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COMUNITARISMO versus MERITOCRAZIA, due filosofie contrapposte della società, intervista al sociolgo MICHAEL J. SANDEL, di Carlo Bordoni

Posted By cubeddu On 31 luglio 2022 @ 07:20 In Blog,Cultura e Scuola,Economia,Giustizia,Società | Comments Disabled

OLIVETTI, INSIEME AL FILOSOFO FRANCESE JACQUES MARITAIN, FURONO FRA I FONDATORI DI QUEL SOCIALISMO UTOPISTICO DA CUI HA ORIGINE IL COMUNITARISMO.

L’idea del merito è profondamente radicata nella nostra cultura, La religione calvinista ne ha fatto un dettato morale, dove la salvezza eterna non dipende dalla grazia, ma dal frutto del proprio impegno. Max Weber ne ha dimostrato la ricaduta nel mondo degli affari nella sua opera più famosa, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo. II merito è diventato così il verbo indiscusso della civiltà occidentale, ma è anche il più potente generatore delle disuguaglianze.

A mettere in discussione la meritocrazia, termine coniato nel 1958 da Michael Young, è il comunitarismo, corrente di pensiero che critica il liberalismo ( e il neoliberismo); ha origini nel socialismo utopistico e conta tra i suoi iniziatori Jacques Maritain e Adriano Olivetti. Guarda più alla comunità che al singolo, considerando l’individuo parte integrante del contesto sociale. In quanto tale, il suo successo dipende dalle persone che vivono attorno a lui. Il talento personale appartiene perciò all’intera comunità e la distribuzione equa dei meriti è il messaggio più originale.

Michael J. Sandel è uno dei principali esponenti del comunitarismo e le sue idee hanno fatto il giro del mondo. Insegna «Teoria del governo» a Harvard ed è autore de La tirannia del merito (Feltrinelli), dove confuta il pregiudizio della meritocrazia, che «fomenta il risentimento, avvelena la politica e accresce la discordia sociale». Ne abbiamo parlato con lui.

Professor Sandel, nel suo libro si parla di una questione morale. Chi emerge grazie al proprio talento merita di più di chi è altrettanto laborioso, ma meno dotato?

«Consideriamo un grande atleta, come Lionel Messi. Si è allenato duramente, come molti altri atleti meno dotati. II suo talento è merito suo o della sua fortuna? E che dire del fatto che vive in un’epoca e in una società in cui tutti amano il calcio?

Anche questa è una casualità, non è opera sua. Quindi è difficile dire che, moralmente, egli meriti le enormi ricompense che il mercato gli offre. È difficile sostenere che, moralmente, meriti di guadagnare mille volte di più di un insegnante o di un’infermiera. Lo stesso si può dire di altre élite di successo, sia nelle professioni sia nella finanza. Il merito è diventato tossico perché una meritocrazia guidata dal mercato incoraggia chi emerge a considerare il proprio successo come misura del proprio merito. Ho chiamato questo atteggiamento “arroganza meritocratica” delle élite. È il lato oscuro della meritocrazia. Quando consideriamo il nostro successo come “opera nostra”, dimentichiamo il debito nei confronti di chi ha reso possibile il nostro successo: la famiglia, gli insegnanti, la comunità, il Paese. Questa dimenticanza rende più difficile riconoscere la nostra dipendenza reciproca e il nostro obbligo di occuparci del bene comune».

 

Perché alla base della rivolta populista c’è una questione morale?

