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LA GRANDE GUERRA (1915 – 1918) E LA SARDEGNA

Posted By cubeddu On 1 ottobre 2022 @ 06:57 In Blog,Identità,Persone,Questione sarda,Storia della Sardegna | Comments Disabled

Elaborazione drammatica di Piero Marcialis dalla ricerca e la documentazione di Salvatore Cubeddu. ATTO UNICO presentato sul palco da Mario Faticoni, Piero Marcialis, Rita Atzeri, Salvatore Cubeddu.

 

I coscritti

 

 

 

 

 

 

 

 

I Sardi in trincea

 

 

 

 

 

 

 

ATTO UNICO

 

Sul palco Mario Faticoni, Piero Marcialis, Rita Atzeri, Salvatore Cubeddu.

 

Mario – (introduzione modificabile a piacere di Mario)

Stasera inauguriamo un ciclo di incontri dedicato a rileggere cinquant’anni di storia sarda, con particolare riferimento alla storia del sardismo.

In questo percorso Il Crogiuolo ha scelto di accompagnarsi con la Fondazione Sardinia, nelle persone del suo Direttore Salvatore Cubeddu, sociologo e storico del Partito sardo, e del vice-presidente Piero Marcialis, scrittore, attore e regista teatrale.

Il tema di oggi è “La Grande Guerra e la Sardegna”, tema sul quale i nostri due amici hanno già scritto, il primo da storico, il secondo come autore teatrale.

Sulla base dell’ulteriore ricerca e relativa documentazione di Salvatore Cubeddu – che ha esplorato e messo a disposizione dello sceneggiatore brani tratti dalle opere di Mario Cubeddu e Giuseppina Fois, più recenti, e delle testimonianze sulla guerra di: Emilio Lussu, Giuseppe Tommasi, Alfredo Graziani, e la corrispondenza di alcuni reduci -  il lavoro di oggi, elaborato da Piero Marcialis, vi viene proposto da me, Mario Faticoni, da Rita Atzeri, e dai nostri due amici.  Cominciamo.

 

Salvatore – Come possiamo rivivere in contemporanea avvenimenti e sentimenti ormai di un secolo fa? Oltre la retorica centenaria sull’eroismo dei sardi e della Brigata Sassari, come hanno vissuto davvero questa guerra i sardi e la Sardegna? Come ne hanno parlato allora i giornali,

soli mezzi di informazione di massa dell’epoca? Come ne hanno scritto i soldati sardi nelle loro lettere a casa? Come ne hanno cantato cantadores e poeti? Come ne hanno scritto poi  gli scrittori sardi sulla base delle loro esperienze o dei racconti dei reduci? Tutto questo cerchiamo di proporvi.

Iniziamo dalla lettura di un brano tratto da L’Unione Sarda del 21 novembre 1915.

E’ il punto di vista di un milanese che parla dei sardi al fronte.

 

Mario – “Io li vidi, i sardi, al lavoro. Certi spettacoli non si descrivono; si vivono e non si dimenticano più.

Che soldati! Il nemico apre un fuoco fitto di fucileria e i sardi vanno avanti. Il nemico al fuoco della fucileria aggiunge quello terribile, di una, due, tre mitragliatrici (400 colpi al minuto, a ventaglio!) e i sardi vanno avanti sempre, piovano bombe, piovano granate, piova il mondo intero; vanno avanti sempre, superando tutti gli ostacoli…

E manovrano. Hanno il fegato di avanzare in ordine sparso, conservando la distanza regolamentare tra uomo e uomo, tra squadra e squadra. Quando sparano mirano a lungo, calmi, e non fallano mai il colpo.

Conquistare una posizione è, s’intende, arduo; spesso quasi impossibile. Tuttavia prendono sempre le posizioni che devono prendere. Tenere una posizione è cento volte più difficile che impadronirsene. Ebbene: nel tener posizioni i sardi si sono “specializzati”.

 

Piero – Comunicato di Cadorna. Bollettino di guerra n.173, 15 novembre 1915.

 

Rita – Ne hanno parlato anche in paese. Ne parlano dappertutto, ormai lo conoscono anche le nostre pecore e i maiali, quel comunicato. I soldati ne hanno tutti parlato nelle loro cartoline. Erano orgogliosi anche i nostri paesani che erano nelle altre brigate. Se alla Sassari ci sono circa 6000 soldati, i sardi dispersi nelle altre brigate devono essere dieci volte tanto. Anche a noi è stato dato un foglietto. I bambini sono tornati da scuola tutti contenti. Tutte le donne ne parlano. Mi hanno chiesto di portarlo alla fontana.

Quando lo hanno sentito molte di noi piangevano.

 

Mario – “Sul Carso è continuata ieri l’azione. Per tutto il giorno l’artiglieria nemica concentrò violento ed ininterrotto fuoco di pezzi di ogni calibro sul trinceramento delle Frasche, al fine di snidare le nostre fanterie.

Gli intrepidi sardi della Brigata Sassari resistettero però saldamente sulle conquistate posizioni e con ammirevole slancio espugnarono altro vicino importante trinceramento detto dei Razzi. Fecero al nemico 278 prigionieri dei quali 11 ufficiali.”

