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Per una concezione dinamica dell’identità, di Luciano Carta

Posted By cubeddu On 26 dicembre 2019 @ 09:00 In Blog,Cultura e Scuola,Identità,Questione sarda,Storia della Sardegna | Comments Disabled

1. E’ sicuramente utile, soprattutto per quanti studiano le tematiche relative ai nessi e alle interrelazioni tra cultura locale e cultura globale, affrontare il problema dell’identità culturale dei Sardi e della Sardegna sotto il profilo storico. Un breve contributo sul problema dell’identità visto sotto un’angolatura storica è ciò che qui si intende proporre.

Il problema dell’identità costringe chiunque se lo proponga anzitutto ad una riflessione di carattere personale sul carattere complessivo della propria esperienza culturale, politica e sociale; in secondo luogo, poiché ogni persona innesta la propria esperienza di vita sul terreno della specificità culturale, di costume, di forme di vita associata, in sintesi sul terreno della “memoria storica” dell’ambiente nel quale opera, il problema dell’identità impone una riflessione sulle peculiarità che storicamente ha assunto quell’idea. Il presente e il vissuto sono infatti sempre, in primo luogo, il risultato, come direbbe Hegel, della “tesaurizzazione” dei valori storici e sociali della società in cui l’individuo vive ed opera. Come diceva il filosofo medioevale Bernardo Silvestre, con una felice metafora poi utilizzata anche da Francesco Bacone, l’uomo contemporaneo è simile ad un nano che poggia i piedi sulle spalle di un gigante: egli, pur nano, vede più in profondità del gigante proprio in virtù del fatto che poggia sul gigante della tradizione e della tesaurizzazione storica delle conoscenze e dei valori degli uomini del passato. Valori e conoscenze che costituiscono il patrimonio riconosciuto e condiviso dell’identità di un popolo o di un gruppo sociale.

Se questo è vero, vale la pena sforzarsi di individuare questi valori storici che concorrono a definire l’identità culturale di noi Sardi. con l’avvertenza che essendo questa ricerca frutto della riflessione di questo particolare soggetto che scrive, tali valori, per quanto riconosciuti come costitutivi della identità dei Sardi, non potranno avere carattere assoluto in quanto non potranno spogliarsi della componente soggettiva propria delle esigenze del ricercatore, del suo sforzo di comprensione (nel senso weberiano della “comprensione interpretativa”) della realtà. Il ricercatore, comunque operi o da qualunque punto di vista egli voglia studiare la realtà, lo fa partendo sempre da un suo concetto di identità: nessuna azione o ricerca sono possibili dove manchi alla persona che agisce o allo studioso che ricerca una teoria, più o meno elaborata, della propria identità.

Il proposito è pertanto quello di individuare alcuni momenti significativi della storia dei Sardi e della Sardegna, in particolare di quelli di cui si è occupato chi scrive nelle sue ricerche, per individuare le caratteristiche che ha via via assunto il concetto di identità, al fine di comprendere meglio gli elementi e le valenze da cui risulta costituito per noi contemporanei il concetto di identità. Ci si sforzerà cioè di ripercorrere, se è consentito un riferimento filosofico, una sorta di fenomenologia dell’identità, nei termini in cui Hegel intende il succedersi delle categorie storiche – categorie che altro non sono che i valori, le coordinate intellettuali che vengono a costituire l’universo mentale, o se si preferite la “visione del mondo” degli uomini di un particolare contesto in un determinato momento storico. Come operatore della Scuola, chi scrive si riserva inoltre, al termine del percorso storico, di sottoporre all’attenzione degli operatori scolastici alcune riflessioni sul modo in cui si ritiene possa essere recepito il discorso dell’identità culturale nella scuola rinnovata dell’autonomia e dei cicli, nonché, ma ciò è passaggio obbligato, in che modo chi scrive sente e vive soggettivamente il senso delle radici e della appartenenza alla propria cultura.

 

2. Nel volume della casa editrice Einaudi, apparso alla fine del 1998, che possiamo definire la più importante e più recente summa sul problema dell’identità nella Sardegna contemporanea (si tratta del ponderoso volume Le Regioni dall’Unità a oggi. La Sardegna, uscito nella collana dedicata alle culture regionali nell’ambito della classica Storia d’Italia Einaudi) i curatori Luigi Berlinguer e Antonello Mattone hanno scritto: “L’identità della Sardegna contemporanea è costituita da una pluralità di fattori che, come i cristalli di un caleidoscopio, si sono scomposti e ricomposti, offrendoci nel corso del tempo immagini di volta in volta diverse e talvolta contraddittorie”[1] (1); in questo senso essi asseriscono che “l’identità sarda è … costituita da eredità diverse”[2]. Non è possibile, dunque, secondo i due curatori dell’opera, definire una volta per tutte l’idea di identità, da qualunque punto di vista lo si voglia affrontare: storico, antropologico, linguistico, politico ecc. Il libro mantiene fede a questo assunto delineando una visione dell’identità culturale della Sardegna ricca di sfumature e di letture diversificate attraverso saggi di storici, antropologi, linguisti, scrittori di diversi orientamenti storiografici e di differenti impostazioni metodologiche. Tali sono i saggi di A. Mattone, Le origini della questione sarda; I. Birocchi, La questione autonomistica dalla “fusione perfetta” al primo dopoguerra; G. G. Ortu, La Sardegna post-unitaria (Tra Piemonte e Italia); M. L. De Felice, Storia economica dalla “fusione perfetta” alla legislazione speciale (1847-1905); M. Da Passano, Criminalità e banditismo; M. Brigaglia, La Sardegna dall’età giolittiana al fascismo; L. Marrocu, Il Ventennio fascista (1923-1943); M. R. Cardia, La conquista dell’autonomia (1943-1949); S. Ruju,  Società economia politica dal secondo dopoguerra a oggi; A. M. Gatti e G. Puggioni, Storia della popolazione dal 1847 a oggi; G. Pirodda, L’attività letteraria tra Otto e Novecento; G. Angioni, Sardegna 1900: lo sguardo antropologico; A. Dettori, Italiano e sardo dal Settecento al Novecento; G. Paulis, La lingua sarda e l’identità ritrovata; infine la forte e icastica riflessione finale di S. Mannuzzu dal titolo Finis Sardiniae (o la patria possibile).

A voler prendere spunto proprio dal titolo di questo graffiante e disincantato saggio di S. Mannuzzu, sembrerebbe a tutta prima che il libro intenda demolire la nozione di identità della Sardegna; ma non è assolutamente questo del resto il messaggio che al termine della lettura recepisce il lettore. Il libro è soprattutto un invito a superare le visioni mitizzate dell’identità, le oleografie melense di certa nostra tradizione, le ipostatizzazioni e le visioni dogmatiche dell’identità. Senza negare la specificità culturale dei sardi e della Sardegna, gli autori suggeriscono un approccio critico, diversificato, dialogato del problema, ricordando in particolare che l’identità non ha senso se non in rapporto alla diversità, al confronto, alla permeabilità tra le culture; che è necessario ricordare sempre che l’identità è una nozione e un modo di essere sempre in fieri, che si costruisce nel tempo e nel tempo si irrobustisce; che nel fluire del tempo storico i sardi hanno elaborato una nozione di identità con riferimento ai problemi del momento, alle emergenze politiche, sociali, economiche, culturali di ogni momento storico. L’identità sarda è stata individuata ora come lotta al centralismo statale e al colonialismo piemontese (vedi i periodi di fine Settecento e post-unitario), ora come rivendicazione di una originaria cultura autoctona di dignità pari o addirittura superiore alla nascita della civiltà italiana (si pensi alla cosiddetta “Rinascenza letteraria sarda” dell’età della Restaurazione e all’emblematico episodio delle false Carte d’Arborea), ora come esaltazione della lingua considerata per la sua “conservatività” come la più vicina alla lingua latina, ora come rivendicazione di una civiltà tutta particolare, propria di un luogo incontaminato in cui persisterebbero le caratteristiche di una società arcaica, una sorta di “museo etnografico vivente, un pezzo di preistoria sopravvissuto nella storia”[3], e via discorrendo.

Non può essere questo il contesto nel quale ripercorrere analiticamente e contestualizzare storicamente tutte le concezioni di identità sarda elaborate nel vissuto storico del popolo sardo durante le varie epoche del suo cammino. Cercheremo però di delineare rapidamente le tappe più significative del divenire storico della Sardegna, soffermandoci su quei momenti o figure su cui chi scrive può parlare con una certa competenza, per individuare le caratteristiche più forti dell’identità sarda, con lo scopo di rispondere al quesito su che cosa può significare per l’uomo d’oggi, per noi sardi contemporanei, vivere coscientemente e criticamente l’identità.

