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Una nuova raccolta documentaria sulla «sarda rivoluzione»: appunti e riflessioni per una più compiuta interpretazione del periodo 1793-1798.

Posted By cubeddu On 6 novembre 2019 @ 07:39 In Blog,Sa die de sa Sardigna,Senza categoria,Storia della Sardegna | Comments Disabled

Rubrica: ISTORIAS DE SARDIGNA contada dae Luciano Carta. Sa de bindighe

 

1. Negli ultimi venti anni la storiografia sulla Sardegna ha registrato un insolito fervore di studi sull’ultimo decennio del Settecento, che ha il suo epicentro nel «triennio rivoluzionario sardo», scandito da tre momenti cruciali: l’invasione francese nel 1793, la cacciata dei piemontesi nel 1794 e le sollevazioni antifeudali nel 1795-96 culminate nella sfortunata epopea di Giovanni Maria Angioy. Sull’onda delle celebrazioni bicentenarie della Rivoluzione francese, la storiografia sarda ha sviluppato una riflessione su questo evento epocale della storia dell’Occidente, rivisitando le vicende storiche locali alla luce della ‘mentalità’ del secolo dei lumi e delle conquiste della Grande Rivoluzione e individuando in quel momento cruciale della storia europea, che segna tradizionalmente l’inizio dell’età contemporanea, l’alba della Sardegna contemporanea.

Non è facile fare un’analitica rassegna di tutti i contributi sull’argomento apparsi dal 1988 ad oggi, soprattutto se tra questi si volessero comprendere, oltre ai libri e agli articoli di riviste, anche gli articoli apparsi sui quotidiani locali, che spesso hanno offerto un contributo significativo di idee e di critica. Sarà sufficiente soffermarsi sulle iniziative e sui contributi più significativi e su quelli che, a giudizio di chi scrive, hanno dato un apporto del tutto nuovo sia sotto il profilo dell’interpretazione che della documentazione

Le iniziative di studio più significative sulla fine del Settecento sardo hanno preso l’avvio con il convegno promosso dall’Amministrazione comunale di Bono nel dicembre 1988 su Giovanni Maria Angioy e i suoi tempi (15-17 dicembre 1988), in occasione del centottantesimo anniversario della sua morte; sono seguite le numerose iniziative di «Archivio sardo», la rivista diretta da Girolamo Sotgiu scomparso nel 1996, che ha promosso, insieme all’Amministrazione comunale di Santa Teresa di Gallura, il convegno di studi La Rivoluzione sulle bocche. Francesco Cilocco e Franceso Sanna Corda ‘giacobini’ in Gallura (1802), svoltosi il 14-15 giugno 1991 e, tre anni dopo, il convegno internazionale di studi Francia e Italia negli della Rivoluzione, svoltosi a Quartu Sant’Elena e a Cagliari nell’aprile del 1994 in occasione del bicentenario della cacciata dei piemontesi, con la partecipazione di studiosi italiani e francesi; si sono concluse con il convegno Patriottismo e costituzionalismo nella «sarda rivoluzione». L’Alternos Giovanni Maria Angioy e i moti antifeudali (26-27 aprile 1996), organizzato dall’Università di Sassari, con il contributo del Comune di Sassari e della Regione Autonoma della Sardegna. Dei primi tre convegni sono stati pubblicati gli atti (1).

I saggi e gli articoli sull’argomento apparsi dal 1988 ad oggi, tanto numerosi da rendere problematica una puntuale ricognizione bibliografica, presentano impostazioni metodologiche e tematiche diversificate. Molti hanno seguito la tradizionale e frequentatissima strada della storia politica e sociale; qualcuno ha egregiamente dissodato il terreno della storia delle istituzioni, pochi hanno timidamente aperto il varco della storia delle idee ed anche, sulla falsariga della storiografia ‘annalistica’, della ’mentalità’;  diversi hanno offerto importanti contributi sul versante della pubblicazione di fonti sinora ignorate o poco note (2). Si è trattato, in generale, di un importante e valido lavoro critico rivolto ad un periodo della nostra storia che ha costituito a lungo, e per certi versi costituisce ancora, un momento storico attraverso il quale si sono confrontate e spesso scontrate, sul terreno dell’interpretazione storiografica, concezioni politiche ed ideologiche diverse e talvolta contrapposte, dettate in modo troppo marcato dai bisogni e dalle contingenze del presente. Lo studioso che volesse cimentarsi nello studio della storia della storiografia angioiana non faticherebbe molto a rendersi conto che, nelle ricostruzioni delle vicende storiche della Sardegna di fine Settecento, passano gli orientamenti ideali e le battaglie politiche di momenti diversi della nostra storia contemporanea. Quelle vicende hanno rappresentato il terreno sul quale i ‘maestri’ della conoscenza storica hanno veicolato ‘visioni del mondo’ ora reazionarie ora moderate ora progressive. Inoltre, poiché la ricerca dei ‘valori’ in ambito storico s’incarna sempre in questo o in quel personaggio, ne è scaturita, nell’arco di due secoli di storiografia, la mitizzazione, in senso ora positivo ora negativo, di Giovanni Maria Angioy, a torto considerato la sola figura emergente e significativa del periodo.