 

Piero – I giornali si entusiasmano. E’ il loro mestiere.

Emilio Lussu scriverà:

“… Qualche giornale ci arrivava ogni tanto e ce lo passavamo fra di noi. Erano tutti gli stessi e ci irritavano. La guerra vi era descritta in modo così strano che ci era irriconoscibile.

Era un delirio di canti e di conquiste. Anche i nostri giornaletti militari erano molto noiosi. La verità l’avevamo solo noi, di fronte ai nostri occhi…”

 

Salvatore – Per volontà dello Stato Maggiore dell’esercito  si creano reggimenti su base regionale, allo scopo di eccitare lo spirito di competizione tra i combattenti.

I primi reparti si formano, prima di partire per la guerra, nella seconda metà di gennaio 1915, ne fanno parte elementi del 45° e 46° Reggimento Fanteria, di stanza a Sassari e a Cagliari.

La Brigata, formata dai due reggimenti 151° e 152°, viene costituita il 1 marzo a Tempio Pausania e a Sinnai.

A luglio già attraversa l’Isonzo. Combatte a Bosco Cappuccio, alla Trincea delle Frasche e alla Trincea dei Razzi. Nel giugno 1916 è sul Carso, altipiano di Asiago.

Riconquista Montefiore, Monte Castelgomberto e Casara Zebio. A Caporetto i sardi sono gli ultimi a ritirarsi.

 

Piero – Il 95% erano contadini e pastori, il resto operai, minatori e artigiani. Gli ufficiali erano impiegati, professionisti, giovani laureati e studenti. Due soli, in tutta la Brigata, appartenevano a quella che può chiamarsi grande borghesia che, anche in Sardegna, come nel resto dell’Italia, riusciva facilmente a imboscare i suoi figli.

 

Mario – Come sono le trincee? Diamone almeno le misure.

Le trincee sono semplici buche, lunghe cinque metri, larghe un metro, unite tra loro da camminamenti bassi e più stretti. Non c’è gabinetto, solo un buco nel quale ogni soldato fa i suoi bisogni. Rifiuti e feci attirano grossi topi. Non è possibile lavarsi, radersi, cambiarsi gli indumenti. I turni in trincea durano anche 90 giorni. Si aggiunge infine il fetore: sangue dei feriti, puzzo di cadaveri e di disinfettanti.

 

Salvatore – Fin dai primi giorni in cui la Brigata si reca in linea si hanno casi di colera, inevitabili in trincee basse e piene di fango rosso, fra il fetore insopportabile di migliaia di cadaveri in putrefazione. Il Comando, per ovviare alle terribili conseguenze, dà l’ordine di seppellire i morti, così i fanti sono costretti a lavorare di notte, distesi a lato dei cadaveri, e strisciando scavano una piccola fossa nella quale fanno rotolare le povere spoglie. Tanti di loro sono però uccisi nell’atto di compiere l’opera pia.

 

Rita – Dai soldati giungono nelle case lettere, canzoni, poesie. Alcuni di loro sono cantadores, poeti improvvisatori, come Dionigi Sanna di Bitti, che morirà falciato da una mitragliatrice. Ma prima di sentire una delle sue poesie, sentiamo da Emilio Lussu che cosa accadde una settimana prima della morte di Dionigi Sanna.

 

Salvatore – I soldati sono stanchi. Riposi di pochi giorni, sotto il tiro delle artiglierie nemiche, dopo turni di un mese in trincea, li hanno depressi. Ci hanno detto che questa volta saremo scesi nella pianura veneta per un lungo riposo. Invece…

 

Mario – Il reggimento si è ammutinato! Il 2° battaglione ha cominciato e gli altri lo hanno seguito. Sono usciti gridando dagli accantonamenti. Qualche ufficiale è stato malmenato.

 

Piero – Passando per la cucina della mensa si arrivava in pochi passi al baraccamento della mia compagnia, ch’era la più vicina. Seguito dai miei ufficiali, ho preso quella via e di corsa mi son trovato in mezzo alla mia compagnia.

 

Rita – Un unico baraccone di legno, in cui c’è posto per quattro plotoni. Al centro un lungo corridoio. Nel corridoio i soldati, a capannelli, discutono animatamente.

 

Piero – Comandai: Compagnia in riga, fucile alla mano!

Pensavo: Se i soldati malmenano gli ufficiali e io do l’ordine di prendere le armi, non corro il rischio di essere bastonato, rifletteranno maggiormente. Tutt’al più corro il rischio di essere sparato. Debbo dirlo: preferivo essere ucciso che bastonato.

Rita – In un attimo i plotoni furono in riga, coi fucili.

All’appello nessuno mancava.

 

Piero – Dunque la mia compagnia non si è ammutinata.

Il piacere che sentii in quel momento lo ricordo come uno dei più grandi piaceri della mia vita. I soldati non si ammutinano contro i comandanti di reggimento, di brigata, di divisione o di corpo d’armata.  E’ contro i propri ufficiali diretti che essi, innanzi tutto, si rivoltano.

