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La rivoluzione messa ai voti 1920, addio al biennio rosso, a cura di Antonio Carioti.

Posted By cubeddu On 13 settembre 2020 @ 06:30 In Blog,Movimenti sociali, sindacati,Politica internazionale,Storia | Comments Disabled

Conversazione tragli storici  Aldo Agosti e Giovanni Sabatucci.

Una dura vertenza sindacale portò cent’anni fa all’occupazione delle maggiori fabbriche del Nord da parte degli operai. Due storici si confrontano su un episodio centrale nella vicenda della sinistra. Aldo Agosti: «Il Psi non era preparato a prendere il potere, la sua inerzia innescò la scissione del Pci». Giovanni Sabbatucci: «Sarebbe stato più logico che dal partito si fossero staccati i riformisti; una loro intesa con Giolitti forse avrebbe potuto fermare il fascismo»

Un secolo fa, alla fine di agosto del 1920, una vertenza salariale dei metalmeccanici sfocia nella serrata degli industriali, alla quale il sindacato operaio Fiom risponde con l’occupazione delle principali fabbriche del Nord ai primi di settembre. Un evento spesso ricordato come l’apice del «biennio rosso», il momento in cui l’Italia fu più vicina a uno sbocco rivoluzionario. Ma fu davvero così? Abbiamo chiamato a discuterne gli storici Aldo Agosti, biografo del leader comunista Palmiro Togliatti, e Giovanni Sabbatucci, studioso del socialismo italiano.

ALDO AGOSTI — Oggi è quasi inconcepibile una situazione in cui la questione del potere viene posta nelle officine industriali, nel cuore della produzione materiale. Tuttavia bisogna ricordare che la lotta sindacale culminata nell’occupazione delle fabbriche ha un carattere eminentemente difensivo, anche sul piano del metodo. Per sostenere le sue rivendicazioni in fatto di salario e orario di lavoro, la Fiom adotta la tattica dello sciopero bianco, una forma di ostruzionismo che permette agli operai, stremati dalle precedenti vertenze, di intralciare la produzione senza rinunciare alla paga. A quel punto gli industriali rispondono con la serrata: chiudono gli impianti. I lavoratori reagiscono occupandoli, perché non hanno altra scelta. Ma la fase più acuta della lotta di classe si è già consumata nella primavera del 1920, quando in Piemonte si è svolto un lungo sciopero generale terminato con un sostanziale insuccesso.

Ma l’occupazione degli impianti non potrebbe essere l’occasione per la rivincita? Perché il Partito socialista, che ha aderito all’Internazionale comunista di Lenin (Comintern) e predica la rivoluzione proletaria, si tira indietro?

ALDO AGOSTI — Succede una cosa imbarazzante, cioè la rivoluzione viene messa ai voti dagli «Stati generali» del movimento operaio, cioè gli organi dirigenti riuniti del Psi e della Confederazione generale del lavoro. Si decide in questo modo chi debba assumere la direzione del movimento e come portarlo avanti. Passa a larga maggioranza la mozione che delega al sindacato la gestione della vertenza e i rappresentati del partito accettano di buon grado, anzi con sollievo. La verità è che il Psi, guidato dal massimalista Giacinto Menotti Serrati, parla di rivoluzione, ma non ha idea di come attuarla. È impreparato sul piano militare, ma anche politico. Si limita a confidare nel l ’e vol uzi one i nte r nazi onale degli eventi, che però non vede un’espansione del bolscevismo fuori della Russia.

GIOVANNI SABBATUCCI — In realtà i socialisti italiani sono profondamente divisi. Non si può certo rimproverare ai riformisti del Psi di non essere stati in grado di fare la rivoluzione, che non avevano mai auspicato. A invocarla erano i massimalisti, maggioritari nel partito, che però non avevano l’attrezzatura organizzativa né concettuale per realizzarla. Impregnati del marxismo determinista contro cui si scagliava Antonio Gramsci, erano convinti che la rivoluzione sarebbe arrivata come una sorta di evento naturale inevitabile. Quindi non si ponevano il problema di prepararla. Alcune delle officine occupate nel settembre 1920 producono armi, ci sono foto di operai che le presidiano imbracciando fucili. Ma nessuno pensa di guidarli a conquistare i palazzi del potere. Anche perché l’Italia del 1920 non è la Russia del 1917: ci sono uno Stato, un esercito, una polizia, una Confindustria saldamente in piedi. Alla fine la scelta più logica è proprio affidare la gestione della vertenza ai riformisti del sindacato, che peraltro la concludono vittoriosamente, con notevoli concessioni dei datori di lavoro agli operai.

