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“Fratelli (coltelli) musulmani” l’analisi di Lorenzo Cremonesi

Posted By cubeddu On 14 febbraio 2020 @ 07:52 In Blog,Politica internazionale | Comments Disabled

La Libia è oggi il campo di battaglia preferito tra i «fratelli coltelli» del Medio Oriente. Una storia antica che si rinnova continuamente. Cerchi islam e trovi subito divisioni, scissioni, lotte interne, guerre fratricide. Se è ormai una verità platealmente riconosciuta quella per cui ci sono più musulmani uccisi da confratelli di fede che non da qualsiasi altro gruppo, religioso o meno, la riesplosione del conflitto alle porte di Tripoli pone l’accento su una dimensione più acuta — sebbene meno nota — del fenomeno: il braccio di ferro all’interno del mondo sunnita. Non solo senti contro sunniti dunque, bensì sunniti contro sunniti; militanti che pregano alla stessa maniera, hanno le stesse convinzioni coraniche, rispettano in modo identico il Ramadan, uguali nei riti, ma pronti a spararsi addosso a vicenda. Lo si ritrova tra le macerie di Bengasi, di Sirte, alle periferie di Tripoli già sotto assedio; negli orrori della Siria e dello Yemen; negli attacchi contro le comunità sette in Afghanistan e Pakistan; nei timori algerini di questa incerta transizione dopo il ventennale regime di Bouteflika, con la paura di ricadere nei massacri di due decenni fa; nei racconti dei prigionieri scampati alle carceri egiziani; tra le strade di Mosul, Raqqa, Baghouz; nei tentativi di ricostruire la nuova Bagdad. Una sorta di anarchico e violento «tutti contro tutti», che contribuisce a smontare le teorie dello «scontro di civiltà» e certamente indebolisce una delle percezioni tanto diffuse in Occidente dall’undici settembre 2001, per cui sarebbe in atto una coerente e compatta guerra d’aggressione da parte del mondo musulmano nel suo complesso contro i figli della Rivoluzione francese e della tradizione giudaicocristiana.
Petrolio e religione
Racconta a «la Lettura» Eugene Rogan, docente di Storia moderna del Medio Oriente a Oxford: «La percezione occidentale di essere vittime dell’aggressione dell’estremismo islamico deve essere ampiamente rivista se si esamina la gravità delle tensioni all’interno del mondo islamico. Soprattutto l’attacco delle truppe di Khalifa Haftar contro le milizie legate al governo di Payez al-Sarraj a Tripoli contribuisce a mettere in luce le contraddizioni interne all’islam sia politico che religioso. Le frizioni più profonde sono quelle non soltanto tra l’Iran sciita e l’Arabia Saudita autoproclamatasi guardiana della tradizione sunnita, bensì tra quest’ultima e il Qatar e la Turchia, che non hanno nulla di sciita. Così, un Paese potenzialmente molto ricco, tra i più grandi esportatori di petrolio e gas al mondo, diventa vittima delle tensioni regionali a causa della debolezza endemica del suo Stato centrale dopo la defenestrazione del regime di Gheddafi nel 2011». Dalla vecchia realtà bipolare della guerra fredda, quando ben poco accadeva senza passare da Washington e Mosca, al monopolio americano ormai in netta decadenza dopo i fallimenti delle invasioni di Afghanistan e Iraq agli inizi del secondo millennio, al multipolarismo anarchico della scena internazionale degli ultimi anni, che in Medio Oriente si è declinato nella crescita delle tensioni tra medie potenze regionali in cerca di un rinnovato ruolo egemonico sin dal periodo dello scoppio delle «primavere arabe» nel 2011: così si condensa la genesi del problema. Un conflitto che vede lo scontro molto spregiudicato e pragmatico tra opposte volontà di potenza, miste ad appetiti economici, ma non privo di aspetti religiosi e ideologici. Va subito ricordato che le riserve energetiche libiche fanno gola a tutti. Nel 2013 si calcolava che i giacimenti ammontassero a oltre 48 miliardi di barili di greggio, oltre a immense quantità di gas ancora da esplorare. Si pensi che persino in questo difficile periodo di guerra la sola Eni produce tra 270 mila e 280 mila barili di petrolio al giorno concentrati nel terminale di Mellitah, meno dei 348 mila raggiunti nel 2017, che comunque, associati al gas raccolto dai campi di Bahr Essalam e Wafa convogliati nel gasdotto Greenstream per la Sicilia, in partnership con la società nazionale libica Noc, rappresentano oltre il 70 per cento della produzione nazionale, superando di gran lunga le attività della francese Total. Non stupisce che Abdel Fattah al-Sisi, in particolare, veda la Cirenaica come una regione alle porte di casa potenzialmente sfruttabile. Ma, soprattutto, agli occhi del presidente egiziano la Libia non può diventare luogo di rifugio degli estremisti islamici e dei Fratelli musulmani, i quali stanno invece con le milizie nel campo di Sarraj. Da qui il pieno sostegno economico e bellico ad Haftar. Così, come lo stato maggiore dell’esercito al Cairo fa la guerra contro Hamas a Gaza e i jihadisti nel Sinai (tanto da non disdegnare la cooperazione dietro le quinte con Israele), allo stesso tempo non ha alcuna remora ad aiutare un alleato che pare voglia costruire a Tripoli un regime laico centralizzato molto simile a quello di al-Sisi e per giunta fieramente deciso a eliminare i Fratelli musulmani in tutte le loro articolazioni sia moderate che più militanti, definendoli senza eccezioni «pericolosi terroristi pro Isis e Al Qaeda».
Fratelli musulmani contro salafiti