 

Rita – Fuori, al buio, il tumulto aumenta.

Vogliamo il riposo!

Abbasso la guerra!

Basta con le trincee!

Sono migliaia di voci che gridano assieme.

Abbasso la guerra!

Basta con le menzogne!

 

Piero – Parte uno squillo di tromba. Che copre i sibili del vento e la grida dei dimostranti. “Ufficiali a rapporto”.

Perché il colonnello chiamava a rapporto?

 

Rita – Il colonnello attese qualche istante. Rinunciò al rapporto e con un lampione in mano avanzò verso i soldati.

Davanti alla massa nera dei dimostranti diede l’ordine.

 

Mario – Nel vostro interesse vi ordino di rientrare agli accampamenti.

 

Rita – Abbiamo diritto al riposo!

 

Mario – Abbiamo tutti diritto al riposo. Anch’io, che sono vecchio, ho diritto al riposo. Ma ora rientrate. E’ il vostro colonnello, nel vostro solo interesse, che vi ordina di ubbidire.

 

Rita – La massa tentennava. Gli ufficiali tentavano di riunire i loro reparti. Le prime file si ritiravano, ma la massa rimaneva immobile e le grida continuavano.

 

Piero – Il colonnello, informato che la mia compagnia è in riga, con le armi, si diresse verso il mio baraccamento.

Le grida fuori aumentavano.

 

Mario – Posso contare sulla sua compagnia?

 

Piero – Certo, la compagnia è in ordine.

 

Mario – Posso contare sulla sua compagnia se le do l’ordine di salire in trincea subito?

 

Piero – Signorsì.

 

Mario – E posso contare sulla sua compagnia se le do l’ordine di intervenire contro i sediziosi?

 

Piero – Non credo, signor colonnello.

 

Mario – Mi risponda preciso: sì o no?

 

Piero – No, signor colonnello.

 

Rita – Il colonnello uscì. Fuori il tumulto continuava.

 

Salvatore – Prima delle dieci tutti i reparti erano rientrati negli accantonamenti. L’ordine era stato ristabilito.

Tre soldati furono mandati al Tribunale Militare.

Si era trattato di un fatto eccezionale, dato il vero e proprio affetto che univa fanti ed ufficiali. Tutti si misero d’impegno per dimenticare l’accaduto. Si incoraggiò un clima quasi da festa di paese, che stimolò i poeti, specie quelli bravi, come Dionigi Sanna di Bitti.

 

CORAGGIU SA BRIGATA SARDIGNOLA

 

Rita – Coraggiu sa brigata sardignola

Ca su pius de sardus est cumposta

Issos an imparatu donzi iscola

E pro gherrare sun fattos apposta.

 

Piero – Si s’armata austriaca nos colat

L’attaccamus fieros una giostra

Sa fama de sos sardos est essita

Ca in donzi giornale l’an iscritta.

 

Rita – Addiu sa brigata sassaresa

Est intrada fiera in sa battaglia

Attacat s’inimicu de surpresa

Truncat onzi trincea, onzi muraglia.

Piero – S’inimicu custringhet a sa resa

Cherende distruire sa canaglia

Fachende presoneris un’armata

Binghet terrinu e fachet s’avanzata.

 

Rita – Ecco como su gruppu bittichesu

Ch’est in Monte Capuzzu ischieratu

De sentimentos propriu animatu

Pro distruere s’esercitu ungheresu.

 

Piero – Appena nos an bidu de attesu

Ana donzi trincea abbandonatu

E istaiana a gruppos fuende

E nande “mi che sos rujos sun benzende”.

 

Salvatore – Sos rujos… i Diavoli rossi. Come nasce il soprannome di Diavoli rossi? Bollettino del 22 aprile 1916.

Il notiziario odierno porta che gli Austriaci hanno segnalato la presenza dei soldati della nostra Brigata, in linea, indicandoli con l’epiteto “i diavoli”.

E il Duca d’Aosta ha tratto occasione dalla significativa denominazione per chiamarla tout-court la “Brigata dei diavoli”. Il più bell’elogio è certo quello che fa l’avversario.

 

Mario – I soldati sono economi e mandano i risparmi alle famiglie: vi è dunque della gente più povera di questa simpatica turba grigioverde che non ha quasi niente.

E scrivono molto ai loro parenti. Oggi un soldato, stando qui in trincea, si è formato il tavolo con casse di cartucce, si è preparato l’inchiostro con pezzetti di matita copiativa in una boccetta d’acqua. Ha impiegato forse un’ora a scrivere poche frasi. Poi ha scritto lettere per i soldati più analfabeti di lui. Ora capisco perchè ieri un soldatino della 3°, appena trasferito di compagnia, subito è corso dal Maggiore a supplicarlo di revocare il trasferimento perchè – diceva – nella 3° c’è il soldato che sa scrivere le lettere!

 

Rita – Mio marito si è costretto a scrivere. Prima d’ora non aveva mai scritto lettere ma, orgoglioso com’è, non si è sottomesso a far sapere le sue cose ad altri.