 

3. Secondo la storiografia più accreditata, il periodo storico dal quale occorre prendere le mosse per trovare l’antecedente più prossimo delle teorie dell’identità sarda è il Settecento sabaudo. Da qualunque punto di vista noi guardiamo al bagaglio culturale dell’uomo d’oggi – parliamo in generale dell’uomo occidentale, non dell’uomo sardo – il Settecento costituisce, senza indulgere alla retorica, “l’alba della Sardegna contemporanea”[4]. Sarebbe davvero difficile comprendere la “mentalità” dell’uomo contemporaneo, il suo universo di valori, la sua “visione del mondo”, se si dovesse prescindere dai “grandi veri” dell’Ottantanove, dagli immortali principi della Rivoluzione francese (libertà, eguaglianza, fraternità), dalla lotta contro il colonialismo inglese che ha dato vita agli Stati Uniti d’America, dal concetto di “tolleranza” elaborato da Locke e da Voltaire, dalla condivisione del “metodo sperimentale” nella ricerca scientifica, inteso come esclusione di ogni intrusione metafisica nell’ambito della scienza, dalla nozione di “pubblica felicità” come finalità precipua della società civile, dalla ricerca e conservazione dei “monumenti patrii”, secondo la definizione del grande Ludovico Antonio Muratori, su cui si innesta una nuova concezione della “patria” fondata sul recupero della “memoria storica” dei popoli, sulla mentalità riformistica, che permeò nel corso di quel secolo anche la politica di numerosi sovrani assoluti (si pensi solo a Giuseppe II e a Caterina II di Russia), e via discorrendo[5].

Orbene, nello scenario dell’Europa dei lumi, anche la Sardegna, attraverso i suoi intellettuali, elabora una idea di sua identità culturale che trae linfa e fondamento dalla cultura europea in senso lato, della quale la società sarda è a suo modo partecipe. Questa concetto di identità culturale parla il linguaggio del riformismo illuminato proprio dei sovrani assoluti di quel secolo; della necessità di una profonda trasformazione dell’economia agro-pastorale che postulava l’indilazionabile superamento del sistema feudale; dello affermarsi di nuovi ceti sociali, che con una certa prudenza possiamo definire “borghesia”, costituita, oltre che dai ceti professionali delle città, anche dalla piccola nobiltà rurale,  i cui interessi erano contrapposti a quelli della grande feudalità; della rivendicazione dell’autonomia politica del Regnum Sardiniae contro il centralismo e l’assolutismo del governo sabaudo; della riscoperta della “lingua sarda” come strumento legittimo di comunicazione e di creazione letteraria al pari della persistente lingua spagnola e della lingua italiana introdotta nella scuola e nella pubblica amministrazione dal governo piemontese nella seconda metà del secolo.

A guardare con attenzione il contesto politico, sociale e culturale della Sardegna del Settecento non è difficile individuare temi, problemi, aspirazioni che sono propri del secolo dei lumi a livello europeo, problemi e aspirazioni ovviamente “filtrati” dallo specifico contesto isolano.

Nessuno può negare che sotto il profilo del riformismo politico, la Sardegna della seconda metà del Settecento viva in modo intenso, soprattutto durante il quindicennio in cui ne fu affidata la responsabilità di governo al ministro Bogino (1759.1773), una intensa stagione di “riformismo illuminato”. Sono riforme importanti e decisive la riorganizzazione (allora si diceva “ristorazione”) delle Università di Cagliari e di Sassari nel 1764-65, la riforma dei Consigli comunali nelle città regie e soprattutto la creazione dei Consigli comunitativi nelle “ville”, cioè nei paesi di tutta l’isola nel 1771; la creazione di istituti di credito agrario attraverso l’istituzione dei Monti frumentari e nummari; l’introduzione di nuove colture e di più moderne tecniche agricole, ecc.[6].

La ricerca storica di questi ultimi anni ha posto l’accento sull’importanza decisiva, per il superamento dell’isolamento e della arcaicità della cultura sarda nel Settecento, della riforma scolastica e soprattutto della riforma delle Università sarde. Ricordo in modo particolare gli studi di I. Birocchi, La carta autonomistica della Sardegna tra antico e moderno. Le “leggi fondamentali nel triennio rivoluzionario (1793-96)[7], A. Mattone e P. Sanna, soprattutto La “rivoluzione delle idee”: la riforma delle due Università sarde e la circolazione della cultura europea (1764-1790)[8], ed E. Verzella[9], che hanno ripreso le importanti intuizioni del grande storico Franco Venturi presenti in due saggi scritti a cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta e nei volumi da lui curati insieme a Giarrizzo e Torcellan sugli Illuministi italiani[10]. La riforma delle due Università infuse linfa nuova nell’asfittica cultura sarda; nel clima del rinnovato insegnamento universitario, affidato a docenti di valore, quali G. B. Vasco, Francesco Cetti, Francesco Gemelli, si formerà una fola schiera di giovani che saranno celebrati uomini di cultura, brillanti professionisti nonché i promotori e gli artefici del “triennio rivoluzionario sardo”: tra essi D. A. Azuni. F. Carboni, G. M. Angioy, Domenico, Matteo e Gianfrancesco Simon, G. Pitzolo, F. I. Mannu, Matteo Madau, Giuseppe Cossu, Andrea Manca Dell’Arca, Antonio Porqueddu. Relativamente ai tre docenti che ho citato – cito solo questi per brevità e perché sono sicuramente i più significativi – basterà dire che Gian Battista Vasco, docente di Teologia dogmatica a Cagliari nel 1764-67, uno dei più rappresentativi tra gli illuministi italiani, utilizzava nell’insegnamento le “voci” della celebre Encyclopédie di Diderot e D’Alembert, come ha documentato da diversi decenni Franco Venturi. G. B. Vasco proponeva dunque ai giovani universitari del periodo un insegnamento permeato dalle idee del secolo e improntato al principio che la “cultura”, la conoscenza e la scienza devono avere fondamentalmente una funzione “civile”, devono cioè contribuire al benessere della società, alla “pubblica felicità” come si diceva allora. Il frutto più maturo di questa concezione della “cultura” G. B. Vasco la affiderà pochi anni dopo ad una delle più importanti e significative opere dell’illuminismo italiano, La felicità pubblica considerata nei coltivatori di terre proprie, pubblicata nel 1769 e ispirata alle teorie fisiocratiche del Quesnay. Allo stesso filone della scuola fisiocratica – che fanno perno sulla costituzione della proprietà perfetta della terra e sul libero commercio del grano in contrapposizione all’economia feudale e all’uso collettivo della terra – appartiene l’opera di Francesco Gemelli, professore di Eloquenza all’Università di Sassari, che nel 1776 pubblicava l’opera Rifiorimento della Sardegna proposto nel miglioramento di sua agricoltura: un’opera che attraverso l’analisi degli arcaici metodi di conduzione agricola propri dell’organizzazione feudale della società e dell’economia propria della Sardegna del periodo, si proponeva di incoraggiare l’intraprendenza della nascente piccola borghesia agraria sarda cui veniva indicato quale mezzo adatto per ottenere il “rifiorimento” economico della Sardegna (oggi diremmo “rinascita” della Sardegna) la privatizzazione della terra. E tale riforma agraria traeva ispirazione, come esplicitamente riconosceva l’autore, da quanto era avvenuto in Inghilterra nei due secoli precedenti, attraverso il passaggio il superamento del sistema agrario degli open fields (i campi aperti e l’uso comunitari della terra proprio del sistema feudale) con le enclosures (la costituzione della proprietà privata e perfetta della terra); in altre parole il Gemelli si faceva propugnatore della necessità di superare l’economia di sussistenza per instaurare un’economia di mercato, di passare da uno sfruttamento estensivo del capitale-terra ad uno sfruttamento intensivo, funzionale all’economia di mercato[11].

