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E Del Noce riscrisse il fascismo, di Alessandra Tarquini

Posted By cubeddu On 20 marzo 2020 @ 07:10 In Blog,Filosofia,Religioni,Teologia | Comments Disabled

Trent’anni fa moriva il pensatore cattolico che comprese la modernità del regime totalitario.

 

Trent’anni fa moriva il pensatore cattolico che comprese la modernità del regime totalitario. In contrasto con Norberto Bobbio ed Eugenio Garin, non considerò il movimento di Mussolini un fenomeno estraneo alla cultura, ma il frutto di un’elaborazione intellettuale che aveva il suo faro nell’idealismo di Giovanni Gentile. Conservatore e vicino a Cl, sostenne che la protesta del Sessantotto avrebbe favorito l’affermazione dell’individualismo borghese.

Trent’anni fa a Roma, il 30 dicembre 1989, moriva Augusto Del Noce: uno dei più interessanti intellettuali cattolici della seconda metà del Novecento, un filosofo in grado di capire il carattere rivoluzionario del fascismo e di descrivere le contraddizioni della cultura moderna.

Nato a Pistoia nel 1910, si laureò in Filosofia a Torino nel 1932, entrò in contatto con il mondo laico e antifascista piemontese, e da allora diede vita a una riflessione che non avrebbe abbandonato nel corso della sua biografia di studioso. Del Noce pensava che la natura profonda del pensiero moderno risiedesse nella volontà della ragione di negare l’esistenza di Dio. E per questo considerava il razionalismo di Cartesio il momento originario di un filone che, attraverso Marx e Nietzsche, trovava il suo esito necessario nell’ateismo e nel nichilismo. Come scrisse nella sua opera più celebre, Il problema dell’ateismo del 1964, il marxismo, promettendo di realizzare la felicità, e quindi sostituendosi alla religione, costituiva il più importante orizzonte di pensiero della politica novecentesca, una filosofia che volle concretizzare sé stessa immaginando di dare senso all’esistenza umana attraverso la rivoluzione. In questo quadro, già all’indomani della Seconda guerra mondiale, egli seppe analizzare il ventennio fascista come nessuno faceva a quel tempo.

A differenza di quanto sostenevano autorevoli intellettuali suoi coetanei, da Norberto Bobbio a Eugenio Garin, e dei principali sostenitori delle interpretazioni di matrice antifascista, Del Noce credeva che il fascismo non fosse un fenomeno anticulturale, barbaro e rozzo. Si trattò di una vera eccezione all’interno di un panorama storiografico decisamente uniforme.

Negli anni successivi approfondì questa sua riflessione sostenendo che la cultura fascista trovava la sua matrice principale nella filosofia di Giovanni Gentile e che i fascisti avevano espresso una nuova concezione della politica, intesa non tanto come strumento per trasformare la realtà, ma come fede religiosa e quindi come esperienza da vivere in modo integrale e assoluto. Era convinto che Gentile rappresentasse il principale filosofo del regime, l’autore di una filosofia che aspirava a essere una religione, «il notaio del nichilismo», lo definì ne Il suicidio della rivoluzione del 1978. In effetti, egli riteneva che il rapporto fra Gentile e Mussolini non fosse né occasionale né strumentale e che la storia della filosofia e quella della politica, nel loro tentativo di dare corpo a progetti rivoluzionari, avessero percorso un cammino comune verso l’immanentismo assoluto. In questo orizzonte di pensiero, Del Noce individuò una continuità profonda tra la cultura fascista e quella antifascista che, a suo avviso, esprimevano aspetti diversi di un unico processo di crisi: fascismo, comunismo e nazionalsocialismo erano, cioè, le manifestazioni più importanti dell’epoca della secolarizzazione.

Questo riconoscimento del carattere rivoluzionario del fascismo fu una delle intuizioni più importanti di Del Noce che negli anni Sessanta incontrò la ricerca storiografica di Renzo De Felice e con lui instaurò un dialogo proficuo e importante per entrambi. Del resto, l’idea di una politica che si sostituisce alla religione è un’acquisizione fondamentale per chi studia i regimi totalitari, confermata da autorevoli storici, come George L. Mosse ed Emilio Gentile, che, da prospettive diverse, sono giunti a conclusioni analoghe sul problema della sacralizzazione della politica nell’età contemporanea. In questo senso Del Noce ha individuato un aspetto centrale della storia del Novecento.

Se la pars destruens della sua riflessione ha la forza dell’ intelligenza e della provocazione, quella construens appare decisamente più problematica. Ad esempio, nel descrivere il passato come un’idea che si realizza, e non come una realtà da ricostruire e raccontare, Del Noce leggeva la storia attraverso la filosofia; diventava idealista senza volerlo essere; considerava la modernità come un processo unitario; e analizzava un fenomeno politico, come il ventennio mussoliniano, riducendolo al pensiero di un filosofo. Nel suo libro Giovanni Gentile. Per una interpretazione della storia contemporanea, uscito postumo nel 1990, non compaiono mai i fascisti in carne e ossa, né il confronto fra le diverse posizioni che animarono la discussione sull’identità politica e culturale del regime, come se non fossero esistiti autorevoli critici del filosofo e ugualmente fascisti. In questa visione della modernità, come espressione della volontà dell’uomo di abolire il trascendente, ciò che unisce il fascismo e l’antifascismo, Gentile e Gramsci, Marx e Nietzsche, appare più importante di ciò che li divide.

Coerentemente con questa prospettiva, alla fine degli anni Sessanta egli pensò che la contestazione studentesca fosse l’espressione del disagio provocato dalla società del benessere, una protesta condizionata dalla negazione della tradizione, che avrebbe contribuito al consolidamento di una nuova borghesia. Di fatto egli non apprezzava né la Dc di quel periodo, né quella dei decenni successivi, troppo vicina ai socialisti e in costante dialogo con il Pci. E per queste ragioni fu un critico attento di autori come Franco Rodano, con cui ebbe un confronto costante, che immaginavano di conciliare il cristianesimo con il marxismo. In effetti, il filosofo della politica Del Noce si rivolgeva ai cattolici invitandoli a non confondersi con i comunisti e a recuperare un nuovo pensiero teologico, non corrotto dall’immanentismo moderno. Così, dopo essere stato fra i promotori del referendum contro il divorzio nel 1974, collaborò con diversi periodici e si fece animatore di iniziative editoriali alternative alla cultura progressista e marxista, facendo pubblicare le opere di Simone Weil e di Eric Voegelin. In questo impegno mantenne vivo il dialogo con intellettuali laici e marxisti, come Ugo Spirito e Franco Fortini e nel 1978 iniziò a collaborare con «Il Sabato», il settimanale fondato da Comunione e liberazione, in cui riconobbe un segno di vitalità del cattolicesimo. Nel 1984 fu eletto al Senato nelle liste della Democrazia cristiana.

Del Noce morì un mese dopo la caduta del Muro di Berlino. Fece in tempo a vedere l’inizio della dissoluzione del mondo comunista che aveva auspicato sin dagli anni Sessanta. A trent’anni dalla sua morte dovremmo pensare che la storia gli diede ragione? In realtà, per i tanti che non credono nel dogma del peccato originale, per i molti che non si identificano nel messaggio cattolico, per quanti non considerano il recupero della trascendenza come una possibilità di salvezza, la riflessione di Del Noce non può costituire una risposta alle contraddizioni della modernità, che pure egli ha così lucidamente individuato. La Lettura, 15 dicembre 2020

 

 

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