«All’origine dell’attuale scontro ideologico-teologico tra sunniti — Qatar e Turchia da una parte; Arabia Saudita, Egitto ed Emirati dall’altra — sta la diaspora del movimento dei Fratelli musulmani egiziani fuggiti in Arabia Saudita al tempo delle persecuzioni nasseriane negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento — spiega a “la Lettura” lo studioso francese dell’islam radicale *** Gilles Kepel, che sul tema ha appena scritto il libro Uscire dal caos (pubblicato in Italia a settembre da Raffaello Cortina) e tiene quest’anno un corso specifico all’università di Lugano —. Allora la casa regnante degli al-Saud era dominata dalla concezione salafitawahabita cresciuta nella penisola arabica alla fine del Settecento. Era un ideale di perfezione e purezza utopico che resta tuttora dominante. Proprio mentre in Europa s’imponevano gli slanci della Rivoluzione francese e le politiche dell’Illuminismo; mentre Voltaire, Diderot, Montesquieu e il pensiero laico aprivano all’idea di progresso e speranza nell’avvenire per un società incentrata sui diritti dell’individuo e la democrazia dei tanti, nel mondo musulmano si assisteva a una ricerca spasmodica degli antichi modelli sociali ripresi dal Como, dalla vita di Maometto e dei primi califfati». Le litigiose e frammentate realtà localistiche e tribali, dove le dispute erano continuamente risolte con piccole guerre e razzie — aggiunge Kepel — venivano così superate, assimilate e unificate nel progetto di ritorno ai rituali e codici religiosi del VII secolo dopo Cristo, o comunque ispirato all’età d’oro del Profeta. Da una parte la speranza nel futuro migliorabile e progressivo, dall’altra il passato come idealtipo perfetto da imitare».
I leninisti islamici in Egitto
Tuttavia i «Fratelli» egiziani, che pure idealmente sposano i principi salafiti, iniziano ben presto a criticare la corruzione della casa regnante saudita, a loro dire più innamorata dei petrodollari che ansiosa di ritornare al vero islam. Continua Kepel: «Per i Saud è ovvio che il salafismo serve per legittimarli a dinastia reale con il privilegio di custodire La Mecca e Medina, quindi depositari del vero islam nella regione. Per loro i militanti egiziani diventano come leninisti musulmani, irrispettosi della casa regnante e unicamente interessati a costruire la società islamica perfetta». Il diverbio diventa insanabile. Il piccolo Qatar, in lotta con i sauditi per l’egemonia regionale grazie alla crescita della rendita petrolifera, accetta «Fratelli» in fuga da Riad e ne diviene il protettore, li finanzia, fornisce asilo e forza politica. La sua rete televisiva, Al Jazeera, nel 2011 diventa centro culturale dei movimenti islamici legati ai «Fratelli» in tutta la regione, cresciuti dopo lo scoppio delle primavere arabe. Non a caso, dopo il golpe militare nel luglio 2013 guidato da Al-Sisi contro il governo del presidente Mohamed Morsi, che l’anno prima aveva vinto le elezioni per il Partito libertà e giustizia legato ai «Fratelli», è ancora il Qatar ad accogliere i perseguitati politici che riescono ad espatriare.
Yemen, la guerra infinita tra vicini
A Tripoli sono in tanti oggi a guardare con preoccupazione al conflitto yemenita come esempio deleterio di quanto possa diventare tragica la situazione. Qui infatti un amalgama esplosivo di aspirazioni egemoniche regionali e lotte teologico-religiose ha come risultato la distruzione metodica del Paese a causa dell’intervento diretto di Iran e Arabia Saudita. Anche in Libia i rinforzi che arrivano sui due fronti contrapposti possono protrarre la guerra all’infinito, come avviene nello Yemen con le tribù Houthi sciite filo-Teheran e le forze sunnite governative aiutate dai sauditi, sostengono gli osservatori più attenti. In realtà, il contenzioso teologico tra sciiti e sunniti risale alle fazioni in lotta per definire criteri d’elezione del successore di Maometto quattordici secoli fa. Alla visione sunnita del Califfo primus inter pares scelto da un’assemblea di notabili tra i suoi discepoli migliori si contrappose quella sciita del discendente per legami di sangue con il Profeta. Ma, anche in questo caso, è la politica a funzionare da detonatore. E stato dopo la rivoluzione khomeinista del 1979 che le antiche tensioni con i Saud per il controllo del passaggio nelle acque del Golfo Persico si sono fatte più acute. L’invasione americana dell’Iraq nel 2003 ha quindi rilanciato il braccio di ferro tra Teheran e Riad. E oggi le pressioni volute da Donald Trump contro l’Iran hanno come effetto collaterale di aizzare l’intervento saudita nello Yemen e aggravare la situazione. Le Nazioni Unite denunciano decine di migliaia di morti per fame e stenti in questo Paese, dove il governo centrale non funziona più dal 2015, le epidemie non vengono curate e manca qualsiasi servizio essenziale.
Bashar Assad vince, ma non del tutto
Sembra invece volgere al suo epilogo il conflitto in Siria. Anche questo è stato per molti aspetti una proxy war, una guerra di prossimità. Proprio a causa di interventi diretti e indiretti è durata otto anni con effetti deleteri. Si calcola quasi mezzo milione di morti, almeno il triplo di feriti. Secondo l’Alto Commissariato Onu per i rifugiati tra la primavera del 2011 e il marzo scorso i profughi fuggiti all’estero sono stati 5,7 milioni e 6,1 milioni gli sfollati interni. Il che significa che oltre un terzo degli abitanti non sta più a casa propria. L’economia è ín ginocchio. Città come Aleppo, Hama, Homs, Raqqa e migliaia di villaggi e centri minori sono largamente ridotti in macerie, molte strade interrotte. In diverse regioni mancano ancora gli allacciamenti con luce e acqua. Il regime di Bashar Assad sta adesso attaccando le ultime milizie di oppositori nella regione di Idlib, causando altre vittime. È ovvio che senza l’aiuto militare fondamentale di Russia e Iran, assieme alla milizia sciita dell’Hezbollah libanese, non sarebbe sopravvissuto. E ancora oggi resta estremamente debole. Intanto però le forze curde sostenute dagli americani hanno creato una regione autonoma nel Nord Est, legittimata dal loro ruolo centrale nella lotta contro l’Isis. Adesso sperano di trovare un’intesa politica con Damasco. «I sauditi hanno scelto di non aiutare più le milizie ribelli sunnite in Siria e in cambio si sono accordati con i russi, che sono una potenza militare sempre più importante nella regione», spiega Kepel.