Non può scrivere dove si trova.

E’ preoccupato per le campagne. Credo anche per tutti noi, anche se non lo dice. Lui non è come i giovani.

Zona di guerra, 11 settembre 1916.

Carissima e istimatissima moglia oggi o ricevuto la tua cara ispettata lettera nel quale mia dato moltissima consolazione nel sentire che si trovate tutti sani in famiglia come nel medesimo tempo si posso assicurare di me grazia a Dio mi trovo sano e mi sto bene di salute e così a pari tempo prego sempre per voi altri.

Carissima moglia ti fazio sapere che ieri è venuto un prete è affatto una santa messa in questa montagna per la sentire noi era propriamente belissima

Carissima moglia in quanto mi ai scrito dell’affitto di quella apezzamento di Maistimpera il prezzo è L. 20,0 anno e loliva per nostro conto (…)

Cara moglia in quanto  mi ai scrito per chiuso Arughi quello lo lassiamo per nostro bestiame che fa bisonio per li vernoche basta per la legnia e lafitto di Sarroia Predi spano (…)

Cara moglia ti fazio sapere dove mo trovo io era una montagna alta e lontana i paese due ore e siamo dal primo agosto senza di andare in paese (…)

Cara moglia ora altro non mio corre solo che salutarti caramente primo atte e dopo ai nostri carissimi bambi e mille baci atte e Raimondo e a Vincenzo e a Caterina e a Maria Rita e saluto a nostra serva Rosina e padre e fratello e saluto a mia socera e serva e saluto a Mastinu Antonio e moglia e fili e saluto a tutti i parenti e saluto a Manunza Efisio e sorella e fratelo e moglia e saluto a Fara Giuseppe e moglia e saluto a tutti i miei cugini e nuovamente ti saluto e ti abrazio di vera istima e di vero quore e sempre per vitta il tuo Afizionatissimo Marito C.  Giovanni

A Dio A Dio a rivederci

 

Salvatore – Vale la pena di provare a ricostruire un profilo della gioventù seneghese che partecipò a quell’evento cruciale, a partire da chi in esso perse la vita.

Buona parte dei giovani seneghesi, i due terzi, muoiono combattendo nel corso dei vari assalti alle trincee nemiche sul Carso e nell’altipiano di Asiago.

Di alcuni di loro non si trova più traccia, trasformati in polvere e fango nella terra di nessuno. Il terzo restante muore per malattia. I più muoiono di fame e di malattia in prigione, rivelatasi letale quanto la trincea, per la politica dei comandi militari che li considera dei traditori.

I ragazzi di Seneghe che pagarono il loro tributo, più o meno sanguinoso, erano per metà giovani contadini, un 22% pastori. Gli altri erano artigiani, falegnami, muratori, calzolai. Gli studenti, alla leva tra il 1880 e il 1899, erano una decina. Qualcuno fu riformato, la maggior parte parteciparono alla guerra come ufficiali.

Anche a Seneghe, come altrove, ci furono quelli in grado di farsi riformare anche se sani, e di sfuggire i pericoli della guerra. Un gruppo di giovani seneghesi appartenenti a famiglie che avevano aderenze, tra loro Paolo Pili, fu arruolato nella artiglieria costiera, a sorvegliare la costa sarda dalle incursioni nemiche a La Maddalena. Un lavoro che qualcuno doveva pur fare, ma certo lontano dai rischi della trincea.

 

Mario – Il 1917 è un anno di crisi generale, al fronte come nei piccoli paesi.

Sull’Altopiano di Asiago l’insipienza dei comandi costringe ad assalti suicidi contro i reticolati nemici.

Certe azioni sensa senso logico, nè militare, nè comune, studiate apposta per far massacrare i soldati inutilmente, rivelavano che in realtà il vero nemico era il generale”.

Così scriveva Emilio Lussu, e l’insipienza degli alti comandi era anche peggiore di quanto lui immaginava.

E’ il caso di Casara Zebio. Scrive Lussu (Un anno sull’Altipiano, 1937):

L’8 giugno gli Austriaci, prevedendo l’offensiva, fecero brillare la mina sotto Casara Zebio (…) distrusse le trincee, seppellì i reparti che la presidiavano…”

Nel 1964 Angelo Gatti, che fu nello Stato Maggiore col grado di colonnello,  pubblicò il suo Diario di Guerra:

La mina di Casara Zebio l’avevamo fatta noi, doveva scoppiare il 9, è scoppiata improvvisamente l’8… Noi,

sapendo (…) siamo stati zitti, gli austriaci, non potendo credere che ci facciamo saltar da noi, sono pure stati zitti.”

A Casara Zebio ci sono le tombe di 62 sardi.

 

Salvatore – Intanto in Sardegna le condizioni della popolazione civile si aggravano. A Oristano, nei centri più grossi e nei piccoli paesi, le requisizioni militari del grano e di ogni prodotto agricolo provocano scarsità dei generi alimentari e aumento dei prezzi. Mancano alimenti essenziali: grano, farina, patate.