Lo stesso intento di una razionale utilizzazione delle risorse del territorio perseguiva l’opera di un altro docente dell’Università di Sassari, Francesco Cetti, che tra il 1774 e il 1777 pubblicò una Storia naturale della Sardegna, ispirata alle più recenti teorie naturalistiche del celebre naturalista francese Buffon, che a partire dalla fine degli anni quaranta aveva iniziato la pubblicazione della monumentale Histoire naturelle générale et particulière. Aspetto quest’ultimo adeguatamene posto in risalto da Piero Sanna nella sua bella Introduzione all’opera del Cetti di cui stiamo discorrendo, pubblicata recentemente dalla casa editrice Ilisso di Nuoro[12]. In questa mentalità tutta settecentesca della cultura intesa a favorire la “pubblica felicità” si inscrive l’interessante filone di opere didascaliche degli allievi sardi di questi maestri, tra cui ricordo il poema Le Piante (1779) di Domenico Simon[13], i catechismi agrari di Giuseppe Cossu, il poema in lingua sarda con traduzione anch’essa in versi italiani a fronte del parroco di Senorbì Antonio Porqueddu intitolato De su tesoru de sa Sardigna per insegnare ai coltivatori sardi la coltivazione dei gelsi e dei bachi da seta (1779)[14],  vedi la recentissima edizione della CUEC a cura di Giuseppe Marci, 1999); il De sardoa intemperie di Francesco Carboni (1772) sulla malaria e sui rimedi contro di essa[15]; il trattato Dell’agricoltura in Sardegna di Andrea Manca dell’Arca (1780)[16], vedi la recentissima edizione della CUEC a cura di Giuseppe Marci e della ILISSO a cura di G. G. Ortu); il Discorso sopra l’utilità delle piante e della loro coltivazione per uso della diocesi di Ales e Terralba (1779) di monsignor Giuseppe Pilo, il vescovo dell’ordine dei Carmelitani di quella diocesi[17], e via discorrendo.

A questo atteggiamento di “filosofia civile” attraverso cui gli uomini del Settecento sardo vivono e interpretano la realtà nella quale vivono, quella che noi chiamiamo l’identità, si affianca l’attenzione verso la storia patria e verso la lingua. Relativamente al recupero della memoria storica, basterà ricordare il già citato Domenico Simon, che tra il 1785 e il 1788, rifacendosi espressamente a all’opera Rerum italicarum scriptores del Muratori, aveva iniziato la pubblicazione di una collana intitolata Rerum sardoarum scriptores, di cui uscirono due volumi, tra cui, significativamente, il breve compendio di Sigismondo Arquer, vittima dell’Inquisizione nella seconda metà del Cinquecento, Sardiniae brevis hisoria et descriptio[18]. Parallelamente a questo risveglio politico-letterario si svolge e si sviluppa, anche come conseguenza dell’introduzione dell’italiano nelle scuole e nelle Università, una fioritura di composizioni poetiche in lingua sarda (si pensi solo al padre Luca Cubeddu e a Baignu Pes) e la riflessione sulla lingua sarda soprattutto ad opera di Matteo Madao, che nel 1787 pubblicava, come scrive Antonietta Dettori, “il suo Saggio di un’opera intitolata il ripulimento della lingua sarda, concepito dall’autore come momento introduttivo di riflessione teorica, nell’ambito di un articolato programma di rivalutazione e codificazione del sardo, che trovava applicazione linguistica e letteraria in un vocabolario storico-etimologico, rimasto inedito [si tratta del Ripulimento della lingua sarda lavorato sopra l’origine ch’essa trae dalla greca e dalla latina] e un’antologia poetica, che sarà pubblicata nel 1787 [si tratta delle Armonie dei sardi, ristampata nel 1997 dalla Ilisso a cura di Cristina Lavinio]”[19].

Ma gli esiti più significativi di questa cultura rinnovata è da individuare nel complesso periodo del “triennio rivoluzionario sardo” (1793-96): furono gli intellettuali formatisi a questa nuova temperie culturale a guidare e interpretare le esigenze profonde della società sarda di fine Settecento, rivendicando contro l’assolutismo sabaudo l’autonomia del Regno sancita dalla sua “costituzione”, per la quale il Regno sardo non era una monarchia assoluta, sebbene una monarchia mista, ossia un organismo politico nel quale la sovranità, precipua attribuzione dello Stato, era esercitata insieme dal sovrano e dagli Ordini – gli Stamenti – che rappresentavano il popolo sardo.

La sovranità nazionale – scriverà l’Angioy durante l’esilio francese nel 1802 in un abbozzo di storia del “diritto patrio” – fu riconosciuta dai re d’Aragona, che propriamente parlando non avevano che il potere esecutivo, giacché il legislativo risiedeva presso la nazione legalmente rappresentata dai suoi Stati generali. … Le leggi fondamentali della Sardegna sono contenute nei capitoli di corte, che altro non sono se non le deliberazioni prese nelle Assemblee generali della Nazione e sanzionate dal re[20].

E furono quegli stessi intellettuali a rivendicare la pari dignità dei sudditi sardi contro i piemontesi, che nel ’94 furono cacciati dall’isola, così come rivendicarono compattamente, almeno fino al gennaio-febbraio 1796 (il periodo in cui Angioy viene mandato a pacificare il Logudoro sollevatosi contro le angherie feudali) l’improcrastinabile necessità di una riforma della società e dello Stato, attraverso l’abolizione del sistema feudale[21]. Questa visione dell’identità sarda, che si configura come affermazione di autonomia politica, di dignità culturale e linguistica, di specificità economica e che rivendica con forza dignità di Nazione, è costantemente ribadita nei documenti politici e letterari già noti e che in questi anni stanno man mano venendo alla luce: mi riferisco al Ragionamento giustificativo delle cinque domande, al Manifesto giustificativo dell’emozione popolare del 28 aprile 1794, all’Achille della sarda liberazione, al Ragionamento giustificativo dell’uccisione del Pitzolo e del Planargia, all’inno di Francesco Ignazio Mannu Procurad’ ‘e moderare, agli atti delle assemblee stamentarie[22]. Molti degli elementi che definiscono il sentimento contemporaneo dell’identità sarda, risultano dunque presenti nell’idea di identità enucleata e vissuta dagli uomini del Settecento. Per questo abbiamo detto che il Settecento sardo costituisce l’alba della contemporaneità non solo in termini generali per la storia dell’Occidente, ma anche in particolare per la storia della Sardegna.

 

4. Gli esiti delle aspirazioni di riforma politica e sociale e di rigenerazione intellettuale di fine Settecento sono noti: la “sarda rivoluzione” non è stata una rivoluzione non vittoriosa, anzi diede luogo ad una feroce e sanguinaria “restaurazione”. Tuttavia, ad onta della feroce restaurazione, il verbo rivoluzionario e riformista ha continuato a guidare l’opera dei “patrioti” sardi, come testimoniano, tra gli altri eventi, lo sfortunato tentativo di Francesco Cilloco e di Francesco Sanna Corda di sollevare la Gallura nel 1802 e la congiura di Palabanda del 1812[23]. Occorrerà attendere l’esplosione dei moti liberali nell’Europa del 1848 perché l’eredità dei patrioti di fine Settecento venga raccolta dal movimento democratico sardo[24]. È però appena opportuno ricordare, a dimostrazione della giustezza e della improrogabile urgenza di soluzione dei problemi della società sarda di fine Settecento, che a quelle istanze di riforma sono ispirati gli atti più significativi della politica dei sovrani sabaudi in Sardegna nella prima metà dell’Ottocento: la costituzione della proprietà perfetta con l’”editto delle chiudende” (1820) e l’abolizione mediante riscatto del sistema feudale (1837-1843). Come riconosce lo stesso Manno, l’uomo politico e l’intellettuale sardo più importante del periodo della Restaurazione, quelle riforme di cui il movimento patriottico di fine Settecento si era fatto propugnatore erano sì necessarie, ma a condizione che le stesse non fossero conseguenza di sommovimenti rivoluzionari, ma fossero attuati “in anni cheti”, egli scrive, come “santa opera” di un “saggio monarca”, paternalisticamente attento ai bisogni dei sudditi e all’evoluzione della società, come lo furono, a giudizio del Manno, Vittorio Emanuele I, Carlo  Felice e, soprattutto, Carlo Alberto[25].

