiva, un ben preciso modello, su cui personalmente concordo, – di cui si avverte la mancanza, proprio in questi giorni, quando ri-scopriamo che i beni essenziali, anche in presenza di una drammatica crisi economica, sono lasciati in mano ad un’economia di mercato che si ingrassa di “extraprofitti” mentre parte della popolazione non riesce a far fronte ai più elementari bisogni vitali.

Non si pensi, tuttavia, che non abbia sempre ben presente quale sia la missione della Chiesa: “Nessuno ha ricette facili in tasca e non spetta neppure alla Chiesa avere o suggerire  soluzioni: non è questo il suo compito”. Ma precisa, perché sia chiaro che l’impegno non deve venir meno:   “Ci deve essere, però, una soluzione”. Ed aggiunge: “E’ in questa esortazione che la Chiesa  compie il suo dovere  di critica e di profezia. Ci deve essere, anche se noi non riusciamo a vederla chiaramente e a prospettarla” (1996). Mi pare di leggere in queste parole – se mi è consentito – il tormento del pastore che partecipa alla sofferenza dei propri fratelli, disposto a compromettersi sino in fondo con la storia.

Mi vengono in mente, nel leggere quelle parole, i versi con cui un mio vecchio e caro amico, Peppino Murtas, anch’egli prete, e poeta, descriveva la sofferenza del pastore nel vedere il proprio gregge decimato dalla siccità: “Mangiassero l’orbace! Il vestito darebbe, per non vederle morire ad una ad una”[1].

Si avverte in Mons. Alberti, l’ansia di ricercare una via d’uscita e il pressante invito ai laici cristiani “che devono sentire sempre più forte il bisogno di interessarsi di queste cose” (1996).

Mi piace concludere con il riferimento ad un  messaggio di qualche anno più tardi, per il Giubileo del 2000. In tale occasione, con espressioni forti e drammatiche  denuncia che  “a partire dagli anni ‘70 si investe per ridurre i posti di lavoro!”; che “non il profitto dell’imprenditore , ma la massimizzazione del profitto del capitale è la regola suprema del sistema economico mondiale!”; che “licenziare il maggior numero possibile di lavoratori è ormai un principio cui nessun imprenditore si può sottrarre!”

In tale occasione, mons. Alberti porta all’attenzione il disagio psicologico, “quasi del tutto ignorato”,  del disoccupato che, “anche se con una sufficiente cassa integrazione, diviene presto un disadattato, un frustrato, un disperato che non ha possibilità di sentirsi vivo in un’attività che in qualche modo dia un senso al proprio esistere”. Ed afferma che “molti sono i suicidi da disoccupazione”. È bene ricordarlo,  perché una subdola propaganda a sostegno di un sistema economico sempre più inclinato alla massimizzazione del profitto propone all’opinione pubblica – spesso in maniera martellante – il caso del cassintegrato che lavora in nero, o del percettore “abusivo” del reddito di cittadinanza, e nasconde il dato, drammatico, che nel mondo un suicidio su cinque è legato alla disoccupazione. Uno studio di qualche anno fa rivela che ogni anno, nel mondo, si verificano quasi un milione di suicidi e che tra questi almeno 200.000, una cifra spaventosa, sono proprio associati alla disoccupazione[2].

Egli ritorna sul tema della relazione tra la predicazione e le vicende di questo mondo, tra l’enunciazione del principio e la sua messa in pratica. In sostanza, dell’incarnazione, di come Dio si faccia uomo, di come debbano leggersi i segni dei tempi. Ed ammonisce, severamente: “Se tanti cattolici proclamano che il lavoro deve essere al servizio dell’uomo, ma non hanno  il coraggio o l’interesse a mettere radicalmente in questione tale logica, – il sistema che ha appena denunciato – questi cattolici rendono non credibile il loro annuncio” (2000).

“Che fare di fronte a questo desolante panorama?”  Si chiede mons. Alberti. Egli conosce quali siano le competenze di ciascuno e mantiene ferma la barra del timone. Quindi, solennemente afferma, in tono maggiore: “Non spetta al vescovo dare riposte tecnico politiche!” ma subito dopo, passando alla tonalità minore, sommessamente aggiunge: “e comunque non può esser fatto in quest’occasione”. Cosa ha voluto intendere? Che magari, in qualche altra occasione, in qualche altro luogo, anche un vescovo può cimentarsi nell’offrire possibili risposte tecnico politiche?

Per il momento, grazie alla bella iniziativa di mons. Gianfranco Zuncheddu, ci vien data l’opportunità di apprezzare il magistero di mons. Alberti – che ovviante non è limitato  alla pastorale del lavoro – caratterizzato da profonda attenzione e da una grande passione. Quanto alla sua riflessione, circa il coraggio e l’interesse di tanti cattolici a mettere radicalmente in questione le regole dell’attuale sistema economico, direi che si tratta di una bella domanda.

 


[1] Peppino Murtas, “E’ nudo il nostro dolore”, Siena, Fonte Gaia, 1960.

[2] C. Nordt, I. Warmche, E. Seifritz, W. Kavoh; Modelling suicide and unemployment: a longitudinal analysis covering 63 countries 2000-2012. The Lancet Psychiatry, 10.2015.

 

 

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