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Intervista di Piera Serusi a Padre Salvatore Morittu. «Volevo il saio e i gambali da pastore».

Posted By cubeddu On 9 gennaio 2022 @ 09:19 In Blog,Chiesa sarda,Persone,Società sarda | Comments Disabled

Padre Salvatore Morittu non crede più nella Provvidenza. «Non ci credo perché non ho più bisogno di sperare. Basti pensare che da 40 anni viviamo del nostro lavoro e dell’aiuto della gente. Cos’è, l’aiuto della gente, se non una manifestazione della Provvidenza?».

Ci sarà pur stata una volta in cui ha rischiato di perdere tanta fiducia. «Certo. Avevo acquistato tutto ciò che serviva urgentemente per coltivare i campi delle nostre comunità di S’Aspru e Camp’e Luas: due trattori, aratri, carrelli. Un debito di 80 milioni di lire, e io non avevo un soldo».

Difficile che la Provvidenza ne abbia tanti. «E invece, torno in comunità a San Mauro e un mio collaboratore mi consegna un pacco ch’era stato portato da una coppia. Dentro, avvolti in un foglio dell’Unione Sarda, c’erano 50 milioni di lire in tagli da 50mila con la fascetta della Banca d’Italia. Ho chiamato subito il mio amico Giorgio Pisano, da voi, al giornale…».

L’idea qual era? «Ho chiesto a Giorgio se poteva scrivere un trafiletto, in modo che queste persone sapessero che avevo ricevuto i soldi. Fu inutile, mai saputo chi fossero. In compenso tanti erano felicissimi, soprattutto quelli del consorzio agrario. Mi arrivò una telefonata: padre Mori’, quindi possiamo saldarlo quel debituccio?».

Adesso lei ha bisogno di almeno 150mila euro per allestire una cucina professionale a S’Aspru… «Un intervento necessario per la comunità che nel 2022 compie 40 anni. Ci serve una struttura adeguata per poter fare dei corsi e formare futuri chef. Un mestiere che i nostri ragazzi possono spendere quando saranno pronti a lasciare la comunità».

E dire che padre Salvatore Morittu non voleva diventare sacerdote. Lo racconta, assieme a tante altre cose, nel libro “Gli ultimi sognano a colori”, in edicola dal 30 dicembre, scritto con Giampaolo Cassitta e pubblicato da L’Unione Sarda che devolve alla causa (tolte le spese) il ricavato della vendita.

I lettori troveranno un conto corrente e, mettiamola così, saranno la mano della Provvidenza.

Francescano minore, 75 anni, due lauree (in Teologia e Psicologia), studi a Firenze, Roma e Gerusalemme, un’autostrada spianata verso una gloriosa carriera di professore universitario, ha attraversato il Sessantotto al fianco di San Francesco e di un paio di maestri comunisti senza Dio.

Radici a Bonorva, ultimo di quattro figli di un pastore benestante, ha trascorso l’infanzia sognando il saio da frate («Il convento era a 50 metri da casa mia») ma pure i gambali da pastore («La campagna mi piaceva moltissimo»). Alla fine ha vinto San Francesco e il risultato è questo frate che ha dedicato la vita agli ultimi, ai perdenti, agli scarti dell’umanità. I drogati, i pazzi, i malati di Aids. Ha fondato la prima comunità per tossicodipendenti in Sardegna (nel convento di San Mauro a Cagliari), ne ha aperto una a Camp’e Luas (Uta), un’altra a S’Aspru (Siligo), e infine ha inaugurato una casa d’accoglienza per malati terminali di Aids.

Lui, lieto e soave secondo l’insegnamento del suo datore di lavoro, procede per le vie del Signore come un carro armato. Perché non voleva diventare sacerdote? «Perché ho sempre desiderato stare accanto ai poveri, mentre essere sacerdote significava far parte dei maiores, dei clericali sicuri e garantiti. Fin da bambino ho incarnato una religiosità attinta dalla fede di mia madre e dal convento dei frati. Poi è successo quello che è successo…». Racconti. «Crescendo sono stato sollevato da terra da due tsunami: il Concilio Vaticano II e il ’68. Frequentavo il gruppo Cristiani per il socialismo, partecipavo ai campi di volontariato, ragionavo in termini di classi sociali e io, da francescano, dovevo essere proletario».