La storiografia più recente ha contribuito non poco a spostare l’attenzione dalla figura mitizzata dell’Angioy alle cause strutturali dei sommovimenti politico-sociali del periodo; alla formazione culturale degli uomini che hanno guidato quei moti che furono insieme antipiemontesi antifeudali e antiassolutisti; al profondo significato autonomistico che sottende la reviviscenza dell’attività degli Stamenti, i bracci dell’antico Parlamento cetuale non più convocato da un secolo; alla ‘mentalità’ degli uomini di quel tempo e conseguentemente alla circolazione in Sardegna, reale per quanto limitata, delle ‘idee francesi’ e più in generale di una visione del mondo in sintonia col secolo dei lumi e con i valori e  le conquiste dell’Ottantanove; al protagonismo politico della nascente borghesia, delle plebi cittadine e delle masse contadine. Ne è emerso un quadro, ancora in via di definizione e di completamento, molto vivace e dinamico, in cui ad una rappresentazione eroica del periodo è succeduta una rappresentazione articolata di tutte le componenti della società, con le loro passioni, i loro progetti, le loro contrapposizioni: in breve una storia non di eroi ma di uomini in carne ed ossa.

Tra i lavori più recenti, alcuni hanno aperto nuovi campi di ricerca: il volume di Italo Birocchi, La carta autonomistica della Sardegna tra antico e moderno. Le «leggi fondamentali» nel triennio rivoluzionario (1793-96) (1992); i quattro saggi scritti in collaborazione da Antonello Mattone e Piero Sanna, I Simon, una famiglia di intellettuali tra riformismo e restaurazione (1994), Giovanni Maria Angioy e un progetto sulla storia del «diritto patrio» del Regno di Sardegna (1802) (1994); La «rivoluzione delle idee»: la riforma delle due Università sarde e la circolazione della cultura europea (1764-1790) (1998), La «crisi politica» del Regno di Sardegna dalla rivoluzione patriottica ai moti antifeudali (1999); i lavori di Federico Francioni, fra cui la raccolta di saggi Per una storia segreta della Sardegna fra Settecento e Ottocento (1996); il volume 24° della collana «Acta Curiarum Regni Sardiniae», L’attività degli Stamenti nella «sarda rivoluzione» (1793-1799), a cura di chi scrive, pubblicato nel 2000.

Al di là delle differenze di impostazione tematica e metodologica, è possibile individuare almeno tre grandi temi che accomunano gli autori di quella che potremmo chiamare la nuova storiografia sulla fine del Settecento sardo:

1) La Sardegna di fine Settecento non è avulsa sotto il profilo ideologico, politico ed economico, dalla temperie culturale dell’Europa del periodo, come pure numerosi autori nel passato e in tempi a noi più vicini hanno sostenuto.

2) La stagione della «sarda rivoluzione» di fine Settecento non si risolve nella rivendicazione di interessi particolari e neppure in scomposte sommosse di plebi cittadine affamate o in tumultuose jacqueries di contadini, ma è il risultato di una piattaforma politica, complessa per la diversità delle istanze che rappresenta, ma coerente nei suoi obiettivi di fondo; una piattaforma politica che fondandosi sul riconoscimento di una specificità politica e culturale della nazione sarda, rivendica una autonomia a tutto campo ed elabora un piano di riforma della società e dello Stato di carattere progressivo intonato alla mentalità dei tempi.

3) La piattaforma politico-ideologica del periodo, soffocata e ferocemente repressa dal governo sabaudo, è rimasta sommersa ma viva lungo tutto il cinquantennio della Restaurazione, per riaffiorare agli albori del Risorgimento e per informare di sé l’ideologia e l’azione politica della componente democratica dell’intellettualità sarda, che annovera tra i suoi componenti più rappresentativi Giorgio Asproni e Giovanni Battista Tuveri.

 

 

2. Gli anni della «sarda rivoluzione» 1793-1796 rappresentano ancora oggi un periodo di difficile interpretazione e ricostruzione storica, nonostante i grandi passi avanti fatti dalla ricerca storica nell’ultimo ventennio, grazie soprattutto alle nuove cospicue acquisizioni documentarie relative all’attività degli Stamenti.

La difficoltà della ricostruzione storica dipende in primo luogo dagli avvenimenti stessi, per la loro complessità, una certa contraddittorietà di comportamento dei protagonisti, la passionalità viscerale con cui sono stati vissuti, l’incalzare degli eventi che imponeva un continuo adattamento di progetti politici e di coordinate ideologiche, le repentine e profonde fenditure che si verificarono nel breve periodo del triennio rivoluzionario sardo (1793-1796) tra le forze sociali che ne furono protagoniste, diverse per interessi e per obiettivi politici, anche se durante e dopo la vittoriosa guerra contro l’invasione francese nel 1793 avevano trovato un comune terreno d’intesa nella nebulosa cornice dell’unità patriottica. Siamo in presenza delle dinamiche proprie di ogni rivoluzione; nel caso specifico, di quella che viene definita la «sarda rivoluzione».

In secondo luogo la difficoltà della ricostruzione storica dipende dalle differenti e talvolta contrapposte valutazioni che di quell’importante periodo hanno dato gli storici, i quali lo hanno spesso rivestito di sembianze che non gli appartenevano, ora denigrando ora esaltando oltre misura l’evento e i suoi protagonisti. Da una parte Giuseppe Manno, massimo storico sardo dell’Ottocento e uomo di convinzioni politiche moderate, il capostipite dei denigratori della «sarda rivoluzione» ha offerto nella Storia moderna (3), un superbo e ancora oggi insuperato affresco in negativo delle vicende dell’ultimo decennio del Settecento sardo, ai cui protagonisti egli ascrive la responsabilità di essersi invischiati nelle maglie dei chimerici princìpi dell’Ottantanove; dall’altra parte, uomini di spiriti liberali, tra i quali spicca nella seconda metà dell’Ottocento l’illustre giurista e uomo politico sassarese Francesco Sulis, desiderosi di riscattare la rivoluzione sarda di fine Settecento dalla luce sinistra in cui l’aveva collocata la storiografia della Restaurazione, ne fecero l’improbabile incunabolo del triennio giacobino italiano (1796-1799), il luogo storico in cui attecchì il seme dei «grandi veri» della Rivoluzione francese (4).