Le popolazioni affamate accusano gli amministratori locali.

Essi prestano il fianco alle accuse: affidano spesso a parenti o prendono in gestione essi stessi la vendita della farina e degli alimenti razionati.

Ad Ales il sindaco Zucca ha un negozio di commestibili, a Ghilarza il sindaco Giampiero Sanna, Cavaliere, è accusato di favorire la figlia negoziante. A fine guerra molti  amministratori verranno processati, anche se raramente si potrà provare e condannare la malversazione.

Madri di famiglia scendono in piazza coi figli laceri e affamati e danno l’assalto ai negozi.

Il Sottoprefetto Felice Porcella lancia l’allarme: un appello accorato al Presidente del Consiglio:

 

Rita – “La Sardegna affamata corre verso la rivolta. Nonostante il raccolto fallito, l’autorità militare continua a requisire ed esportare grano. In compenso si preparano qui per domenica prossima pubbliche solennità per offrire parole e medaglie ai nostri morti in guerra, mentre si lascia mancare il pane ai vivi che inutilmente lo reclamano.”

 

Piero – I sardi dunque soffrono al fronte e anche a casa.

Nessuno ha detto loro, con la chiarezza di un Don Milani, che quella guerra si poteva non fare e che si poteva ottenere dall’Austria lo stesso risultato senza combattere e morire.

Ai sardi si chiede, più che agli altri , la prova del coraggio.

Ecco che avrebbero detto poi i reduci nel paese (Bitti) di Michelangelo Pira.

Su coraggiu no est a facher gherras, su coraggiu est a s’abaitare in ocros un impiegatu, unu carabineri, unu giudice, unu riccu, finas chi si pisset.

E coraggiosos deviant essere omines col pelo nel cuore, su pilu in su coro, comente cantaian in sa gherra sos de sa Brigata Tattaresa: Orune e Bitti chin zente orgolesa, totu su zircundariu de Nugoro, gia’ nde juchen de pilos in su coro.

Coraggiosos emo, ma maccos nono, comente ini sor

de sa Brigata cando andaiana a s’assaltu, imbreacos a pruvera de cognac chi la passaian sempre prima de donzi masellu e Avanti Savoja, maccos cantande; non de cherimos de continentales pro nche leare su trinzeramentu su 151 reggimentu chin su 52 tot’ impare. Pro chie poi? Pro sichire a facher riccos so’ riccos de Milanu e de Torinu e i sos impiegatos e politicantes de Roma. Es pro cussu chi sos chi s’ini sarvatos de sa Brigata Tattaresa in bidda ini sos primos a narrer chi a bocchiere in gherra non b’aiat gustu, ca s’unicu motivu it chi s’austriacu ei su bavaresu – tiratore maleittu su bavaresu – si no l’ucchidias tue ti ucchidiat isse; e pro su matessi arrejonu isse puru deviat bucchiere. Diversu est a bucchiere unu chi at offesu propriu a tie ei su sambene tuo, chi t’est enemicu. Balentia pro nois diat essere istatu a bucchiere a su re ei su generale nostru imbreacone, su coronello rembambitu ei su tenente nugoresu chi pro nos imbreacare menzus a sa cognac annanghiat sas promissas chi a sa ghirata sas terras su governu las leaiat a sor riccos chi si las aiana tancatas a prepotenzia pro las torrare a cumone che a prima, a su connotu. Totu argas de muntonaglios e masellajos.”

Mario – La notte del 2 febbraio 1918 la Brigata è sostituita in linea. Il giorno 3 deve scendere a Vicenza. I fanti sono in uno stato veramente pietoso: pallidi, le divise sporche e gialle per i gas che il nemico ha usato pochi giorni prima.

Si pensa di dare a tutti una nuova divisa e ripulirli un po’ prima di entrare in città, ma la cittadinanza li vuole subito per far sentire loro il ringraziamento che Vicenza, a nome di tutta l’Italia, vuole porgere loro solennemente.

Tutti i giornali d’Italia non parlano che della Brigata: è un coro di osanna.

Lungo il percorso, nelle stazioni, nei paesi, per le strade, è un delirio di applausi, di evviva.

L’ingresso a Vicenza è indescrivibile: tutto il popolo si è riversato nelle strade. Un lungo interminabile corteo con tutte le autorità cittadine, con la giunta, il sindaco, il Vescovo, la deputazione provinciale, segue la gloriosa bandiera di Vicenza, decorata di medaglia d’oro. Sembra andare incontro alle giovani bandiere della Brigata, pure decorate di medaglia d’oro.

Ogni finestra ha un tricolore, ogni facciata ha il suo manifesto: “Viva la Brigata Sassari, viva la Sardegna, viva l’Italia. Ai soldati della Brigata di ferro date tutti i fiori dei nostri giardini. Viva i salvatori di Vicenza”.

 

Salvatore – Attilio Deffenu muore combattendo.

Pensieroso, pallido, fisicamente debole, aveva attirato tutte le simpatie degli ufficiali e dei fanti della Sassari.