Represso con ferocia il movimento patriottico di fine Settecento, sarà proprio il Manno (ma anche Baille, Angius, Tola, Martini, Siotto Pintor, Porru e Spano) a dare un contributo decisivo alla delineazione di una nozione di identità storica del popolo sardo ispirata alla cultura romantica del primo Ottocento, ancora oggi abbastanza viva. Saranno questi intellettuali, conservatori e tradizionalisti, assertori convinti della specificità della nostra cultura, a delineare una precisa individualità storica della Sardegna, “nazione” nonché soggetto storico portatore di uno specifico percorso storico nel tempo, con i suoi eroi, le sue gesta, le sue istituzioni, la sua “mentalità” ecc.; una Sardegna, cioè, titolare di una specifica “civiltà”[26]. È in questo il quadro che s’inseriscono le interpretazioni delineate del Manno nelle due opere storiche (la Storia di Sardegna e la Storia moderna della Sardegna pubblicate nel 1825-27 e nel 1842)[27], dal Martini nella Biografia sarda e nella Storia ecclesiastica di Sardegna (1837-38 e 1839-41)[28], dal Tola nel Dizionario biografico degli uomini illustri di Sardegna (1837-38)[29]. Chi oggi volesse scoprire gli scrittori che hanno creato il “mito” storico (un “mito” nel senso buono del termine) dei più noti eroi della tradizione storica della nostra isola. Amsicora e Josto (eroi della resistenza contro Roma), Mariano IV ed Eleonora d’Arborea (saggi legislatori ed eroi della resistenza contro l’Aragona), di Leonardo Alagon, la cui sconfitta ad opera dei dominatori aragonesi-spagnoli proprio sotto le mura di Macomer nel 1478 avrebbe sancito il definitivo tramonto delle speranze di libertà dei sardi, non ha che da leggere questi autori e le opere testé citate. Autori, dicevo, che hanno contribuito a creare “miti” storiografici “buoni”[30]. Ma vi furono anche, attorno allo stesso periodo, autori (si pensi a Martini, Angius e Spano e De Castro) che a partire dal 1845, nell’intento di assegnare un’improbabile diritto di primogenitura della “nazione sarda” relativamente all’origine della civiltà e della lingua italiane, contribuirono ad accreditare le invenzioni storiche dei falsari autori delle “Carte d’Arborea” e folleggiarono di un fantomatico re Gialeto che avrebbe unificato l’isola già nel secolo VIII, di una produzione poetica e letteraria in lingua italiana attorno ai secoli X-XI  ancor prima che la lingua volgare dell’Italia emettesse i primi vagiti, e così via fantasticando. Un episodio singolare questo delle false Carte d’Arborea, che se inquinò purtroppo a lungo soprattutto la storiografia divulgativa della Sardegna, è però esempio sintomatico della forza con cui certa intellettualità sarda dell’Ottocento sentiva il problema della propria identità storica e nazionale[31].

Di grande spessore nell’evoluzione del concetto di identità fu il contributo dato, tra il 1840 e il 1878, dal canonico Giovanni Spano, considerato a giusto titolo, come scrive Antonietta Dettori, “uno dei precursori della dialettologia scientifica”[32], infaticabile cultore del patrimonio linguistico, archeologico, demologico e linguistico dell’Ottocento sardo (anche se l’avallo parziale da lui dato alle false carte d’Arborea deve mettere in guardia lo studioso soprattutto nell’approccio alle sue opere storiche). È mia convinzione che basterebbe la sola testimonianza di questo autore a confutare l’opinione di chi crede che l’identità sarda costituisca una specificità unica, priva di nesso con la cultura europea e con il confronto e l’interazione delle diverse culture. Paradossalmente, proprio questo importante uomo di cultura della Sardegna dell’Ottocento, che potrebbe a tutta prima apparire come il più “sardo” degli intellettuali ottocenteschi, il portatore più significativo di una concezione “chiusa” dell’identità sarda, è forse quello che meglio di tanti altri contraddice a questo cliché fuorviante dell’identità sarda, di quel genere d’identità che a me piace definire “in mastruca e berrita“. Il suo imponente epistolario inedito custodito nella Biblioteca Universitaria di Cagliari sta a dimostrare che la sua opera, e conseguentemente l’idea di identità che viene delineata nella sua opera, è frutto di un fitto scambio culturale a livello europeo. La sua monumentale produzione nel campo della linguistica, dell’archeologia, dell’epigrafia, delle tradizioni popolari trae alimento da un serrato confronto con i più importanti cultori ottocenteschi di queste discipline: cito alla rinfusa, tra i più noti Bernardino Biondelli, Celestino Cavedani, Carlo Baudi di Vesme, Isaia Ascoli, Pietro Monti, Giovenale Vegezzi-Ruscalla, Michele Amari, il principe Luigi Luciano Bonaparte, Angelo De Gubernatis, Giambattista De Rossi, Luigi Cibrario, Terenzio Mamiani, Teodoro Mommsen, Amedeo Peyron, Giusepe Pitré, Francesco Cherubini, Ariodante Fabretti, Costantino Nigra, Alberto Lamarmora, Giovanni Gozzadini, Gaetano De Minicis, Wolfgang Helbig, ecc. ecc., per non citare che i più noti dei 374 corrispondenti del canonico di Plaghe[33] .

Una considerazione analoga occorre fare nel delineare il concetto di identità quale emerge dalla vita e dall’opera di Giovanni Battista Tuveri, l’inventore dell’espressione “questione sarda”, che costituisce a tutt’oggi la denominazione più nota, più condivisa e più pregnante di quel complesso di fattori che entrano a costituire la nozione di identità sarda. Tuveri, insieme a Giorgio Asproni, è il personaggio più noto tra i democratici sardi dell’Ottocento; repubblicano come Asproni, fu il più importante assertore del federalismo statuale, fondando la sua filosofia politica su una intransigente difesa della democrazia repubblicana: per questa sua posizione è stato talvolta definito “il Cattaneo sardo” e il suo pensiero è oggi frequentemente rivisitato nell’ambito del dibattito sul federalismo[34] (34). Com’è noto, nel 1847 la gran parte dell’intellettualità isolana fu fautrice dell’operazione politica che va sotto il nome di “fusione perfetta”: con essa la Sardegna chiedeva espressamente a Carlo Alberto di effettuare quella che due storici contemporanei, Manlio Brigaglia e Luciano Marrocu, hanno definito in un bel libro, La perdita del Regno[35]: con quest’atto formale finiva di essere un regno autonomo, con propri ordinamenti e con una sua costituzione, come era stato a partire dal 1297, inserito nella compagine statale della confederazione catalano-aragonese fino al 1478, della Corona spagnola poi e del Ducato di Savoia nel 1720 (al duca di Savoia quel regno diede il titolo regale), per diventare, politicamente e giuridicamente, una provincia del Regno sardo-piemontese, e successivamente, dell’Italia unita. Gli storici hanno in genere giudicato quello snodo della storia della nostra isola come un prezzo necessario che la Sardegna doveva pagare nella via obbligata della modernizzazione e dello inserimento nell’organismo dello Stato unitario. La situazione in cui la Sardegna, economicamente debole e arretrata, venne a trovarsi nell’indistinta omologazione fiscale conseguente alla “fusione”, inserita in una compagine statale nella quale regioni e popolazioni povere contribuivano alla pari con regioni e popolazioni ricche, produttive ed economicamente floride, più avanzate sul terreno della modernizzazione, fecero scoprire molto presto ai sardi il disinganno e l’ingiustizia della “fusione e perfetta”. Democratici e moderati dovettero prendere atto nel corso del primo decenni della seconda metà dell’Ottocento, che una “fusione” siffatta, che poneva sullo stesso piano regioni ricche e regioni povere, invece di ridurre il divario, lo aumentava enormemente, fino a ingenerare tra le regioni dello stesso Stato una forma di colonialismo interno, di sperequazione inaccettabile. Nel 1877 un uomo politico e storico di idee liberal-moderate come Giovanni Siotto-Pintor riassunse in un efficace aforisma condiviso da tutte le parti politiche questo disinganno: in relazione alla fusione, egli ha scritto nella Storia civile de’ popoli sardi, “errammo tutti”[36].

Il problema dell’arretratezza della Sardegna è quello stesso dell’arretratezza di tutte le regioni dell’Italia post-unitaria che storicamente chiamiamo “questione meridionale”. All’interno di essa si inscrive la particolare situazione della Sardegna, per la quale appunto il Tuveri coniò l’espressione “questione sarda” in un celebre articolo giornalistico del 1867 dal titolo Initium sapientiae. Chi oserà attaccare i campanelli al gatto?[37]. Un aspetto sul quale tuttavia non si pone, a mio modo di vedere, la dovuta attenzione relativamente a questa formula dell’identità sarda, è l’origine ad un tempo nazionale e internazionale della formula stessa. Tuveri infatti, dopo aver denunciato le storture della fusione, che “si spacciava come un rimedio universale per i nostri mali: e i nostri mali peggiorarono”; dopo aver criticato aspramente le conseguenze dell’unificazione italiana e dell’operato dei governi della Destra storica, che si erano rivelati indifferenti “d’ogni libertà locale” e con “l’avidità” fiscale e con le tasse “esorbitanti” avevano affamato i contadini e costretto i certi più poveri all’emigrazione in terre lontane, egli dichiarava che la situazione sarda rispetto al Regno d’Italia non era dissimile dalla situazione dell’Irlanda rispetto al Regno Unito; come a seguito del colonialismo inglese verso l’Irlanda era nata la “questione irlandese”, allo stesso modo, per analoghi motivi, era nata la “questione sarda”; come era stato legittimo per gli irlandesi combattere il malgoverno  inglese anche col ricorso alla lotta armata, allo stesso modo, qualora la politica del governo italiano non si  fosse sostanzialmente modificata, riteneva lecita anche per il popolo sardo la resistenza armata, sebbene la strada della rivoluzione, per un “posa piano” quale Tuveri definiva se stesso, dovesse essere imboccata solo come l’atto estremo dettato dalla disperazione e dalla conclamata impraticabilità di una politica di riforme.