I frati l’hanno dovuta mandare a studiare la Bibbia a Gerusalemme perché dopo la chiamata di San Francesco stesse a sentire pure quella del Signore. «Quando sono tornato ho detto al mio superiore padre Dario Pili: divento sacerdote, ma non mettermi nella condizione di non realizzare il mio desiderio di stare coi poveri. Mi ha accontentato: è stato lui a farmi incontrare i drogati, il bacio fatale della mia vita».

Sarebbe potuto diventare un famoso professore. «Avevo sogni di docenza universitaria, ma progettavo anche di costruire un consultorio familiare a Gerusalemme. Dio però ha un disegno per ciascuno di noi».

Oggi è soddisfatto di questo disegno? «Ho la consapevolezza di aver fatto bene la mia vita. Sono grato a Dio, e sono grato ai frati che mi hanno permesso di lavorare senza emarginarmi. Anch’io, però, ho fatto di tutto per non emarginarmi. Facendo questo lavoro è facile essere autoreferenziale».

Mai incontrato una donna che l’ha fatta innamorare? «Sai che Dio non mi ha mai fatto mancare la possibilità di sentire che potevo essere amato? Insomma, non sono bello e non ho un particolare sex appeal… Per fortuna mi ha fatto incontrare donne serie».

Non ha risposto alla domanda. «Sì, è successo. Il primo che se ne accorse è stato l’allenatore della squadra dei frati. Una volta mi riprese: Salvato’, non stai giocando più come prima, ti sei innamorato?. Però Dio mi ha preservato da situazioni che mi avrebbero messo alla prova».

Come ha fatto? «Ha pensato di inserire nella mia vita un grande senso di paternità. Vedere con gli occhi di un padre anche la donna, l’amore umano, ti permette di cogliere delle sfumature profonde di amore, ma sempre nel rispetto. Se cedi non puoi più essere credibile». Nel suo cammino di frate minore è stato aiutato anche da tanti comunisti, come Massimo Ammaniti, grande neuropsichiatra. «A Roma era il mio professore della tesi di laurea in Psicologia. Era un sostenitore della legge Basaglia e faceva parte del Comitato centrale di Sanità, presieduto da Giovanni Berlinguer. Per preparare la tesi sull’ospedalizzazione psichiatrica mi spedì al manicomio di Santa Maria della Pietà, il posto dove finivano i poveri, i più emarginati».

Berlinguer le venne in soccorso quando a Siligo si opponevano all’apertura della comunità. «Diede l’ultimo tocco a una storia in via di soluzione. In quel terreno i silighesi progettavano di costruire un albergo, campi da tennis e tanto altro. Vedere lì i drogati non doveva essere facile…».

Come si sono convinti? «Grazie ai nostri confinanti, pastori di Orune, Orgosolo e Buddusò che nei bar del paese dicevano: saranno anche drogati ma lavorano».

Oggi chi sono i drogati? «Perlopiù eroinomani, cocainomani, alcolisti e giocatori d’azzardo. Quelli che si drogano perché lo fanno tutti e quelli che si drogano perché non riescono a reggere la vita stressante che si sono dati».

Nel libro racconta che ha potuto studiare grazie alla maestra, non credente, che convinse i suoi genitori. «Sì, e devo dire che mia madre, donna di grande fede ma quasi bigotta, non ha mai parlato male di lei che non ci faceva pregare».

Ha rischiato di finire come Gavino Ledda. «Peggio, perché io alla visita di leva sono stato riformato: non avevo una misura toracica adeguata. Durante la vita militare Gavino Ledda ha potuto sognare una vita diversa. Io quella opportunità non l’avrei avuta».

Un anno fa il ricovero in ospedale col Covid. Si è affidato più a Dio o ai medici? «A Dio, perché ero davvero convinto di morire e non ho pensato che i medici mi potessero salvare. Solo sotto il casco, la mia nuvola è stata il rapporto con Lui».

Ma l’hanno salvata i medici. «Certo, avevo deciso di collaborare con loro».

Oggi lei è Commendatore della Repubblica. «Un titolo che mi ha portato a ridermi di più addosso. Penso a quanta gente, in quarant’anni, non ha avuto un riflettore addosso e ha lavorato tantissimo per me e con me. Questi sono i veri commendatori, il mio è un titolo al plurale. Altrimenti sarei un arrogante, uno di fronte al quale è meglio chiudere le porte perché sta cercando solo il suo prestigio».

L’UNIONE SARDA 29 DICEMBRE   2021

 

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