«Una delle ragioni più profonde della rivolta populista contro le élite è la sensazione di molti di essere guardati dall’alto in basso, che l’apporto dei lavoratori non sia riconosciuto o rispettato. Si tratta di una lamentela legittima. Quando la globalizzazione ha provocato l’aumento delle disuguaglianze e la stagnazione dei salari, i politici dei principali partiti hanno rivolto ai lavoratori consigli del tipo: “Se vuoi competere e vincere nell’economia globale, vai all’università”. “Quello che guadagnerete dipenderà da quello che imparerete”. “Puoi farcela se ti impegni”. Ma questi slogan contengono un’accusa implicita: “Se non hai una laurea e fai fatica nella nuova economia, il fallimento è solo colpa tua. Il problema non è nella struttura dell’economia o nelle politiche neoliberiste che noi (i partiti principali) perseguiamo; il problema è che non sei riuscito a migliorare te stesso, ottenendo un diploma universitario”. Non c’è da stupirsi se molti lavoratori si sono ribellati alle élite meritocratiche. Quelli di noi che passano il tempo in compagnia di persone acculturate dimenticano facilmente che la maggior parte dei nostri concittadini non ha una laurea. Dunque è una follia creare un’economia che faccia dipendere un lavoro dignitoso e una vita decente da una laurea che la maggior parte non possiede. Il populismo autoritario di destra è di solito un sintomo del fallimento della politica progressista. Negli ultimi decenni, i partiti di centro-sinistra non sono riusciti a rispondere adeguatamente alla disuguaglianza e alla stagnazione dei salari. La loro “retorica dell’ascesa”, come l’ho definita, puntando sulla mobilità individuale verso l’alto attraverso l’istruzione superiore, non è la risposta adeguata alla disuguaglianza».

La società attuale è individualista e basata sul successo personale: non conta meritarlo, basta che sia visibile, che sia riconosciuto. L’impressione è che gran parte di quanti guadagnano cifre enormi non abbiano grandi merìtì, ma solo un grande successo. Spesso chi ha merito e competenze, invece, non viene premiato. Non è già questa la fine della merìtocrazìa?

«Lei ha ragione: il successo spesso non è correlato al vero merito. Troppo facilmente diamo per scontato che i soldi che le persone guadagnano ( o la loro visibilità pubblica) siano la misura del loro contributo al bene comune. È un errore. Se il giudizio del mercato fosse la vera misura del contributo sociale, allora dovremmo ritenere che un gestore di hedge fund o un banchiere di Wall Street contribuiscono all’economia e alla società in misura mille volte maggiore di un insegnante o di un infermiere. Ma persino i sostenitori del libero mercato sarebbero riluttanti ad accettare questa conclusione. L’esperienza della pandemia l’ha reso evidente. Fattorini, magazzinieri, commessi di negozi di alimentari, assistenti infermieristici, assistenti all’infanzia non sono i lavoratori meglio pagati o più riconosciuti dalla nostra società, eppure durante la pandemia li abbiamo chiamati “lavoratori essenziali” o “lavoratori chiave”. Li abbiamo applauditi e ringraziati Qµesto momento di rinoscimento potrebbe essere dimenticato, oppure costituire l’occasione di un più ampio dìbattìto pubblico su come allineare meglio la loro retribuzione e il loro valore all’importanza del lavoro che svolgono. Dovremmo concentrarci meno sull’armare le persone per la competizione meritocratica e concentrarci di più su come rinnovare la dignità del lavoro. E ricordare che il lavoro non è solo un modo per guadagnarsi da vivere: è anche un modo per contribuire al bene comune e ottenere ricoscimento e stima sociale. Una conseguenza della “tirannia del merito” è che lesiniamo il riconoscimento  a coloro che danno un contributo importante al bene comune indipendentenfe dal fatto che abbiano o meno lauree magistrali o credenziali prestigiose».

Se la tracotanza meritocratica, come lei afferma, è la causa della Brexìt e del sconfitta di Hillary Clinton, come spiega la vittoria di Biden?

 

«Bìden era meno meno identificato con l’orientamento meritocratico e “credenzialista” di Bill Clinton, Hillary Clinton e Barack Obama. Infatti, è stato il primo candidato del Partito Democratico alla presidenza in 36 anni a non avere conseguito la laurea in una prestìgìosa università della Ivy gue (gli otto migliori college americani). Questo fatto, da solo, suggerisce quanto profondamente il Partito Democratico sia stato associato alla meritocrazia. Ma ha permesso a Biden di  prendere le distanze dall’enfasi posta sul successo indiviuale grazie all’istruzione superiore. Durante la sua campagna elettorale ha parlato meno di “retorica dell’ascesa” e più di rinnovare la dignità del lavoro. Questa svolta retorica è un passo nella giusta direzione, ma non è sufficiente a ridefinire la missione e lo scopo del Partito Democratico. Sarà necessario un presidente più trasformativo, capace di articolare una nuova visione di governo. Sarà necessario abbandonare la versione neoliberista della globalizzazione che il Partito Democratico ha abbracciato da Clinton a Obama».