Ma come, come fare – egli scriveva – perché quei milioni rimangano nell’isola? Tollererebbe il governo un’agitazione alla O’ Connel, quale l’Inghilterra tollerava in Irlanda? O vorreste consigliarci la rivoluzione? … Le rivoluzioni poi, richiedono, per ben riuscire, tal favore di circostanze, che un posa-piano, qual io mi sono difficilmente s’induce a consigliarle. Un’insurrezione non farebbe, che dare al governo la occasione di ripetere le calunnie e le stragi onde fu sopraffatta la insurrezione di Palermo. I nostri mali saranno adunque senza riparo? L’avvenire sta nelle mani di Dio: e Dio aiuta chi si aiuta dice il proverbio. Il molto che mi resta da dire sull’argomento di quest’articolo, io il dirò, quando che sia, in apposito libro, che mi riservo di pubblicare, dove mi sia lecito di scrivere quel che sento, ed abbia speranza di suscitare una nuova questione: la questione sarda”[38].

Con la rivendicazione, nel celebre articolo del 1867, della legittimità della ribellione contro i cattivi governi, Tuveri non diceva cose nuove: la sua opera filosofica principale, pubblicata nel 1851 s’intitolava appunto Del dritto dell’uomo alla distruzione dei cattivi governi. Trattato teologico-filosofico[39], dove sosteneva la liceità del tirannicidio e indicava nella democrazia la forma di governo più consona al diritto di natura. Queste stesse tesi egli aveva sostenuto in un’opera giovanile, intitolata Il Veggente[40] (da me pubblicata dieci anni fa nel 1° volume dell’Opera omnia di Tuveri), scritta ad imitazione di un famoso best-seller del pensiero democratico della prima metà dell’Ottocento, le Paroles d’un croyant di Lamennais. In quest’opera giovanile, come nel successivo trattato, era evidente che la tradizione politico-filosofica alla quale si rifaceva Tuveri non era solo quella della filosofia scolastica insegnata nelle Università dell’isola e dei monarcomaci cattolici della seconda metà del Cinquecento, ma era anche il pensiero politico-filosofico moderno, ai cui autori egli si rifaceva: si ritrovano nella sua opera frequenti riferimenti a Grozio, Vinnio, Montesquieu, Voltaire, Rousseau, Genovesi, Filangieri, ecc. Ora, è proprio questo riferimento alle “fonti” del pensiero di Tuveri che ci consente di mettere in guardia il lettore e lo studioso dall’indulgere ad una interpretazione che definirei di tipo “etnografico” dell’opera dei pensatori sardi che hanno dato un contributo importante alla definizione dell’identità sarda. Quasi che certa arcaicità dei costumi debba necessariamente produrre un’arcaicità di pensiero! Ad una visione di questo genere si è rifatto un grande studioso come Gioele Solari. Nel primo ventennio del Novecento il grande filosofo del diritto (egli è stato poi a Torino il maestro di Norberto Bobbio) ha scritto due importantissimi saggi su Tuveri, che veniva da lui definito un “monarcomaco sardo del secolo XIX”[41].  Secondo l’interpretazione del Solari, che risente molto del cliché di una Sardegna “arcaica”, condiviso anche da altri illustri studiosi del Novecento (ricordo, per tutti, il grande linguista tedesco Max Leopold Wagner), il pensiero di Tuveri sarebbe, nel panorama della filosofia politica del secolo XIX, un pensatore fuori tempo, come fuori tempo sarebbe la cultura sarda nel suo complesso. Io non voglio sostenere che quel cliché non abbia una sua motivazione oggettiva nella realtà sarda: a nessuna verrebbe in mente di negare che l’”arcaicità” costituisce una componente della civiltà sarda, che ha condizionato e che condiziona non poco il suo percorso storico. Questo cliché, del resto, non è stato veicolato solo dai “viaggiatori” che dal Settecento a oggi hanno percorso e descritto en touriste la Sardegna, alla ricerca del “buon selvaggio” e dell’oasi naturalistica incontaminata nel cuore dell’Europa civile, ma è anche l’immagine che promana dalle opere di illustri artisti e scrittori sardi: pensiamo, per citarne solo due, a Grazia Deledda e a Mario Ciusa. Intendo dire che sarebbe storicamente errato ritenere che quella rappresentazione della civiltà e dell’identità sarda sia l’unica possibile rappresentazione, perché nella storia della civiltà sarda, nell’opera dei suoi figli migliori, artisti, poeti, scrittori, l’”arcaicità” convive con la modernità; la categoria dell’arcaicità non può assurgere a dogma, non si può fare di quest’aspetto l’ipostasi, la definizione fissa e immutabile dell’identità sarda, che è stata sempre storicamente ed è una nozione dotata di un suo dinamismo, di una sua capacità di confronto, di interazione, di arricchimento con le altre culture. Chi avrà la pazienza di esaminare la rivisitazione che è stata fatta nell’ultimo quindicennio dell’opera del Tuveri (ma anche del Settecento sardo, come si è detto prima)  da parte di storici, filosofi, saggisti (ricordiamo rapidamente I. Birocchi, A. Delogu, A. Mattone, P. Sanna, F. Francioni, G. Marci, ma anche N. Bobbio, G. Sotgiu, L. Del Piano, T. Orrù) hanno, per così dire, fatto giustizia di quello stereotipo: attraverso l’esame attento delle “fonti” del pensatore di Collinas gli studiosi recenti sono giunti alla conclusione che la convivenza di arcaicità e modernità, di conservatività e di apertura al nuovo, di ribellione e di integrazione, che danno luogo a quell’amalgama caratteristico dell’idea di Sardegna, costituiscono l’aspetto saliente dell’opera del Tuveri, nella quale la filosofia scolastica convive con la filosofia illuministica, il giusnaturalismo e il contrattualismo convivono col pensiero democratico, la filosofia religiosa si confronta col laicismo, ecc. ecc. Qualcuno potrà osservare che il prodotto che deriva da questo amalgama è atipico, è singolare, è contraddittorio, è un ossimoro. E sia! Questa è la Sardegna! Nessuno, del resto, può considerare irrimediabilmente come fuori tempo, come culturalmente attardati, come arcaici, pensatori, politici e scrittori dello spessore di Antonio Gramsci, di Emilio Lussu, di Camillo Bellieni, di Giuseppe Dessì, di Antonio Pigliaru, di Michelangelo Pira, di Salvatore Satta, di Sergio Atzeni, di Salvatore Mannuzzu, solo perché anche nel loro pensiero affiorano aspetti propri della loro terra d’origine, della cultura e della civiltà della Sardegna nella quale si immedesimati.

 

5. “Sono sardo, sono italiano, sono europeo”: in questo aforisma Sergio Atzeni riassumeva il suo senso dell’identità. E questa la vera identità sarda, che è cultura del dialogo e del confronto. Alla luce di questa concezione passo ad esaminare brevemente da ultimo la teoria dell’identità sarda che ritengo sia stata la più diffusa e la più condivisa negli anni Settanta-Ottanta: la tesi del grande archeologo Giovanni Lilliu della cosiddetta “costante resistenziale sarda”. Secondo Lilliu (che elabora la sua tesi in un momento storico di forte contrapposizione politica verso il potere centrale) costituirebbe una costante della storia del popolo sardo, che ne caratterizzerebbe l’identità, una specie di “resistenzialità” agli influssi esterni. A fronte delle “aggressioni di integrazioni di ogni specie”, di cui è costellata la vicenda storica della Sardegna, i sardi sarebbero riusciti a conservarsi sempre se stessi: “Nella confusione etnica e culturale che li ha inondati per millenni – scrive Lilliu – [i sardi] sono riemersi costantemente nella fedeltà alle origini autentiche e pure”[42].

