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Nereide Rudas poetessa: “Culla d’erba

Posted By cubeddu On 23 gennaio 2021 @ 06:23 In Blog,Cultura e Scuola,Letteratura sarda | Comments Disabled

Rubrica curata da Maria Michela Deriu, con la presentazone del tema ‘IL CAVALLO’ nella vita dei sardi.

“Un cavalcatore maldestro, avvenimento rarissimo, perdeva prestigio”.

Così afferma Emilio Lussu nel Cinghiale del Diavolo. Cavalcare nel racconto di Lussu è fondamentale perché l’uomo era chiamato ad essere cavaliere-pastore , Re-pastore.

“Appena in età per farlo, i bambini salivano a cavallo. Dapprima venivano issati sull’animale dal padre o da altri adulti e, quindi, venivano via via addestrati da soli.

I sardi, imparano presto a stare a cavallo. Cavalcare con perizia ed eleganza, anche in condizioni difficili, era la regola.”

Questo afferma Nereide Rudas  nell’Isola dei Coralli.

Scomodando Freud, il cavallo rappresenta nel sogno: ritrovare un’energia nuova per affrontare l’esistenza. Può però anche essere l’emergere di un bisogno di libertà, di movimento di fronte a una vita troppo stretta.

Perché parlando di liriche mi occupo del cavallo?

Perché nell’Isola dei Coralli, l’autrice dedica un lungo capitolo dal titolo “Il patriziato pastorale e i suoi simboli”.

L’essere-a-cavallo è il rapporto di fusione con la natura.

 

Credo – ma, non conoscendo la sua infanzia, potrei essere smentita –  che anche Nereide Rudas sapesse cavalcare. Questo fatto oggettivo è irrilevante se si riporta all’immaginario.

Nel libro dei sogni, il simbolo del cavallo rappresenta la nobiltà d’animo, l’intelligenza la dignità e l’eleganza. Il cavallo, però, è anche selvaggio e difficile da domare.

A questo proposito Nereide Rudas dedica una delle più belle liriche della raccolta.

”C’e’ un Ade nel mio cuore” il titolo e’

“Culla d’erba”

 

 

E’ una della poche liriche che l’autrice introduce con questa bellissima dedica:

 

A mio nonno Giovanni Maria Rudas

uomo di terre, pascoli e cavalli..

 

Culla d’erba

Lo lasciò giù nell’erba a Monteora

la sera in cui soffrì la sua morte,

in quell’ora segnalata dalla sorte

quando non vivo non era morto ancora.

 

Ieri incedeva alto in nobiltà,

oggi avanzava accecato dentro il pianto,

ciò che contava e da cui traeva vanto

non ha più significato, né entità.

 

Quello che vide e amò tutta la vita

sfuma nel buio della disrealtà

perso nel cerchio della ciclicità

cieca alla storia, muta ed infinita.

 

Lo uccise una notizia che sapeva

da quando era nato e tuttavia

aveva allontanato per magia

per poter viver come conosceva.

 

Con il figlio morì la sua ragione

l’unica della sua semplice esistenza;

la sua vita non trovò motivazione

e si spense ove sorse: l’immanenza

d’una culla d’erba della prateria

l’accolse tra i suoi fiori rossi e gialli

in un sonno piatto di periferia,

ma annusato da liberi cavalli.

 

 

 

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