Colpisce la sua affermazione: “L’ideale meritocratico non è un rìmedìo alla disuguaglianza, ma la sua giustificazione”. Com’è possibile?

 

«Di solito pensiamo alla meritocrazia come risposta alla disuguaglianza. Ad esempio, un’aristocrazia ereditaria è ingiusta perché determina le opportunità di vita in base alla casualità della nascita. La meritocrazia sembra un’alternativa più equa. Il destino delle persone non è determinato dalla famiglia in cui sono nate, ma dai loro meriti. Allo stesso modo, l’assegnazione di posti di lavoro o l’ammissione all’università basata su nepotismi, pregiudizi o corruzione è ingiusta perché non giudica le persone in base alle loro qualità, ma in base a fattori estranei alla loro capacità di svolgere bene un compito. Le politiche meritocratiche sembrano più giuste. Oggi, tuttavia, i genitori benestanti e colti hanno capito come trasmettere i loro vantaggi ai figli, non tanto lasciandogli in eredità ricchezze, ma conferendo loro i vantaggi educativi e culturali necessari per ottenere l’ammissione alle migliori università e a intraprendere carriere ben retribuite. Benché qualsiasi studente possa sostenere gli esami di ammissione per l’accesso all’università, solo gli studenti in grado di coltivare il proprio talento accademico durante l’adolescenza riescono a ottenere i punteggi migliori. La meritocrazia promette una mobilità verso l’alto grazie allo sforzo e al duro lavoro. In pratica, invece, la mobilità è bloccata. I figli di genitori a basso reddito tendono a rimanere poveri da adulti. Certo, le università d’élite della Ivy League offrono generose borse di studio e assistenza finanziaria ai giovani provenienti da ambienti modesti. Eppure il maggior numero di studenti che frequentano queste università proviene da famiglie che si collocano ai primi posti della scala dei redditi, piuttosto che da famiglie della metà inferiore della scala. Ecco perché la meritocrazia oggi non funziona come alternativa alla disuguaglianza, ma come “giustificazione della disuguaglianza”».

 

Quasi un secolo fa l’economista inglese R.H. Tawney sosteneva che l’uguaglianza di opportunità è un’idea parziale. Per quali ragioni è così difficile sconfiggere le disuguaglianze?

 

«Anche se riuscissimo ad avere un’autentica uguaglianza di opportunità, anche se tutti iniziassero· davvero la gara dallo stesso punto di partenza, avremmo comunque una società di “vincitori” e di ”perdenti”. Il problema è considerare la vita sociale come una competizione, dove i vincitori si aggiudicano tutti i premi. Alcuni sostengono che l’unica alternativa all’uguaglianza delle opportunità sia un’opprimente uguaglianza dei risultati, tutti con lo stesso reddito e la stessa ricchezza. Ma non è l’unica alternativa. Oltre all’uguaglianza di opportunità, abbiamo bisogno di un’ampia e democratica uguaglianza di condizioni. L’ideale di cui parlo in La tirannia del merito richiede che tutti, indipendentemente dalla provenienza di classe o dall’occupazione svolta, abbiano accesso ai beni essenziali della vita democratica – assistenza sanitaria, istruzione, lavoro, casa – ma anche il rispetto e la stima sociale. Negli ultimi decenni, le crescenti disuguaglianze di reddito e di stima sociale hanno portato a una grande separazione. I benestanti e coloro che hanno mezzi più modesti vivono sempre più spesso vite separate. Mandiamo i nostri figli in scuole diverse. Viviamo, lavoriamo, facciamo acquisti e giochiamo in luoghi diversi. Riceviamo notizie da fonti diverse. I social rafforzano questo isolamento. Un’uguaglianza democratica di condizioni richiede di opporsi a queste tendenze e ricostruire all’interno della società civile spazi pubblici che ci riuniscano. Le pratiche di condivisione sociale ci ricorderebbero, in modo concreto e tangibile,- che partecipiamo tutti a una vita comune».

Da  SETTE,  settimanale de ‘Il corriere della sera, 8 luglio 2022

 

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