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La ballerina che danzò la primavera, di Anna Gandolfi

Posted By cubeddu On 31 marzo 2020 @ 09:32 In Blog,Cultura e Scuola | Comments Disabled

Isadora Duncan (nella foto) è considerata la madre della danza moderna.

 

Isadora Duncan è considerata la madre della danza moderna

Sognava di animare il capolavoro di Botticelli, fece una rivoluzione. Una mostra al Mart, la prima sotto la guida di Sgarbi, racconta la vita meravigliosa e tragica (perse tre figli) di Isadora Duncan. Anche con un quadro della collezione di Berlusconi

Isadora Duncan è davanti alla Primavera di Sandro Botticelli. Persa nei colori, incurante del via vai nelle sale degli Uffizi. Un rapimento lunghissimo, come lei stessa ha annotato ricordando i soggiorni fiorentini: «Stavo lì seduta giornate intere. Restavo fino a quando mi pareva di assistere realmente allo sbocciare di quei fiori, al muoversi a danza di quei piedi, al palpitare di quei corpi; fino a che un angelo della gioia veniva a visitarmi».

Sono i primi del Novecento e lei, la ballerina giunta dall’America, ha un obiettivo: «Trasmetterò agli altri questo messaggio d’amore, di vita. E sarà la danza a dare loro questa estasi». Ci riuscirà, più e più volte. Sul palco si presenta scalza e avvolta da un velo, come Flora, come le ninfe, come Venere. Nata a San Francisco nel 1877, morta tragicamente a Nizza nel 1927, Isadora Duncan è considerata la madre della danza moderna. Per lei il corpo è strumento che comunica emozioni, sentimenti, valori, arte e spirito. Fedele ai costumi degli antichi greci, ai loro rituali di natura e istinto, nemica delle convenzioni del suo tempo, del manierismo che imbriglia le ballerine in tutù e scarpette a punta. Isadora conosce le regole dell’accademia (ci è cresciuta) e le butta all’aria. Nei suoi movimenti cerca il Jean-Jacques Rousseau dell’Émile, Walt Whitman e Friedrich Nietzsche («I miei unici maestri di danza»): è un’innovatrice totale, dal ritmo dei gesti alla concezione del ruolo della donna.

A lei, che si ispirava con i capolavori e a propria volta ne ha ispirati, è dedicata la mostra Danzare la rivoluzione. Isadora Duncan e le arti figurative in Italia tra Ottocento e avanguardia: dopo una prima tappa a Villa Bardini (Firenze), fino al primo marzo è ospitata al Mart di Rovereto. Un approdo «fortemente voluto» dal nuovo presidente dell’istituzione, Vittorio Sgarbi, che inaugura di fatto la propria stagione e spiega: «Onoriamo, attraverso le arti figurative e la indispensabile fotografia, fra emozione e documento, la prima delle arti, la più immediata, la più diretta, espressa dal corpo, senza mediazioni: la danza. E le opere danzano intorno a una persona, “grande maestra di scultura”, attraverso le movenze del suo corpo». Isadora Duncan, a cui «direttamente si ispirano Libero Andreotti, Romano Romanelli, Plinio Nomellini».

Un’esposizione ampia, che comprende 170 opere firmate, tra gli altri, da Auguste Rodin, Umberto Boccioni, Fortunato Depero, Eugène Carrière, Gaetano Previati, Hendrik Christian Andersen, Thayaht. «Il percorso — aggiunge Sgarbi — evidenzia quanto la danza, la prima delle arti, si possa cristallizzare nelle arti stabili, pittura e scultura. Materia, che però resta aleatoria». È il racconto di un magnifico ossimoro e il racconto di una vita eccezionale. Perché la danzatrice americana «è mito, è leggenda. Isadora va oltre il confine del quotidiano, in lei nulla è ordinario: in lei ci sono l’ombra della tragedia e la luce abbagliante».

Una vita eccezionale, anche nel senso inteso da Gabriele d’Annunzio, che la ballerina ben conosceva e stimava. Isadora Duncan è agile, colta, sensuale, studiosa. Acclamata e contestata. Coraggiosa e sfortunata, vittima di un destino maledetto. Nata in California, nel 1895 si trasferisce a New York per entrare nella compagnia di Augustin Daly. Tre anni dopo la sua casa brucia, lei perde tutto: si mantiene ballando nei locali, cerca conforto nei libri, approfondisce l’eredità culturale e spirituale dell’antica Grecia. Sbarca in Europa, la sua fama cresce. A Parigi conosce Auguste Rodin (che la evoca con il marmo Ève au rocher, in prestito a Rovereto da Hong Kong), si esibisce su e giù per il continente. Il suo stile anticonvenzionale riempie i teatri e dà scandalo. «Una sera fa sono andato a vedere la Duncan — scrive nel novembre 1903 il critico d’arte tedesco Aby Warburg —. Sarebbe meglio che danzasse insieme ad altri: il suo agitarsi da sola davanti ai tendaggi è davvero troppo sciocco …».

La mostra sviscera anche il suo rapporto con il futurista Filippo Tommaso Marinetti: lui prima la celebra per il coraggio, poi (nel 1917) finisce col condannarla nel Manifesto della danza futurista accusandola di sentimentalismo passatista. Ma Isadora, come ricorda Sgarbi, «riesce a superare anche questo fuoco di sbarramento». La vita, però, affonda il colpo. Nel 1913 i suoi due bambini, Deirdre e Patrick (7 e 3 anni, figli rispettivamente del regista Gordon Craig e dell’industriale Paris Singer) annegano precipitando con l’auto nella Senna: lo chauffeur era sceso senza inserire il freno a mano.

Sarà la Divina, Eleonora Duse, a offrire ospitalità e affetto all’amica disperata: la invita a Fossa dell’Abate, vicino a Viareggio, e proprio il mare della Versilia è sfondo di Gioia tirrena (1913) di Plinio Nomellini, tela in cui la danzatrice è ritratta tra i flutti. Lo stesso autore, alcuni anni dopo, taglia a metà il quadro eliminando gran parte delle onde e dando rilievo alla figura tormentata (nonostante il titolo). Al Mart sono riunite le due porzioni, entrambe da collezioni private: quella con Isadora è di Silvio Berlusconi. Un altro artista, Romano Romanelli, è irretito dal carisma dell’americana: porta le sue movenze nel Risveglio di Brunilde. Lui e Isadora hanno un figlio, che però muore in fasce. È il 1914, lei è straziata, la sua esistenza sempre più sregolata. Nel 1922 si sposa con il poeta Sergej Esenin, più giovane di 18 anni: il legame finisce dopo 15 mesi, l’uomo poco dopo si suicida.

Isadora cerca di tornare a ballare, la critica la sbeffeggia per il corpo appesantito. Gli ultimi anni sono un esilio volontario fra Nizza e Parigi: è spesso ubriaca, piena di debiti. Il 14 settembre 1927, lungo la Promenade des Anglais, sale sulla Bugatti del pilota Benoît Falchetto. «Je vais à l’amour», vado a innamorarmi, dice agli amici. Poco dopo la partenza, il vento spinge la lunga sciarpa che porta al collo nei raggi di una ruota: la stretta è fatale, la diva muore sul colpo. Al mondo non resta che piangere una musa. Il drappo assassino era rosso, ed era quello che Isadora più amava: le ricordava i palchi dove ondeggiava fra veli scarlatti, le scene, la vita. La sua rivoluzione.

La lettura, 27 ottobre 2019

 

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