Vedono in lui il futuro campione della riscossa della Sardegna. Fa domanda per essere esonerato dalla carica di ufficiale propagandista e gli venga assegnato un plotone. Ottiene di essere inviato di pattuglia davanti a tutti.

Deve arrivare al caposaldo di Croce. Lo raggiunge, ma è circondato dal nemico. Colpito da una bomba, è ferito in varie parti del corpo, cade e muore.

Lo Sardegna lo piange ancora.

 

Rita – Sas mamas a disconsolu

Son pranghende sos fitzos

In carta sos assimitzos

Mannan pro fagher su dolu

Non bolan prus a bolu

Sos zovanos de valore!

Custa gherra sambenosa

La tzesset su Redentore.

 

Sas isposas istimatas

Son pranghende de coro

Pro sos amantes issoro

Ca no ischin si s’accatant

Circundatos de granatas

Senne in su menzus fiore!

Custa gherra sambenosa

La tzesset su Redentore.

Piero – Son chiamato all’ufficio maggiorità.

Ad un tavolo un maresciallo anziano sonnecchia.

Sogna il giorno del congedo col massimo della pensione.

Ad altri tavoli, scritturali, militari e borghesi, svogliati e scontenti. Mi avanzo rispettosamente verso il maresciallo.

Solleva il viso, mi guarda, prende una scatolina e una busta, le butta sgarbatamente dinanzi a me “C’è questo per lei”.

Apro la busta: un brevetto di medaglia. Apro la scatolina:

una medaglia al valore!

Si consegna così una medaglia al valore?

Credo di avere ruggito, non parlato.

“Si alzi, si alzi!” Il maresciallo si alza in piedi sbalordito.

“Sull’attenti! Davanti a questa medaglia ci si mette sull’attenti!”.  Lo lascio sull’attenti e me ne vado.

Ma ha ragione lui. Quale è il valore di una medaglia al valore? E’ la prova che uno ha rischiato la pelle più degli altri e conseguentemente la riprova che uno, come dicono qui, è più “fesso” degli altri.

 

Salvatore – Era il tenente Alfredo Graziani, Tenente Scopa.

Tempiese, 1892. Cavalleggero, ottenne di passare alla Brigata Sassari, uno degli ufficiali più scanzonati e coraggiosi. Compagno e amico in trincea di Lussu, che lo ritrarrà in Un anno sull’Altipiano come tenente Grisoni.

Gravemente ferito nel ’16 tornò convalescente al fronte fino al 1918. Dapprima aderente al partito sardo d’azione, si avvicinò in seguito al fascismo. Scrisse nel ’34 le sue memorie di guerra “Fanterie sarde all’ombra del tricolore”, il libro di un fascista definito “consonante” con “Un anno sull’Altipiano” dell’antifascista Emilio Lussu.

Le lezione della guerra fu uguale per entrambi.

 

Mario – Secondo te finirà presto questa guerra?

 

Piero – Non finirà mai. La guerra è un macello permanente.

 

Rita – Che cos’è?

 

Piero – Un macello permanente.

 

Rita – Anche per gli ufficiali?

 

Piero – Anche per loro.

 

Salvatore – Continuano i sacrifici, al fronte arrivano i diciottenni nati nel 1899. In primavera in Sardegna si manifestano i primi sintomi di un’influenza sconosciuta, la spagnola, che alla fine dell’estate comincia a provocare effetti devastanti. In breve tempo dilaga per città e paesi.

Una relazione del medico provinciale di Cagliari dell’ottobre 1918 ne conferma la presenza in quasi tutti i centri: dal 15 al 30% degli abitanti sono stati colpiti, nelle prime settimane di ottobre muoiono 35 persone al giorno.

 

Mario – La nuova epidemia si aggiunge al riacutizzarsi delle tradizionali malattie, che hanno trovato campo per prosperare nella denutrizione e nelle precarie condizioni igieniche, accentuate dall’emergenza bellica. In Sardegna si deve affrontare una guerra, parallela a quella combattuta al fronte, per la ripresa e l’acuirsi della tradizionale “triade malefica”: le febbri malariche, il tracoma e la tubercolosi.

 

Rita – Curata con pastiglie e iniezioni di chinino, la malaria ha una diffusione ancora enorme: nell’ottobre 1918 si apre un ambulatorio antimalarico a Cagliari Sant’Avendrace, si riscontrano 230 malati sui primi mille cittadini visitati. Grazie al chinino distribuito gratis dai Comuni, la mortalità  è in diminuzione, ma nel 1914 muoiono di malaria ancora 325 sardi. La maggior parte sono bambini.

 

Piero – Nel 1915 la Sardegna ha avuto, per ogni centomila abitanti, 63 morti di malaria contro i 5 dell’Italia; 219 morti di tubercolosi contro 145. Negli ultimi anni è prima in Italia per la tubercolosi. Vent’anni prima era ottava.

L’oristanese detiene il primato regionale e nazionale per malati di lebbra. Gli specialisti attribuiscono la diffusione del contagio al fatto che la miseria e la mancanza di assistenza impediscono l’isolamento dei malati e li costringono a vivere a contatto con altre persone.