Algeria e Tunisia
Proprio di fronte a questi disastri e al rischio di esserne a loro volta vittime, gran parte dei dirigenti sia tunisini che algerini paiono muoversi con grande circospezione (lo stesso spiega le realtà di Giordania e Marocco). La Tunisia è aiutata da una società civile tutto sommato articolata, che anche prima della «primavera araba» si esprimeva con sindacati, artisti, intellettuali, partiti e mass media relativamente liberi. Ciò ha permesso ai governi seguiti alla defenestrazione di Zine ElAbidine Ben Ali già il i4 gennaio 2011 (fu la rivoluzione più rapida e relativamente meno violenta di tutte) di trovare formule di coabitazione e compromesso tra le forze laiche e i Fratelli Musulmani moderati del partito Nahda. Molte più incognite si aprono invece di fronte all’Algeria, dove le massicce proteste di piazza negli ultimi due mesi hanno costretto la nomenklatura a dimettere dopo vent’anni il presidente Abdelaziz Bouteflika. Anziano, malatissimo, Bouteflika dopo l’infarto sofferto nel 2013 fungeva sostanzialmente da copertura al governo-ombra composto da militari e suoi fedelissimi. Sinora il patto sociale non scritto era che il rischio della ripresa della guerra civile tra Fronte islamico e militari negli anni Novanta, costata oltre 10 mila morti, servisse da collante contro ogni cambiamento. Ma oggi quel patto non funziona più. E le folle hanno chiedono nuove elezioni al più presto.

La lettura, 19 maggio 2019

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