A mediare l’intesa che fa cessare l’occupazione è il governo di Giovanni Giolitti. Sarebbe stato possibile, sulla scia di quella vicenda, giungere a una collaborazione tra il leader liberale e la parte riformista del movimento operaio?

ALDO AGOSTI — I socialisti riformisti, che pure non escludevano di partecipare prima o poi al governo, non pensarono mai di farlo nel biennio rosso 1919-20, perché erano convinti che il partito e le masse non li avrebbero seguiti. Il loro leader Filippo Turati, pur scartando la prospettiva rivoluzionaria e vedendo il rischio di finire in un vicolo cieco, mette in chiaro più volte che non intende andare al governo. Giolitti agisce in modo freddo e pragmatico, come in occasione dello sciopero generale del 1904, che aveva destato grande apprensione. Lascia che il conflitto sociale segua il suo corso, per poi intervenire con una mediazione accettata dalle due parti ormai esauste. Il problema è che nel frattempo si è acceso uno scontro di classe ancora più duro e meno governabile nelle campagne.

GIOVANNI SABBATUCCI — Trovo giu

sto il richiamo alle lotte agrarie. Il fascismo non si sviluppa nei centri industriali del Nord come reazione all’occupazione delle fabbriche, ma in Emilia, in particolare a Bologna. Nelle campagne le tensioni sociali sono ancora più gravi, con un ricorso alla violenza ben più frequente e una maggiore intransigenza da parte dei proprietari terrieri. Ma nel settembre 1920 non si stabilisce alcun raccordo tra le lotte operaie e quelle dei braccianti, che poi saranno presi di mira dallo squadrismo fascista. Quanto a Giolitti, non pensa certo a un accordo con il Psi, del tutto indisponibile, ma con i sindacati e la parte del partito guidata da Turati. Solo che il leader liberale ha in mente un’altra Italia: non capisce che i partiti hanno ormai una presa e una compattezza tali da precludere operazioni del genere.

Tuttavia a Livorno nel gennaio 1921 il Psi si spacca.

GIOVANNI SABBATUCCI — È vero, ma dal partito non escono i riformisti, bensì le avanguardie rivoluzionarie più estreme, che vanno a fondare il Partito comunista. Quindi il Psi resta a maggioranza massimalista e Giolitti, alquanto cinicamente, ne trae la conclusione che gli conviene appoggiarsi sui fascisti, con i quali presenta le liste dei Blocchi nazionali alle elezioni politiche del maggio 1921.

Ma la scissione del Psi a destra che si aspettava Giolitti non sarebbe stata più logica, dopo il tramonto delle speranze rivoluzionarie suscitate dall’occupazione delle fabbriche?

ALDO AGOSTI — Il fatto è che la posizione molto dura tenuta dagli industriali e l’irresolutezza del Psi convincono l’ala più radicale del movimento operaio che non si può più convivere sotto lo stesso tetto con massimalisti e riformisti. Amadeo Bordiga, che sarà il primo leader del Pci, lo pensava da tempo. Gli animatori del giornale torinese «L’Ordine Nuovo» (Gramsci, Umberto Terracini, Palmiro Togliatti) se ne convincono proprio dur a nte l ’o cc upazione del l e f a bbri c he, quando i quadri rivoluzionari che guidano l’agitazione si ritrovano isolati e la loro proposta di riorganizzare le strutture di base sul primato dei consigli operai viene rifiutata dalla Fiom e dallo stesso Psi. I fondatori del Pci pensavano che la situazione fosse ancora in movimento e potesse dare luogo a sbocchi rivoluzionari anche in Occidente. Non dimentichiamo che l’occupazione delle fabbriche coincide con il secondo Congresso del Comintern e con l’avanzata dell’esercito sovietico, poi sconfitto dai polacchi, su Varsavia.

Ma gli sviluppi della situazione, in Italia e all’estero, non avrebbero dovuto suggerire cautela?

ALDO AGOSTI — In effetti la scissione di Livorno ha aspetti paradossali. Dal Psi si stacca un partito il cui obiettivo è guidare con determinazione e coesione un moto rivoluzionario, ma invece è costretto ad affrontare una fase ormai di riflusso, con la controffensiva fascista che prende sempre più slancio. Basti pensare che a soli sette mesi dall’occupazione delle fabbriche, di cui Torino era stata l’epicentro, la Camera del lavoro di quella stessa città viene incendiata e distrutta dagli squadristi. E anche se i primi ad appoggiare le azioni violente dei fascisti sono gli agrari dell’Emilia, va aggiunto che gli industriali, per la grande paura suscitata dall’occupazione delle fabbriche, ne seguono presto l’esempio.

Come mai le forze del movimento operaio non si rendono conto della minaccia che incombe?