Come avviene spesso per i momenti cruciali della storia dei popoli, anche la «sarda rivoluzione» di fine Settecento è divenuta oggetto preferito della ricerca storica e agone privilegiato di contrapposte scuole di pensiero politico. Il risultato di un approccio così marcatamente ideologico a questo argomento, il cui termine di paragone, in positivo o in negativo, è rappresentato dalla Rivoluzione francese, è stato quello, secondo la felice intuizione di Antonello Mattone e di Piero Sanna, di «offuscarne i tratti essenziali di rivoluzione ‘patriottica’ di Antico Regime» (5).

L’interpretazione che i due studiosi sassaresi hanno recentemente proposto della rivoluzione sarda di fine Settecento, convincente e solidamente argomentata, fa tesoro del ricco fervore di ricerche e di studi che all’argomento hanno dedicato nel secondo dopoguerra illustri storici, come Antonio Era, Franco Venturi, Carlino Sole, Lorenzo Del Piano, Tito Orrù, Girolamo Sotgiu e, in tempi a noi più vicini, Giuseppe Ricuperati, Italo Birocchi e Federico Francioni.

Alla luce di uno studio organico delle vicende della fine del Settecento, attento alla complessità e alla specificità dei fenomeni storici, Mattone e Sanna ritengono che «la sarda rivoluzione non è […] una sorta di anticipazione del triennio repubblicano italiano ma piuttosto l’ultima significativa rivoluzione patriottica del Settecento, ancora indissolubilmente legata alle dinamiche sociali, alla cultura e alla prassi istituzionale di antico regime» (6).

Questa interpretazione, fondata su solide fonti documentarie e su un corretto inquadramento delle peculiarità proprie della società sarda di fine Settecento, non è condivisa da quegli studiosi i quali ritengono di individuare nella «sarda rivoluzione» lo snodo cruciale della storia contemporanea della Sardegna, che ne ricongiunge le aspirazioni e le idee con le aspirazioni e le idee della Rivoluzione francese. Tra questi studiosi, i contributi più significativi sono dovuti a Federico Francioni. Egli, attraverso una lettura ‘militante’ della rivoluzione sarda, che fa riferimento alla lezione di due maestri della storiografia contemporanea, Lucien Febvre e Marc Bloch, per cui «l’indagine sul passato serve a chiarire la situazione contemporanea» (7), si sforza di individuare e valorizzare all’interno della rivoluzione sarda, tutti quegli elementi dell’ambiente politico, economico e culturale della Sardegna che maggiormente si avvicinano alle esperienze più avanzate e progressive della Rivoluzione francese. Da questa lettura emerge una «sarda rivoluzione» fortemente venata di giacobinismo. «Col termine giacobino – scrive Francioni – non dobbiamo limitarci ad indicare, puristicamente ed astrattamente i seguaci di Robespierre e di Saint Just; più in generale possiamo fare riferimento anche a coloro che assunsero come modello da seguire la Francia repubblicana, lottando in modo intransigente contro l’Antico Regime. Non c’è dubbio che in Sardegna comparvero dei repubblicani filofrancesi, che combatterono il sistema feudale ed assolutistico con le armi in pugno; per questo si possono definire giacobini. […] Non dimentichiamo, come ha scritto Michel Novelle, che il giacobinismo è anche una mentalità: essa emerge senz’altro dalla continuità e dalla inflessibilità dell’azione, insomma dalla ’militanza’ propria, se non dell’Angioy, certo del notaio cagliaritano Francesco Cilocco e dell’avvocato sassarese Gioacchino Mundula» (8).

 

 

3. L’aspetto del triennio rivoluzionario sardo su cui si è concentrata maggiormente l’attenzione degli studiosi e che ha prodotto la raccolta e la pubblicazione di una mole imponente di documenti, è stato quello relativo all’attività degli Stamenti. Nel 2000 ha infatti visto la luce, a cura dell’autore di questa introduzione, il volume 24° della collana «Acta Curiarum Regni Sardiniae», opera in quattro tomi dedicata all’attività degli Stamenti negli anni 1793-1799 (9).

Le assemblee stamentarie di fine Settecento non hanno goduto nella storiografia di studi specifici e di adeguata valutazione. Giuseppe Manno, che pure ne loda la generosa tempestività nell’accorrere in difesa del suolo nazionale e ne riconosce il ruolo istituzionale, sempreché si eserciti entro il binario della consolidata pratica di governo di un illuminato assolutismo – «gli Stamenti non hanno autorità veruna: sono corpi abilitati a chiedere ed a rispondere al sovrano, tutt’al più a dargli consulta» (10) – ne condanna aspramente l’operato quando, a partire dalla sollevazione antipiemontese del 28 aprile 1794, le assemblee stamentarie si rendono interpreti delle aspirazioni del popolo sardo e guidano di fatto il governo dell’isola con l’assecondare le spinte innovative, motivo per il quale esse si sarebbero poste in balia di quella che sprezzantemente egli stigmatizza come «tirannia plebea» (11).

Il Sulis, dal canto suo, in una lucida lezione tenuta nell’Ateneo sassarese nel 1854, attraverso un’improponibile ed anacronistica omologazione dell’antico Parlamento sardo con l’istituto parlamentare di uno stato costituzionale fondato sui princìpi del moderno liberalismo, contestava ad esso la legittimità di rappresentare la nazione sarda, attesa la sua composizione cetuale che escludeva «il principio della elezione dei suoi membri da un corpo politico elettorale» (12); nel saggio Dei moti politici dell’isola di Sardegna, inoltre, Sulis giudicava quell’istituto della costituzione sarda di Antico Regime incapace di interpretare e portare a compimento le trasformazioni politiche che la società sarda di fine Settecento reclamava, e ne denunciava «l’impotenza a grandi concetti politici» (13).