Alcuni di loro infatti lavorano in miniera o, addirittura, in botteghe di generi alimentari.

 

Salvatore – Intanto il malessere sociale è sempre molto alto, anche se passa in secondo piano rispetto alle notizie che giungono dal fronte, ai timori e all’orgoglio per la resistenza sul Piave e per i nuovi atti di valore compiuti dai sardi nelle battaglie del giugno 1918.

 

Rita – I generi alimentari scarseggiano e il loro prezzo elevato colpisce operai e ceti medi. Vestiario e burro sono aumentati sei volte, il prezzo della carne di pollo, l’unica accessibile ai ceti popolari, è aumentato dieci volte.

A Bosa vengono requisiti l’olio d’oliva e il formaggio.

A Oristano, al centro di terre fertili, con un’agricoltura vivace, manca tutto, pane, farina, pesce, verdura, frutta.

 

Piero – Nelle campagne che producono tradizionalmente cereali in relativa abbondanza devono aspettare l’arrivo della farina dalla città, che controlla il commercio del grano. Il percorso innaturale, dal centro alla periferia, in una Sardegna dove le strade sono spesso difficili da percorrere, e a volte mancano del tutto, genera ritardi, penuria, sospetti, possibilità di profitti illeciti da parte di persone con pochi scrupoli. Gran parte dei paesi non sono raggiungibili per ferrovia. Di fronte a tante difficoltà, il sindaco di Oristano proporrà la gestione decentrata delle derrate agricole e l’uso di imbarcazioni e carri per il trasporto a destinazione.

 

Mario – Nell’estate del 1918 la speranza di vedere la guerra finita si accompagna all’entusiasmo per le proposte pacifiste del presidente americano  Thomas Woodrow Wilson. Il temporaneo innamoramento fa sì che anche in Sardegna si celebrino con solennità le feste nazionali degli alleati americani e francesi, il 4 e il 14 luglio.

 

Rita – Finalmente ai primi di novembre arriva la notizia della vittoria. A Cagliari una folla piena di gioia ed entusiasmo sfila per le vie tra canti, discorsi e sventolio di bandiere.

 

Salvatore – Il prezzo pagato  per la guerra appena conclusa è enorme. I sardi morti per ferite riportate in battaglia, per malattie contratte durante il servizio militare, in prigionia o dispersi, smembrati e sepolti da tonnellate di terra sollevata dalle esplosioni, furono secondo le fonti ufficiali 13.602; 138,6 morti ogni 1.000 sardi, una percentuale di gran lunga superiore alla media italiana che fu di 104,9.

Il numero si riferisce a quelli dichiarati e accertati dalla amministrazione pubblica, così che i parenti potessero avere un compenso per la vita del proprio caro defunto e un sussidio temporaneo o permanente.

Si hanno buoni motivi per credere che il numero sia anche maggiore e che molti caduti non siano stati registrati.

 

Piero -  A questi vanno aggiunti i mutilati e gli invalidi.

Una pensione sarebbe comunque arrivata, magari quaranta anni dopo. Quasi centomila erano partiti per la guerra, più del 10% della popolazione sarda all’epoca, poche furono le famiglie in Sardegna che non ebbero un morto da piangere, un mutilato, un invalido, un disperso.

 

Rita – Dopo Caporetto, la fuga generale e la dispersione, o la caduta in mano del nemico, degli uffici e delle furerie dei reggimenti, causarono un collasso burocratico dell’esercito italiano, oltre che una drammatica sconfitta sul terreno.

I sardi presi prigionieri o dispersi in quell’occasione furono tantissimi, di tanti non si seppe più nulla.

La Sardegna contava 870.077 abitanti. I mobilitati dal ’15 al ’18 furono 98.142, l’11,8% della popolazione.

Tra caduti e dispersi più di 17.000, il 2% della popolazione.

 

Piero -  Un’altra conseguenza della guerra si rileverà poi nel dato demografico: scomparsi tanti uomini, tra i più giovani e validi, non ci si poteva certo aspettare molte nuove nascite negli anni successivi alla guerra.

 

Salvatore – I 106 paesi del circondario di Oristano contarono un numero di morti tra i 2.500 e i 3.000.

Dai dati dei censimenti si ricava che in dieci anni, dal 1911 al 1921, si verifica nell’oristanese un aumento di soli 6.500 abitanti su un totale di 130.000.

Aumenti significativi si hanno nei centri economicamente più vivaci, come Macomer, Cuglieri, Terralba.

La popolazione diminuisce a Cabras, Santulussurgiu, Sedilo, Seneghe.

Negli altri paesi il bilancio è pari.

 

Rita – C’è dunque poco da festeggiare.

Nelle cronache dei quotidiani e nei verbali di Giunta e Consiglio comunale delle città è possibile trovare traccia di manifestazioni pubbliche e di festeggiamenti.