GIOVANNI SABBATUCCI — In genere i politici arrivano sempre tardi a capire i processi storici in corso. Ma va ricordato che a determinare la scissione di Livorno, per certi versi anomala, è anche la durezza della posizione assunta dal Comintern, che di fatto ordina la rottura con i riformisti a chi voglia aderire alla nuova Internazionale, indicando addirittura, nei famosi «21 punti», i nomi di coloro che devono essere espulsi, Turati incluso. Personalmente penso che la situazione sarebbe stata più chiara se la scissione fosse avvenuta lungo altre linee: tutti i rivoluzionari da una parte e tutti i riformisti dall’altra. «I socialisti con i socialisti e i comunisti con i comunisti», avrebbe detto Giacomo Matteotti nel 1922. In quel caso forse sarebbe stato possibile dare vita in Parlamento a una maggioranza capace di contrastare la violenza fascista.

ALDO AGOSTI — Anch’io ritengo che abbia influito l’intransigenza del Comintern, le cui condizioni per l’adesione sono sgradite anche ai massimalisti del Psi. Tra l’altro nei 21 punti si chiede che il partito cambi nome da socialista in comunista, pretesa che Serrati e i suoi rifiutano. Quanto alle speranze rivoluzionarie, oggi con il senno di poi sappiamo che erano vane, ma all’epoca buona parte dell’Europa era in ebollizione: ancora nel 1923 si accendono focolai insurrezionali in Germania e in Bulgaria.

GIOVANNI SABBATUCCI — Del resto parlare di situazione rivoluzionaria non significa che ci fossero le condizioni concrete per un’insurrezione vittoriosa in Occidente. Vuol dire semmai che l’idea della rivoluzione, rimasta sopita dopo la Comune di Parigi del 1871, dal 1917 in poi riemerge impetuosamente, anche se in sostanza si tratta di un mito. Poi bisogna aggiungere che con il tempo nel Psi la maggioranza massimalista s’indebolisce, tanto che al momento della successiva scissione dei riformisti, nel 1922, le due componenti quasi si equivalgono. E il partito massimalista subirà ulteriori defezioni in seguito, con una parte, Serrati compreso, che confluirà nel Pci.

ALDO AGOSTI — Un punto importante è che la spinta rivoluzionaria persiste finché dura la guerra. Sull’obiettivo di concludere subito il conflitto i bolscevichi in Russia nel 1917 ottengono un larghissimo appoggio popolare. Ma a guerra terminata fare la rivoluzione significa in qualche modo riaccendere uno scontro armato, prospettiva tutt’altro che desiderabile per le masse esauste.

L’occupazione delle fabbriche favorisce l’ascesa del fascismo?

ALDO AGOSTI — Anche per l’effetto simbolico dell’evento, con gli operai armati che presidiano le officine, l’impressione nelle classi dirigenti è enorme. In realtà quei lavoratori svolgono anche un servizio d’ordine per evitare che gli impianti siano danneggiati. Ma certo la borghesia s’impaurisce e sceglie la linea che l’anarchico Luigi Fabbri chiamerà in un libro del 1922 La controrivoluzione pre

ventiva, appoggiando il fascismo. Mussolini approva l’intesa che chiude la vertenza, ma per ragioni tattiche, come mossa di avvicinamento a Giolitti. I conti tornano, perché poi i due leader presenteranno liste comuni. Di certo l’occupazione delle fabbriche radicalizza la situazione. Lo capisce bene Gramsci, quando scrive che l’Italia è a un bivio: o la presa del potere da parte del proletariato, o un’offensiva reazionaria di una durezza mai vista.

GIOVANNI SABBATUCCI — È vero che Mussolini mostra una vaga apertura verso gli operai che occupano le fabbriche, ma la sua posizione all’epoca non ha grande importanza. Era un personaggio minore, nessuno pensava che sarebbe presto diventato il protagonista della vita politica. Va aggiunto che Giolitti risolve la vertenza tra sindacati e imprenditori facendo grosse pressioni sugli industriali, che non le gradiscono affatto. In effetti l’accordo finale viene incontro agli operai, con aumenti salariali, sei giorni di ferie pagate (prima non c’erano), addirittura forme di cogestione sindacale nelle aziende. Ma l’intesa non trova uno sbocco politico riformista, come forse Giolitti sperava, perché l’esplosione della violenza squadrista in Emilia, a partire dal tardo autunno del 1920, cambia le carte in tavola, portando il fascismo sulla cresta dell’onda. La commissione mista tra sindacati e imprenditori, che doveva studiare il tema della cogestione, si riunisce qualche volta, ma non conclude nulla. Ormai il clima politico va in tutt’altra direzione.

LA LETTURA,  9 agosto 2020

 

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