Questa tesi sull’identità sarda chi scrive non si sente di condividere appieno né in sede storica né come atteggiamento di fondo nel rapportarsi alla realtà sarda; assunta in termini totalizzanti come l’unica possibile idea di identità, la teoria della “resistenzialità reca in sé un pericolo mortale: il rifiuto delle altre culture, del confronto, la solipsistica contemplazione di una presunta e non meglio definita purezza di origini che non esiste nella realtà. Non sostenibile in sede storica, inoltre, è la tesi che nel succedersi del tempo storico dall’antichità ad oggi, la storia dei sardi si sia esclusivamente caratterizzata per la resistenza all’esterno; appaiono al contrario tanto forti “gli elementi di integrazione e di sincretismo tra la realtà locale e quella esterna”, che è del tutto plausibile parlare paradossalmente di una “costante integrativa sarda” anziché di una “costante resistenziale sarda”[43].

B. R. Motzo, uno dei più illustri codificatori della teoria della “resistenzialità”, che è stato anche, in certo senso, uno dei maestri di Lilliu, ha attribuito un significato relativo alla teoria stessa. Egli, in un importante saggio intitolato Continuità storica della gente sarda, apparso nel 1951 sul numero speciale interamente dedicato alla Sardegna della rivista di Piero Calamandrei “Il Ponte”, Motzo dopo aver affermato che la resistenza opposta dai sardi ai Cartaginesi fu “la prima di quelle formidabili resistenze agli invasori che sono la caratteristica più saliente di tutti i periodi della storia sarda”[44], riconosceva però che in seguito “la romanizzazione si compì in modo perfetto, e non fu veste esteriore da dimettersi alla prima occasione, ma penetrò negli spiriti, e riplasmò in unità di linguaggio e d’animo tutte le genti allora viventi nell’isola”[45]. E conclude il suo contributo riportando un’ottava di un combattente della Brigata Sassari, il quale, restituendogli dei libri ispirati a sentimenti antiromani, che gli aveva prestato, così si esprimeva:

Non nos nerzan chi semus

giudios, arabos, ispanos:

de sos antigos romanos

tenimus limba e coro.

Restat su Logudoro

chei sos nuraghes firmu

cun sa zente ladina:

no amat concas de moro[46].

L’identità sarda, secondo Motzo, pur conservando nel suo DNA un carattere di resistenzialità, non risiede in non meglio definite “origini autentiche e pure”, ma nell’eredità della lingua e della cultura dell’antica Roma. Da storico illustre qual era il Motzo invitava allo stesso tempo ad uno studio della storia della Sardegna secondo criteri scientifici: tale studio costituiva, a suo parere, il fondamento per l’acquisizione di una corretta coscienza dell’identità culturale sarda. Egli era convinto – e tale convinzione espresse in una interessante polemica con Ranuccio Bianchi Bandinelli nei primi Anni Cinquanta del Novecento – che l’identità non può consistere in un ripiegamento sul passato, non può cristallizzarsi nella semplice componente della “costante resistenziale”, soprattutto se questa venisse intesa come impermeabilità ai valori e alle conquiste della società moderna, o, peggio ancora, portare ad attribuire dignità di valore esclusivo all’”arcaicità”, all’aspetto “barbarico” o “anticlassico” che dir si voglia della cultura sarda[47].

 

6. La storia, dunque, la critica storica costituisce l’antidoto più efficace ad una visione statica dell’identità. Da qui discende l’importanza dello studio della storia generale e della storia locale, che non stanno tra di loro in un rapporto antitetico, quasi che la storia locale fosse un surrogato della storia, il parente povero della Storia con la S maiuscola privo di una sua dignità e di un suo ruolo. Come si è avuto modo di sottolineare nella recensione a un importante saggio di storia locale pubblicato di recente (si tratta libro di Giovanni Cucca sul Settecento sabaudo macomerese)[48], storia nazionale e storia regionale, storia generale e storia locale non sono tra di loro contrapposte, ma stanno tra di loro in rapporto dialettico, sono due angolature dello stesso prisma.

È da questo punto di vista, io credo, che dobbiamo essere soddisfatti dei passi da gigante che ha compiuto, nel corso di due secoli, il problema della dignità e dell’identità della cultura locale sotto il profilo normativo. Anche la più recente legislazione regionale sulla lingua sarda, che integra e sviluppa la già importante legislazione del più recente passato (si pensi, ad es., alla L. R. n. 26 del 1997)  sulla tutela della lingua e della cultura sarda costituisce una grande occasione che deve essere adeguatamente sfruttata, soprattutto nell’ambito della formazione scolastica, per far sì che la cultura dell’identità, che non è solo storia, ma è lingua, letteratura, poesia, ambiente della Sardegna, trovi pieno diritto di cittadinanza soprattutto nel percorso scolastico dei giovani.

La scuola dell’autonomia prevede che nella definizione dei curricoli i docenti e le istituzioni scolastiche autonome abbiano a disposizione un congruo numero di ore per inserire nei programmi organici percorsi di cultura locale. Si tratta di una normativa importante che va rivitalizzata anno per anno, perché con essa sarà possibile rendere sempre più operante la cultura dell’identità. Sarà compito dei docenti costruire i curricoli scolastici con duttilità, equilibrio e intelligenza, sfruttando al massimo le possibilità offerte dalla legislazione scolastica. Per chi, come chi scrive, ha frequentato tanti anni fa una scuola nella quale la lingua madre e la cultura regionale erano addirittura bandite, una scuola nella quale la storia locale era considerata pascolo degli eruditi chiusi nell’orizzonte limitato del proprio villaggio, degli “storici scalzi” come l’alta cultura definiva sprezzantemente ancora una trentina di anni fa perfino illustri cultori della microstoria, la nuova situazione normativa sviluppatasi negli ultimi decenni equivale quasi ad un’uscita dalle catacombe. È finalmente ora che, soprattutto gli insegnanti delle nostre Scuole di I e II Grado, molti dei quali per troppo tempo hanno perseguito quasi alla macchia (ma meglio tardi che mai!) il sacrosanto obiettivo di far “comprendere” e valorizzare il mondo in cui vivono e operano, inseriscano con coraggio e determinazione nella programmazione scolastica la cultura cosiddetta “locale”. È questa la strada perché le generazioni di domani riconoscano per tempo pari dignità alle radici della nostra cultura, al registro linguistico nativo, che è veicolo indispensabile perché numerosi contesti espressivi abbiano la loro più autentica pregnanza e genuinità di significato. Molti, come chi scrive, che hanno, per un segmento importante della loro esistenza, praticato nel vissuto quotidiano la lingua sarda (l’italiano era solo la lingua della scuola e delle ufficialità istituzionali), hanno sempre sofferto della difficoltà di “tradurre” in italiano idee, espressioni, contesti linguistici che hanno pregnanza espressiva solo se espressi nella lingua madre. Non mi sono mai curato di fare un’enumerazione di questi “giochi linguistici”, di queste situazioni espressive, di questo lessico idiomatico: so solamente che nel mio universo cognitivo ed espressivo sono numerosi. Ne citerò, fra i tanti, uno solo, consistente in alcuni versi nel sardo logudorese del mio paese di origine, che nel mio personale gusto estetico hanno sempre rappresentato l’apice della satira contro l’alterigia e la grettezza dell’uomo fortunosamente arricchito, del maiolo divenuto notaio:

Accollu a fanfarrone arziadu

su chi fidi in Casteddu bazzineri;

cando s’anzenu l’hat fattu in paneri

non s’ammentat pius de su passadu[49].

 

Sono versi dello sconosciuto poeta bolotanese dell’Ottocento Bachisio Raimondo Basolu, da me appresi dalla tradizione orale.

L’uso della lingua sarda, dunque, come arricchimento, come potenzialità di registri e mezzi espressivi, non come unico e ed esclusivo mezzo di comunicazione; il riferimento al patrimonio culturale della Sardegna, alla nostra identità, non come rimpianto di un bene perduto nel quale arroccarsi, ma come terreno sul quale innestare un rapporto dinamico con le altre culture, mettendo per sempre da canto certo rivendicazionismo piagnone il cui risultato può essere solo l’isolamento e la marginalità. È questo, io credo, il modo migliore per affrontare i problemi della nostra identità culturale.

Mi piace concludere questo mio contributo ad un dibattito sempre attuale con un brano molto pregnante di Salvatore Mannuzzu, che esprime in modo egregio le riflessioni ho voluto sottoporre all’attenzione di quanti hanno a cuore il problema dell’identità e quello dell’insegnamento della cultura locale nelle Scuole.