Tra i contemporanei, Carlino Sole, che ha considerevolmente contribuito ad illustrare con fondamentali lavori la storia della Sardegna nel secolo XVIII, ha costantemente ribadito «la regola di una Sardegna pressoché chiusa ad ogni fermento di rivoluzione politica» (14). In merito all’attività delle assemblee stamentarie e alla nota piattaforma politica delle «cinque domande», che prevedeva in primo luogo il ripristino della convocazione decennale del Parlamento, asserisce: «La classe dirigente sarda non si rendeva conto che, chiedendo la conferma degli antichi privilegi e il ripristino integrale del Parlamento spagnolo, senza alcun adeguamento della rappresentanza da questo espressa allo spirito dei nuovi tempi, si faceva un gran passo indietro, si ignoravano le attese innovatrici alimentate da trent’anni di riformismo illuminato e si condannava ad una fatale involuzione la spinta rivoluzionaria che la nuova posizione di guida assunta dagli Stamenti in un momento difficile sembrava voler imprimere alle forze reali» (15).

Nonostante la perentorietà di queste affermazioni, relativamente al problema storiografico della reviviscenza stamentaria di fine Settecento, Carlino Sole ha tuttavia, molto saggiamente, fatto professione di sano scetticismo, ha assunto un corretto atteggiamento di epoché storica, sostenendo la necessità di procedere a ulteriori acquisizioni documentarie tali da consentire un giudizio più approfondito. Egli stesso ha pubblicato i processi verbali dello Stamento militare dal 4 al 21 gennaio 1793, che asserisce di aver desunto da un prezioso manoscritto, da lui integralmente trascritto nei primi anni Cinquanta, che gli era stato consegnato dall’illustre giurista Antonio Era e che apparteneva in origine alla collezione algherese Simon-Lavagna. Riprendendo nelle brevi note introduttive a questa edizione di fonti il discorso relativo alla disparità di giudizi della storiografia passata e recente sull’attività degli Stamenti di fine Settecento, Sole osservava che se è corretto ricondurre tale disparità alla «differente connotazione culturale e ideologica dei singoli studiosi», non è meno corretto asserire che quella disparità è da riferire anche «alla scarsezza di fonti edite e alla dispersività e frammentarietà (e, quindi, alle obiettive difficoltà di consultazione diretta) delle molte e inedite altre fonti». In sostanza egli osservava molto a proposito che quanti a vario titolo si sono occupati dei moti rivoluzionari in ordine all’attività parlamentare, si sono rifatti alla «diffusa ma non obiettiva narrazione del Manno» o ad una «tardiva e riassuntiva compilazione di Vittorio Angius» (16). Auspicava pertanto che gli studiosi, accantonando la sterile consuetudine di «rifarsi a citazioni di seconda e terza mano» (17), si dedicassero con rinnovata lena a ricercare i testi autentici dei processi verbali delle sessioni stamentarie tenutesi dal 1793 al 1799, passo obbligato per una più onesta e più compiuta valutazione storica del periodo in generale e delle assemblee stamentarie in particolare. Pago di aver aperto la strada, egli si rammaricava solamente «di non poter riprodurre per intero la serie dei verbali di tutti e tre gli Stamenti, che pure da qualche parte dovevano esistere» (18).

L’onere di progettare la ricerca e di avviare la raccolta sistematica degli atti stamentari fu affidata, nell’ambito della collana Acta Curiarum, a Girolamo Sotgiu ed egli l’ha in gran parte realizzata con la collaborazione di chi scrive e di Aldo Accardo (19). Sin dagli anni Settanta l’illustre storico, scomparso nel marzo 1996, aveva dedicato un’attenzione particolare alle vicende della Sardegna di fine Settecento, segnalando l’importanza di quel momento cruciale della nostra storia, in cui egli individuava i germi della contemporaneità, impostandone lo studio secondo categorie interpretative nuove e originali, rivalutando l’importanza delle assemblee stamentarie nel complesso periodo del triennio rivoluzionario sardo, sebbene fondasse la sua ricostruzione su una documentazione archivistica già nota, sull’opera del Manno e sulla ormai vastissima storiografia. Egli richiamava anzitutto l’attenzione su un grave limite della storiografia sarda, che, sul presupposto di una malintesa e non meglio definita ‘specificità’ dell’isola, dimenticava che la storia della Sardegna della fine del Settecento, come di qualunque altro periodo, non può essere compresa se non viene inquadrata nel più vasto panorama della storia italiana ed europea (20).

Si sforzava inoltre di individuare le cause strutturali dell’arretratezza della Sardegna, l’incidenza e i limiti del riformismo sabaudo, le motivazioni economiche, politiche e culturali che stavano alla base del rivendicazionismo autonomistico di fine Settecento, le forze sociali che se ne fecero interpreti. Secondo Sotgiu il riformismo sabaudo della seconda metà del secolo XVIII ebbe sulla società isolana un impatto decisamente positivo, che si tradusse in una complessiva per quanto limitata crescita economica e demografica e in un sensibile elevamento del grado di cultura specie tra le classi abbienti; avviò l’ammodernamento della struttura produttiva e la razionalizzazione dell’apparato amministrativo; favorì la crescita di una moderna per quanto poco intraprendente borghesia cittadina e terriera. Tale politica di riforme, funzionale ad un «assolutismo cieco e retrivo» e a un regime coloniale di governo che comportò una «alterazione arbitraria delle istituzioni esistenti» (21), non poté agire in profondità nella società isolana e nelle sue strutture produttive, che mantenne inviluppate nell’anacronistico sistema feudale; soprattutto non fu capace, dopo averne creato le premesse, di corrispondere alle aspettative della nuova intellettualità locale che, resa più cosciente della propria identità e dei propri diritti, aspirava legittimamente ad un coinvolgimento diretto nel governo dello Stato. Tale riformismo si risolse, dunque, secondo la definizione di Sotgiu, in una «razionalizzazione senza riforme» (22).