Ma forse non è nelle città che bisogna cercare il cuore delle vicende del dopoguerra in Sardegna. Esso si trova probabilmente nelle case in pietra e fango dei paesi, svuotate di una generazione di giovani, cui ora ritornano i sopravvissuti, decisi a dare una scossa a un mondo che hanno sempre conosciuto apatico e indifferente.

 

Mario – Che cosa riportano a casa i sopravvissuti?

Nella guerra sono fiorite leggende, certo fondate su dati di fatto. La leggenda della Brigata Sassari e del valore combattente dei sardi:

-         6 ordini militari di Savoia,

-         9 medaglie d’oro,

-         405 medaglie d’argento,

-         551 medaglie di bronzo,

-         4 medaglie al valor militare alle bandiere.

Ancora più di questo conta il sangue versato dalla Brigata Sassari:

Morti: Ufficiali 138, Soldati 1.596

Feriti: Ufficiali 359, Soldati 8.754

Dispersi: “          53, Soldati 2.035.

 

Rita – Sul mito della Brigata soffia il vento della retorica patriottarda. Ad esso si opporrà nell’immediato dopoguerra Camillo Bellieni. Colui che sarà poco tempo dopo uno dei principali fondatori del Partito sardo scrive nel 1920 una lettera al capo del governo Bonomi, chiedendo lo scioglimento della Brigata! Essa infatti doveva essere impegnata in servizio d’ordine pubblico per fronteggiare il movimento operaio del dopoguerra.

 

Mario – “Noi sardi guardiamo con occhi fermi la realtà. Respingiamo quindi col piede la retorica bolsa dei bollettini ufficiali di guerra.

Compimmo tutto intero il nostro dovere, null’altro. (…)

Chi accennasse a selvagge passioni brulicanti nel nostro sangue nel tragico istante della mischia, chi immaginasse nella fantasia estetizzante il sardo pervaso dal furore del sacro rito della guerra non avrebbe altra scusa per il suo errore che l’immensa ignoranza, comune a tutti gli italiani, delle cose nostre. Giudizi simili possono essere dati solo da coloro che non hanno visto l’infinita tristezza scolpita nel volto dei nostri soldati, nell’ora precedente l’azione. (…)

Come gli altri soldati italiani andavano incontro al nemico con la consapevolezza della sorte oscura imminente”.

 

Rita – Sgombrato in questo modo il campo dalla  falsa immagine del sardo come macchina bellica, Bellieni può stabilire l’equazione tra Brigata Sassari  e aspirazioni della Sardegna (…) e può avanzare a nome dell’intera regione la richiesta dell’immediato scioglimento della Brigata, disonorata in un servizio di polizia che le attira l’odio e il disprezzo dell’opinione pubblica.

 

Mario – “Il capriccio o il freddo calcolo di un comandante mandò riunita la nostra gente incontro alla morte, con palese violazione delle leggi e dei regolamenti sull’ordinamento dell’esercito. Il destino volle forse permettere di dare un’altra volta ai venti la nostra bianca bandiera, crociata di rosso, inquartierata con i mori bendati. Ora non vogliamo che nessuno la insozzi nel fango”.

 

Piero -  Bellieni nel 1924 salva invece l’altra leggenda, nata in seno alla Brigata Sassari, eppure a sè stante, quella del capitano Emilio Lussu.

 

Mario“Un uomo che potrà essere la vostra bandiera contro le bramosie degli arrivisti, le tenaci resistenze degli arrivati, Emilio Lussu.

Il primo giorno di guerra l’ha trovato alle frontiere, l’ultimo in prima linea, dopo sessanta fatti d’arme sanguinosi…”

Piero – Scrive Bellieni che la morte non aveva voluto prendersi Emilio Lussu e conclude dicendo che un tale uomo era degno di guidare un popolo intero.

 

Salvatore – Il ritratto che Bellieni dedica a Emilio Lussu, benchè finalizzato a intenti di propaganda politica, è forse il documento più esemplare della nuova interpretazione sardista della Brigata. Rispetto alle interpretazioni precedenti quella di Bellieni si caratterizza per la chiarezza con cui si sofferma sulla sardità della Brigata Sassari.

L’operazione politica avviata dal Comando Supremo con la disposizione del dicembre 1915, che impone ai militari di “stirpe sarda” di raggiungere al più presto  il 151° e il 152° reggimento è per Bellieni un momento non secondario di quella impostazione esasperatamente nazionalistica e vagamente razzista della guerra (…) Bellieni però coglie acutamente l’ambivalenza politica del provvedimento, il richiamo alla “piccola nazione sarda”, che lungi dall’esaurirsi nella dimensione razzista, approda nei fatti ad una matura consapevolezza dell’identità storica e culturale dei sardi. A questo punto l’operazione sfugge di mano agli Alti Comandi e si profilano i lineamenti di un’esperienza di massa  del tutto nuova che costituirà la premessa necessaria per la nascita del sardismo, che partirà dall’autentico unico regalo che l’Italia fece ai sardi con questa guerra: un formidabile rapporto di fiducia tra ufficiali di complemento e semplici fanti, stretti dal riconoscimento di un identico sentimento di identità nazionale, che darà i suoi frutti.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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