Da sempre – scrive Mannuzzu – (è un sardo che scrive) noi sardi siamo abituati a lamentarci, a protestare – piuttosto innocuamente: a chiedere che le cose ce le facciano gli altri. Ma quelle nostre cose non cambiano se non ce le cambiamo noi. Dunque se insieme non cambiamo noi: è solo questa la possibile conciliazione col moderno. Se non cambiamo noi spendendo quanto chiamiamo identità – con una parola che diventa brutta, retorica, egoistica, perfino reazionaria. Se non investiamo questa “identità”, senza perderla, in un divenire di solidarietà generale, di presenza nel mondo e nella storia – una presenza che sia innanzi tutto intelligenza.

Allora la prima impresa è questa, anche per i sardi: cambiare se stessi agendo; agendo là, nella loro terra, e insieme nel mondo. Un’impresa difficile, giacché riguarda il dentro e non solo il fuori: le molecole di cui sono fatte vita e storia; anche la vita e la storia di ognuno.

Un’impresa difficile. Però – se non si accetta la disfatta del mondo che ci appartiene e delle nostre vite, se non ci si accontenta di un patire irragionevole e confuso di cui nemmeno si capisce il senso – se non si accetta e non ci si accontenta, non c’è altra impresa che questa”[50].

 

Solo con questo radicale mutamento di abiti mentali, solo attraverso una concezione dinamica della identità, suggerisce Mannuzzu, è possibile scongiurare il “finis Sardiniae” e intravvedere la nuova “patria possibile”.

Forse è questo l’unico atteggiamento possibile perché il globale e il locale possano convivere e arricchirsi reciprocamente. Una bella metafora, a suo tempo usata da un Commissario europeo, auspicava che la patria più grande dell’Europa e del mondo, la si può realizzare solo se i singoli e i popoli sapranno dotarsi di “radici ed ali”. “Radici” ed “ali” stanno tra di loro in un assoluto rapporto di reciprocità: le une non possono stare, nel discorso sull’identità dell’uomo contemporaneo, senza le altre. Occorre impegnarsi perché le “radici” non trattengano o inceppino il volo delle “ali”, e le “ali”, a loro volta, non navighino nel vuoto di un cielo privo di riferimenti ai luoghi della vita e della memoria.

 

 


[1] L. Berlinguer e A. Mattone, L’identità della Sardegna contemporanea, in Storia d’Italia. Le Regioni dall’Unità a oggi. La Sardegna, a cura di L. Berlinguer e A. Mattone, Giulio Einaudi Editore, Torino 1998, p. XXIV.

[2] Ivi, p. XXVI.

 

[3] G. Paulis, La lingua sarda e l’identità ritrovata, in L. Berlinguer e A. Mattone (a cura di), L’identità della Sardegna contemporanea, cit., p. 1277.

 

[4] (4) Ricordiamo alcune tra le opere più significative sulla fine del Settecento in Sardegna apparse recentemente, rimandando alle stesse per una bibliografia più completa: G. Sotgiu, Storia della Sardegna sabauda, Roma-Bari 1984; C. Sole, La Sardegna sabauda nel Settecento, Sassari 1984; I. Birocchi, La carta autonomistica della Sardegna tra antico e moderno. Le “leggi fondamentali” nel triennio rivoluzionario (1793-96), Torino 1992; F. Francioni, Per una storia segreta della Sardegna tra Settecento e Ottocento, Cagliari 1996; T. Orrù-M. Ferrai Cocco Ortu, Dalla guerra all’autogoverno. La Sardegna nel 1793-94: dalla difesa armata contro i francesi alla cacciata dei Piemontesi, Cagliari 1996; A. Mattone-P. Sanna, La “rivoluzione delle idee”: la riforma delle due Università sarde e la circolazione della cultura europea (1764-1790), in “Rivista Storica Italiana”, CX (1998), pp. 834-942; A. Mattone-P. Sanna, La “crisi politica” politica del Regno di Sardegna dalla rivoluzione patriottica ai moti antifeudali, in Folle controrivoluzionarie. Le insorgenze popolari nell’Italia giacobina e napoleonica, a cura di Anna Maria Rao, Roma 1999, pp. 37-88 (i due saggi stanno ora anche in A. Mattone-P. Sanna, Settecento sardo e cultura europea, Milano 2007, pp. 13-106 e 141-172,); L’attività degli Stamenti nella “Sarda Rivoluzione” (1793-17699), a cura di Luciano Carta, tomi I-IV, Cagliari 2000; L. Carta, La “Sarda Rivoluzione”. Studi e ricerche sulla crisi politica in Sardegna tra Settecento e Ottocento, Cagliari 2001.

 

 

[5] Cfr. F. Venturi, Settecento riformatore, 5 voll., Torino 1969-1990.

 

 

[6] Cfr. G. Sotgiu, Storia della Sardegna sabauda, cit., pp. 90-131; C. Sole, La Sardegna sabauda nel Settecento, cit., pp. 101-173.

 

[7] Vedi nota 4.

[8] Ibidem.

[9] E. Verzella, L’Università di Sassari nell’età delle riforme (1763-1773), Sassari 1992.

 

[10] F. Venturi, Gian Battista Vasco all’Università di Cagliari, “Archivio Storico Sardo”, XXV (1957), fasc. 1-2, pp. 16-41; Id., Il conte Bogino, il dottor Cossu e i monti frumentari. Episodio di storia sardo-piemontese, “Rivista Storica Italiana”, a. LXXVI (1964), pp. 470-506; Id., Giuseppe Cossu, in Illuministi italiani, VII, Riformatori delle antiche repubbliche, dei Ducati, dello Stato pontificio e delle Isole, a cura di G. Giarrizzo, G. Torcellan, F. Venturi, Milano-Napoli, 1965, pp. 849-859.

 

 

[11] Cfr. L. Carta, L’inno di Francesco Ignazio “Mannu “Procurade ’e moderare barones sa tirannia”, Cagliari 1998, pp. 6-8.

[12] Cfr. A. Mattone- P. Sanna, Prefazione a F. Cetti, Storia naturale di Sardegna, Nuoro 2000, pp. 9-52.

[13] Cfr. D. Simon, Le Piante. Poema, Cagliari 1779.

[14] Cfr. G. Cossu, Moriografia sarda, ossia catechismo gelsario proposto alli possessori di terre ed agricoltori del Regno sardo, Cagliari 1788-1789; Id., Istruzioni po sa cultura e po s’usu de is patatas in Sardigna, Cagliari 1805; Id., Istruzioni po coltivai su cotoni, Cagliari 1806; A. Purqueddu, De su tesoru de sa Sardigna, a cura di G. Marci, Cagliari, 1999.

[15] Cfr. F. Carboni, De sardoa intemperie libelli duo, Cagliari 1772.

[16] A. Manca dell’Arca, Agricoltura di Sardegna, a cura di G. Marci, Cagliari 2000.

[17] Cfr. G. Pilo, Discorso sopra l’utilità delle piante e della loro coltivazione per uso della diocesi di Ales e Terralba, Cagliari, 1779

[18] ) Cfr. Scriptores rerum sardoarum, a cura di D. Simon, voll. I-II, Torino 1785-88. Su Domenico Simon cfr. A. Mattone-P. Sanna, I Simon, una famiglia di intellettuali tra riformismo e restaurazione, in All’ombra dell’aquila imperiale. Trasformazioni e continuità istituzionali nei territori sabaudi in età napoleonica (1802-1814), Atti del convegno di Torino 15-18 ottobre 1990, Roma 1994, pp. 762-883.

[19] A. Dettori, Italiano e sardo dal Settecento al Novecento, in Storia d’Italia. Le Regioni dall’Unità a oggi. La Sardegna, a cura di L. Berlinguer e A. Mattone, cit., p. 1168.

 

[20] Cit. in L. Berlinguer e A. Mattone, L’identità della Sardegna contemporanea, in Storia d’Italia, cit., p. XXV.

[21] Cfr. L. Carta, Reviviscenza e involuzione dell’istituto parlamentare nella Sardegna di fine Settecento, in L’Attività degli Stamenti nella “Sarda Rivoluzione”,

[22] Cfr. ivi, tomo II, pp. 1081-1091 e 1183-1223, tomo III, pp. 1959-2004, per il testo rispettivamente del Manifesto giustificativo, del Ragionamento giustificativo delle cinque domande e del Ragionamento giustificativo dell’uccisione del Pitzolo e del Planargia, l’Achille della sarda liberazione pubblicato in L. Del Piano, Osservazioni e note sulla storiografia angioiana, estr. da “Studi Sardi”, vol. XVII (1959-1961), pp. 59-64; per l’inno antifeudale del Mannu si rimanda a  L. Carta, L’inno di Francesco Ignazio Mannu Procurade ’e moderare barones sa tirannia, cit., pp. 20-31.