L’interpretazione del riformismo sabaudo proposta da Sotgiu, che ha come punto di riferimento la Rivoluzione francese ed è connaturata ad una concezione fortemente contestativa del rapporto tra centro e periferia nell’ambito dello Stato moderno, risulta oggi, alla luce dei più recenti studi che egli ha contribuito a rinnovare, alquanto riduttiva per mettere a fuoco il complesso rapporto tra Piemonte e Sardegna nella seconda metà del Settecento. Quella interpretazione presenta il limite di connotare come «coloniale» la politica di riforme dei monarchi illuminati negli Stati italiani del secolo XVIII, solo perché promossa dal potere centrale.

Già nella metà degli anni Ottanta Giuseppe Ricuperati, rivalutando una caratteristica della concezione politica e storiografica del Manno e facendo tesoro dei magistrali studi di Franco Venturi sul Settecento riformatore (23), osservava che un corretto approccio storiografico al riformismo settecentesco non poteva avere come unico punto di riferimento i valori e le conquiste politiche della Rivoluzione francese, alla luce dei quali il riformismo illuminato non poteva che apparire un progetto politico inadeguato e perdente. Il riformismo settecentesco, in particolare quello sabaudo, doveva  al contrario essere considerato «dall’interno» della concreta realtà della Sardegna, periferia in situazione di grande arretratezza, per valutarne i risultati non tanto alla luce delle successive conquiste rivoluzionarie, quanto degli altri modelli di riforma attuati negli Stati italiani, ad esempio quello asburgico e quello borbonico. Con riferimento all’interpretazione di Sotgiu, ma anche di Bulferetti, Sole e Scaraffia, autori che partendo da ottiche diverse erano approdati a identiche conclusioni (24), Ricuperati scriveva: «Mi sembra di poter cogliere un residuo di moralismo, spesso in realtà superato dalle cesure interne, per il quale si tende a giudicare una realtà complessa e difficile, come quella che lo Stato sabaudo si trovò ad affrontare in Sardegna, sulla base del senno di poi, che in questo caso è l’eversione feudale, la quale venne teorizzata, è vero, negli ultimi decenni dell’antico regime (e perfino cautamente sperimentata, precocemente e in forme controllate, in Sardegna), ma che, avendo aperto contraddizioni incontenibili nel modello riformistico giuseppino e asburgico, era destinata a diventare una scelta concreta solo con la rivoluzione francese. E’ in questa direzione che intendo riaprire la discussione. Credo che una valutazione più articolata del rapporto tra Piemonte e Sardegna nel Settecento debba partire dai seguenti presupposti: per prima cosa considerare il progetto politico non con le lenti di un futuro inevitabilmente lontano e imprevedibile, ma in confronto col suo presente, cioè con gli altri modelli riformistici in corso, quello borbonico e quello asburgico. Per seconda cosa, tener conto della concreta realizzabilità del progetto, senza sovrapporvi immaginazioni che nascano dal nostro senno di poi. Per ultima, misurare solo a questo punto in termini di lungo periodo i problemi ai quali non si diede risposta, tenendo presente che spesso anche ciò che immediatamente non si realizzava con una carica trasformatrice rilevante, conteneva premesse di modificazioni future. Cerchiamo di esemplificare per chiarezza: il termine di confronto non può essere la rivoluzione francese e le sue scelte più radicali, ma ciò che capita negli spazi italiani e in Europa negli stessi decenni. In questo senso i modelli politici che si delineano a partire dal primo Settecento sono: la strategia delle riforme di Vittorio Amedeo II e Carlo Emanuele III, il riformismo austriaco e le sue fasi, fino a Maria Teresa, quello borbonico di Carlo III, Tanucci e Du Tillot» (25).

Sulla base di questa ipotesi storiografica, le cui premesse erano presenti in due lavori di Venturi sulla Sardegna apparsi tra gli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta, nel fondamentale saggio di Luigi Berlinguer su Domenico Alberto Azuni apparso nel 1966 e nei più recenti lavori di Emanuela Verzella sull’Università di Sassari (26), Mattone e Sanna hanno offerto in un importante saggio pubblicato sulla «Rivista Storica Italiana», un’interpretazione nuova e avvincente del riformismo sabaudo nella Sardegna del Settecento, valutandone gli esiti nell’ottica della «lunga durata». Concentrando l’attenzione su quella che può considerarsi la vera grande riforma tra quelle volute dal ministro Lorenzo Bogino, ossia la riforma dell’istruzione primaria nel 1760 e delle due Università di Cagliari e di Sassari nel 1764-1765, i due studiosi hanno analiticamente ricostruito il percorso attraverso il quale la società sarda nella seconda metà del Settecento, disancorandosi dalle secche della ormai asfittica cultura iberica, si rinnova profondamente immettendosi nel circuito vitale della cultura italiana ed europea. Ciò grazie alla lenta ma progressiva introduzione della lingua italiana nelle scuole primarie e soprattutto alla folta schiera di docenti universitari «forestieri» che il Bogino aveva mandato in Sardegna dalla Dominante, che  lungo un trentennio furono i promotori del rinnovamento della cultura. Alla loro scuola si formò una nuova classe di intellettuali, che in quella nuova temperie culturale maturò la coscienza di un nuovo «patriottismo», terreno di coltura del risveglio della coscienza autonomistica nel triennio rivoluzionario. Secondo i due studiosi sassaresi, nel trentennio che precedette la «sarda rivoluzione» del 1793-1796, la società isolana è stata lentamente e irreversibilmente pervasa da una rivoluzione meno appariscente, ma non per questo meno importante, di quella di fine secolo: la «rivoluzione delle idee», che rappresenta il vero incunabolo della rivoluzione politica degli anni Novanta. «In realtà – secondo Mattone e Sanna -  nella Sardegna degli anni Ottanta si assiste alla progressiva diffusione di un sentimento ‘patriottico’ che affondava le sue radici nel crescente malessere dei gruppi dirigenti locali e traeva alimento dalla penetrazione della cultura europea e dalla più ampia circolazione delle idee innescata dal rinnovamento degli studi. Mentre la politica sabauda verso la Sardegna ripiegava su schemi di ordinaria amministrazione e lasciava che il ministero e il governo viceregio apparissero via via sempre più chiusi e autocratici, confusamente le nuove generazioni di letterati licenziati dagli atenei riformati, educate ai valori della ’pubblica felicità’ ed animate da un rinnovato spirito di servizio per la monarchia, ricercavano nel confronto con le grandi correnti ideali dell’Europa settecentesca una propria identità culturale e civile. Così, attraverso i modelli culturali dell’Arcadia veniva riscoperta la ’musa’ locale; nello spirito muratoriano venivano rivisitate le vicende storiche della Sardegna; alla luce delle opere del giusnaturalismo, del contrattualismo e dell’illuminismo italiano e francese (Muratori, Montesquieu, Filangieri etc.) venivano studiate le leggi fondamentali e i privilegi del Regno; nel confronto con l’italiano e con il purismo della Crusca veniva rivalutato e ripulito l’idioma nazionale; facendo tesoro delle acquisizioni scientifiche del secolo s’iniziavano a studiare le risorse e la storia naturale dell’isola. Tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta una vera impennata di ‘patriottismo’ infiammò i letterati locali di fronte ai superficiali giudizi negativi espressi sulla Sardegna da alcuni osservatori forestieri, che spesso non avevano visitato l’isola» (27).

Il riformismo sabaudo del secondo Settecento costituì, dunque, l’antecedente dei moti rivoluzionari degli anni Novanta. Delle istanze più significative di cui tali moti furono portatori, in particolare la forte coscienza dell’identità nazionale, la rivendicazione dell’autonomia politica del Regno sardo e della pari dignità nell’ambito degli Stati della monarchia sabauda, l’affermazione della capacità di autogoverno da parte della classe dirigente isolana, si fecero legittime interpreti le assemblee stamentarie, prima con la piattaforma politica unitaria delle «cinque domande» e successivamente con la partecipazione di fatto, negli anni 1794-1796, all’attività di governo, quando gli Stamenti e il popolo cagliaritano imposero una sorta di dittatura parlamentare e diedero ai loro atti «un tono che potremmo quasi definire, con le cautele necessarie, di assemblea costituente» (28).

Su questa linea interpretativa si era già inserito il fondamentale saggio di Italo Birocchi, La carta autonomistica della Sardegna tra antico e moderno (1992), profonda analisi delle istituzioni del Regno di Sardegna di Antico Regime, prevalentemente impegnata sul versante storico-giuridico, che si avvale anche di nuove fonti documentarie. Secondo l’analisi di Birocchi, il significato complessivo dell’operato delle assemblee stamentarie durante il «triennio rivoluzionario» e la piattaforma politica delle «cinque domande» in particolare, risiede nella rivendicazione forte e decisa della nazione sarda intesa come «soggetto politico, cosciente dei propri diritti» (29); consiste nel ribadire che sotto il profilo giuridico la forma di governo della Sardegna è una monarchia mista, in cui il Regnum si trova in posizione autonoma rispetto al sovrano. Conseguentemente, sotto il profilo politico, la sfera di esercizio della sovranità si configura come una diarchia che comporta una compartecipazione nell’esercizio del potere. Il richiamo al rispetto delle «leggi fondamentali» e dei «privilegi» e la richiesta degli impieghi ai soli sardi non significano, come pure è stato scritto, indulgere a «rivendicazioni particolaristiche e classiste» (30); il nocciolo della piattaforma delle «cinque domande» consiste nella «richiesta di osservare le «leggi fondamentali» del Regno, perché questo significa precisare la sfera di esercizio della sovranità sabauda ed affermare un potere concorrente e originario del Regnum» (31). Richiamare il rispetto dei «privilegi» – che nel linguaggio giuridico e nelle istituzioni di Antico Regime s’identificano con le ‘guarentigie’ o le ‘libertà’ sempre rivendicate dai corpi intermedi contro i governi assoluti – significava «rivendicare un sistema normativo in cui la funzione primaria non era svolta dalla volontà del principe che si fa legge, bensì dal concorrere di più poli protagonisti del processo normativo, concepiti come soggetti di un ordinamento policentrico» (32).