[23] Cfr. L. Trudu, L’impossibile rivoluzione dei patrioti sardi nel 1802, in “Archivio sardo del movimento operario contadino e autonomistico”, N. 29/31 (1990), pp. 135-148; L. Carta, Aspetti della biografia di Francesco Sanna Corda attraverso un fondo documentario dell’Archivio di Stato di Torino, in Studi e ricerche in onore di Girolamo Sotgiu, vol. I, Cagliari1993, pp. 163-179. Sulla congiura di Palabanda cfr. F. Francioni, Per una storia segreta della Sardegna, cit., pp. 141-164.

[24] Cfr. L. Carta, Fermenti di ideologia rivoluzionaria nell’Oristanese tra Settecento e Ottocento, in Id., La “Sarda Rivoluzione”, cit. pp. 193-237

[25] Cfr. G. Manno, Storia moderna della Sardegna dall’anno 1773 al 1799, a cura di A. Mattone, Nuoro 1998, p. 303.

[26] Cfr. G. Sotgiu, Storia della Sardegna sabauda, cit., pp. 287-310.

[27] Cfr. G. Manno, Storia di Sardegna, 4 voll., Torino 1825-1827; in edizione anastatica l’opera è stata pubblicata da Arnaldo Forni editore, Sala Bolognese 1980; la più recente edizione è quella curata da A. Mattone, pubblicata dalle Edizioni Ilisso di Nuoro (G. Manno, Storia di Sardegna, voll. 3, a cura di A. Mattone, Nuoro, 1996). Per la Storia moderna si rimanda alla nota 25.

[28] Cfr. P. Martini, Biografia sarda, voll. 3, Cagliari 1837-38; Id., Storia ecclesiastica di Sardegna, 4 voll., Cagliari 1839-41.

[29] Cfr. P. Tola, Dizionario biografico degli uomini illustri di Sardegna, 3 voll., Torino 1837-38.

[30] Cfr. L. Carta, Il mito storiografico di Eleonora d’Arborea in Vittorio Angius, in Intellettuali e società in Sardegna tra Restaurazione e unità d’Italia, Oristano 1991, vol. I, pp. 173-202; L. Marrocu-M. Brigaglia, La perdita del Regno. Intellettuali e costruzione dell’identità sarda tra Ottocento e Novecento, Roma 1995; A. Accardo, La nascita del mito della nazione sarda. Storiografia e politica nella Sardegna del primo Ottocento, Cagliari 1996.

[31] Cfr. Le Carte d’Arborea. Falsi e falsari nella Sardegna del XIX secolo, a cura di L. Marrocu, Cagliari 1998.

[32] A. Dettori, Italiano e sardo dal Settecento al Novecento, in Storia d’Italia. Le Regioni dall’Unità a oggi. La Sardegna, a cura di L. Berlinguer e A. Mattone, cit., p.

 

[33] Sullo Spano cfr. Contributi su Giovanni Spano 1803-1878, Sassari 1979; E. Delitala, Leggendo il “Carteggio di Giovanni Spano”, “Studi Sardi”, XXV (1978-80), pp. 127-153; A. Dettori, La collaborazione dello Spano alle traduzioni bibliche di L. L. Bonaparte, “Studi Sardi”, XXV (1978-80).

[34] Sulla figura del Tuveri si vedano i quattro volumi sinora apparsi dell’Opera omnia, pubblicati dall’editore Delfino: G. B. Tuveri, Tutte le opere/1. Il Veggente. Del dritto dell’uomo alla distruzione dei cattivi governi, a cura di A. Accardo, L. Carta, S. Mosso. Introduzione di N. Bobbio, Sassari 1990; Id., Tutte le opere/2. Della libertà e delle caste. Sofismi politici, a cura di M. Corrias Corona e T. Orrù, Sassari 1992; Id., Tutte le opere/3. Opuscoli politici. Saggio delle opinioni politiche di Giovanni Siotto-Pintor. Specifici contro il codinismo, a cura di G. Sotgiu, Sassari 1991; Id., Tutte le opere/4, Il governo e i Comuni. La questione barracellare, a cura di G. Contu e L. Del Piano, Sassari 1994. Sulla figura di Giorgio Asproni cfr. M. Corrias Corona, Il canonico ribelle, Milano 1984, ma soprattutto G. Asproni, Diario politico, 1855-1876, profilo biografico di B. J. Anedda, introduzioni e note di C. Sole e T. Orrù, 6 voll., Milano 1974-1983.

[35] ) Cfr. L. Marrocu-M. Brigaglia, La perdita del Regno. Intellettuali e costruzione dell’identità sarda tra Ottocento e Novecento, cit.

 

 

[36] Sulla tematica relativa alla “fusione perfetta” si rimanda al saggio di I. Birocchi, La questione autonomistica dalla “fusione perfetta” al primo dopoguerra, in Storia d’Italia. Le Regioni dall’Unità a oggi. La Sardegna, a cura di L. Berlinguer e A. Mattone, cit., pp. 133-199.

[37] Cfr. L. Berlinguer e A. Mattone, L’identità della Sardegna contemporanea, in Storia d’Italia. Le Regioni dall’Unità a oggi. La Sardegna, cit., p. XXXIX.

 

[38] Cfr. G. B. Tuveri, Initium sapientiae. Ma chi oserà attaccare i campanelli al gatto?, in I problemi della Sardegna da Cavour a Depretis (1849-1876), a cura di L. Del Piano, Cagliari 1977, pp. 219-220.

[39] Cfr. S. Mosso, La prospettiva teologico-filosofica del trattato “Del dritto dell’uomo alla distruzione dei cattivi governi”, in G. B. Tuveri, Tutte le opere/1, cit., pp. 85-112; A. Accardo, G. B. Tuveri e la lotta politica nel Risorgimento, ivi, pp. 113-151.

[40] Cfr. L. Carta, L’inedito giovanile “Il Veggente” e la formazione del pensiero politico-filosofico di G. B. Tuveri, in G. B. Tuveri, Tutte le opere/1, cit., pp. 31-84.

[41] Cfr. G. Solari, Il pensiero politico di G. B. Tuveri. Un monarcomaco sardo del secolo XIX. Discorso inaugurale letto nell’Aula Magna della R. Università di Cagliari, in “Annuario della R. Università d Cagliari”, 1914-15, Cagliari 1915, pp. 3-127; Id., Per la vita e i tempi di G. B. Tuveri, in “Archivio Storico Sardo”, XI (1914-15), pp. 5-124. I due saggi ora anche in G. B. Tuveri, Tutte le Opere/6. Gioele Solari “Per la vita e i tempi di G. B. Tuveri” e altre opere, a cura di A. Delogu, Sassari 2002, pp. 215-313 e 63-214.

 

 

[42] Citato da L. Berlinguer e A. Mattone, L’identità della Sardegna contemporanea, in Storia d’Italia. Le Regioni dall’Unità a oggi. La Sardegna, cit., p. XLV.

 

[43] Ivi, p. XLVI.

[44] B. R. Motzo, Continuità storica della gente sarda, in “Il Ponte”, a. VII, N. 9-10, settembre-ottobre 1951, p. 1077.

[45] Ivi, p. 1078.

 

[46] Non ci dicano che noi [Sardi] siamo / ebrei, arabi o spagnoli: / dell’antica Roma / noi conserviamo e lingua e cuore. / Rimane il Logudoro / fermo, come i suoi nuraghi, / con la stirpe latina: / non ama teste di moro.

[47] Cfr. L. Carta, Bacchisio Raimondo Motzo e la storiografa antichistica in Sardegna, in “Quaderni bolotanesi”, N. 26, p. 7.

[48] Cfr. L. Carta, Macomer nel Settecento sabaudo, in “Quaderni bolotanesi”, N. 27, pp. 239-262, recensione a G. Cucca, Macomer: documenti cronache e storia di una comunità. Settecento sabaudo, Cagliari, 2000.

 

[49] Eccolo col bavero alzato / quello che un tempo a Cagliari era un nettacessi; / quando ha digerito ciò che ha ricevuto per carità dai suoi benefattori / non si ricorda più del bene che gli è stato fatto nel passato.

 

[50] S. Mannuzzu, Finis Sardiniae (o la patria possibile), in Storia d’Italia. Le Regioni dall’Unità a oggi. La Sardegna, cit., pp. 1243-1244.

 

 

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