E’ proprio sulla rivendicazione dell’autonomia del Regno, sul rispetto della «carta autonomistica» secondo l’espressione di Birocchi, che s’impernia l’azione del «partito patriottico». La piattaforma politica autonomistica, scrivono Mattone e Sanna, «costituì l’asse portante del movimento ‘patriottico’ per l’intero triennio rivoluzionario sardo»; e la vicenda del partito patriottico «ricalca la parabola complessiva della rivoluzione sarda» (33): di essa le assemblee stamentarie furono l’interprete e il motore. Attraverso il vetusto strumento istituzionale dell’ordinamento parlamentare una nuova classe dirigente sarda, costituita in prevalenza dai ceti emergenti della borghesia delle professioni e dalla piccola nobiltà cittadina e rurale, i cui organi di rappresentanza erano costituiti dagli Stamenti militare e reale, si affermarono le istanze politiche nuove del «triennio rivoluzionario sardo». Soprattutto all’interno degli Stamenti militare e reale è possibile individuare in maggior numero gli homines novi della classe dirigente sarda, rappresentata da un numero cospicuo di esponenti della piccola nobiltà e del cavalierato rurali e dalla borghesia delle professioni che ai due Stamenti facevano capo. Non deve dunque apparire strano, ci sia consentita la metafora, che il vino nuovo sia stato versato in botti vecchie. Anche la Grande Rivoluzione ha avuto il suo preambolo negli Stati Generali, ha preso l’avvio nel Parlamento di Antico Regime. Ricade fuori da ogni corretta metodologia storica presupporre aprioristicamente «l’impotenza» di un antico ordinamento a fungere da motore di un processo innovativo, soprattutto quando i fatti ne testimoniano la vitalità.

Analoghe considerazioni svolgeva Antonio Era, uno tra i più acuti studiosi delle nostre antiche istituzioni, nel discorso pronunziato il 1° dicembre 1946 per l’inaugurazione dell’anno accademico dell’Università di Sassari (34). Contestando l’errore di prospettiva che stava alla base del giudizio che Francesco Sulis aveva dato della reviviscenza dell’istituto parlamentare di fine Settecento, errore già rilevato negli studi di Giovanni Zirolia e di Antonio Marongiu (35), Era riconosce in primo luogo che il Parlamento di Antico Regime, nei paesi in cui durante l’Età Moderna fu vigente, fu «forse il più efficace dei vari correttivi dell’assolutismo […] uno degli argini, protettivi per quanto era allora possibile perché i soli concepibili, che si ammettevano idonei ad impedire la degenerazione dell’assolutismo in dispotismo» (36). Quanto all’azione politica delle assemblee stamentarie sarde di fine Settecento, egli afferma, sviluppando un’intuizione di Francesco Loddo Canepa, che l’opera loro, pur in assenza di una riforma di struttura e di attribuzioni, soprattutto a partire dall’aprile 1794 e fino agli inizi del 1796, «in riguardo alla loro composizione, alla loro funzione, ai loro diritti fu fondamentalmente innovatrice della vecchia costituzione dello Stato, fu, in confronto ad essa, apertamente rivoluzionaria» (37). L’esame della copiosa documentazione – che egli ben conosceva per averla a disposizione, compresi i processi verbali dello Stamento reale dal 29 aprile al 7 luglio 1793, che chi scrive non è purtroppo riuscito sinora a rintracciare – lo induceva a ritenere che la reviviscenza stamentaria di fine Settecento, qualificata dal Loddo Canepa «rivoluzione stamentaria», rappresentò un vero e proprio sovvertimento istituzionale. «Si deve riconoscere – egli scrive – che gli Stamenti attuarono una vera e propria usurpazione di funzioni e di poteri. Essi, che abbiamo riconosciuto [nel 1793] ossequienti fino alla meticolosità al formalismo prescritto per le loro adunate, se ne svincolano [nel 1794-96] e procedono per vie sempre nuove, ma, allo stato di una intelaiatura costituzionale non mai abrogata, prettamente illegali e arbitrarie – ho detto: rivoluzionarie» (38).

Sono questi gli esiti più significativi della ricerca storica sulla «sarda rivoluzione» di fine Settecento; una ricerca che è stata di stimolo anche alla pubblicazione di importanti contributi biografici su gran parte dei protagonisti ma anche di figure minori di quella vicenda, come testimonia il volume di Vittoria Del Piano, Giacobini moderati e reazionari in Sardegna (39); a minuziose ricerche di storia locale, tra cui si distingue il pregevole contributo di Giovanni Cucca sul Settecento macomerese (40); a ricostruzioni in chiave di drammatizzazione storica delle vicende del triennio; infine alla edizione critica dell’inno Procurade ‘e moderare barones sa tirannia (41) e alla recentissima raccolta in volume degli studi di Antonello Mattone e Piero Sanna (42).

Minore attenzione è stata rivolta alla ricerca documentaria e alla ricostruzione storica degli esiti della «sarda rivoluzione», alla vicenda biografica e all’attività di Giovanni Maria Angioy negli anni dell’esilio e più in generale degli angioiani, alle vicende del Sulis, alle congiure di fine Settecento e a quella di Palabanda del 1812, sebbene anche in tutti questi ambiti siano apparsi, insieme a ricostruzioni generali, i pregevoli lavori monografici e letterari di Federico Francioni, di Antonello Mattone e Piero Sanna, di Giuseppe Marci e Leopoldo Ortu, di Maria Pes (43).

Su uno dei momenti cruciali della vicenda biografica dell’Angioy, offre un apporto di forte novità, come vedremo, la documentazione raccolta dal generale Alberto Lo Faso.

 

 

4. Come sempre accade per i periodi storici complessi e di particolare rilevanza, la ricerca storica costituisce un cantiere sempre aperto e le interpretazioni storiografiche come le acquisizioni documentarie continuano nel tempo, contribuendo ad arricchire sempre più  e a illuminare sempre meglio il quadro generale degli avvenimenti. Alle numerose acquisizioni documentarie relative al periodo dell’ultimo decennio del Settecento in Sardegna, si aggiunge ora, con questo volume, la lunga e pazientissima ricerca «a tappeto» che il generale Alberto Lo Faso ha condotto «in tutte le sezioni» (44) dell’Archivio di Stato di Torino, in cui potevano ragionevolmente essere conservati i documenti relativi alle vicende del «triennio rivoluzionario sardo» e in particolare quelli attinenti al personaggio che viene unanimemente considerato l’eroe eponimo della storia sarda di fine Settecento, Giovanni Maria Angioy.

Nella storia degli studi del periodo di fine Settecento in Sardegna non è la prima volta che uno studioso proveniente dalle file delle Forze Armate si cimenta nella ricerca storica. Nel 1931 il generale Pietro Martini aveva pubblicato nel volume XVIII dell’«Archivio Storico Sardo» un ampio saggio, corredato da una cospicua appendice documentaria, sulla spedizione della flotta francese contro la Sardegna nell’inverno del 1793. Il saggio, di carattere squisitamente militare, si proponeva di verificare, insieme all’entità delle forze e dei mezzi a disposizione dei contendenti, la capacità di resistenza e il reale stato della piazzaforte cagliaritana alla fine del secolo XVIII, anche al fine di formulare un giudizio storicamente più equanime sul viceré Balbiano, che secondo il Marini era stato con troppa leggerezza tacciato di eccessiva pusillanimità e irresolutezza in occasione del tentativo di invasione francese. Ne emergeva, anche a prescindere dal giudizio forse troppo fuori dal coro degli alti funzionari piemontesi che governarono l’isola in  quel periodo, un quadro puntuale e documentato sullo stato della difesa dell’isola e sul contingente francese, nonché sul ruolo decisivo svolto dagli otto battaglioni di truppe volontarie chiamate dagli Stamenti a difendere il litorale cagliaritano. La ricostruzione del ruolo avuto dagli otto battaglioni di volontari, la cui consistenza e il cui utilizzo nel teatro della guerra venivano analiticamente indicati, si fondava su materiali di fondamentale importanza, quali erano gli atti stamentari e le superstiti relazioni di alcuni dei comandanti, desunte dalle carte conservate nell’Archivio Storico del Comune di Cagliari, che venivano integralmente pubblicate in appendice (45).

Diversamente dal Marini, il generale Lo Faso non si è proposto, con la sua meticolosa ricerca d’archivio, di illustrare aspetti specificamente militari del periodo 1793-1798, ma ha voluto offrire un quadro ricco e articolato di quelle vicende sotto un’angolatura nuova, rappresentata in particolare dalla corrispondenza da e per Torino spedita dai funzionari di governo e dai privati, da quella degli ambasciatori sabaudi delle più importanti Corti europee, dal Consolato del re di Sardegna a Livorno, importantissimo e interessantissimo crocevia del traffico marittimo da e per la Sardegna (46). Inoltre, dopo il fallimento del moto antifeudale nel Logodoro nel giugno 1796, la ricerca del Lo Faso segue, come filone privilegiato, le peripezie di Giovanni Maria Angioy, capo carismatico della «sarda rivoluzione», dal suo arrivo a Genova con un folto gruppo di esuli ai tentativi di contatto con il generale Bonaparte impegnato con l’esercito repubblicano nella prima Campagna d’Italia, al viaggio a Torino con l’intento di «giustificare» davanti al re il suo operato, alle fasi di redazione della memoria difensiva nel convento degli Agostiniani di Casale, all’esame mai concluso di questa difesa e della relazione dell’avvocato fiscale Cappa, infine alla fuga da Casale ai primi di settembre 1797 per accettare definitivamente l’asilo politico offerto a lui ed ai fuorusciti sardi dal governo francese.

Segreta aspirazione del Lo Faso era quella di poter finalmente scoprire «il documento di maggior interesse» riguardante l’Angioy, ossia «le relazioni che presentò a sua difesa per i fatti del 1796» (47) e l’atto d’accusa formulato dal giudice istruttore. Malgrado la ricerca puntuale e rigorosa, tale documentazione non è venuta alla luce; come numerosi altri studiosi, anche il Lo Faso ha trovato la strada sbarrata all’ultimo tappa del labirinto angioiano. Quelle carte, se venissero ritrovate (la speranza è sempre ultima a morire) potrebbero contribuire in modo decisivo a diradare le ombre che ancora avvolgono la figura e gli intendimenti del capo della rivolta antifeudale in Sardegna. Il Lo Faso ipotizza che gli incartamenti relativi al processo di Angioy e dei suoi complici predisposti a Torino (com’è noto, quelli predisposti dai giudici sardi sono conservati nell’Archivio di Stato di Cagliari) «siano stati distrutti nel periodo francese o bruciati a seguito dei bombardamenti della 2^ Guerra mondiale» (48). Un’ipotesi questa da non escludere, anche se è opportuno insistere nella ricerca, nella speranza che in futuro possa ricomparire quella importante serie documentaria.

Il mancato ritrovamento di quella documentazione nulla toglie, tuttavia, all’importanza dei materiali archivistici che si pubblicano in questo volume: essi ampliano  notevolmente il quadro delle conoscenze e rivelano aspetti non noti di quelle vicende, sebbene sotto il profilo sostanziale confermino le ricostruzioni storiografiche che gli studi dell’ultimo ventennio, sopra delineati, hanno offerto. Il Lo Faso dichiara, con eccessiva modestia, che i documenti da lui raccolti «non vogliono in nessun modo costituire una ricostruzione storica di quel periodo, ma solo, eventualmente, servire a quegli studiosi che non avessero avuto la possibilità di consultarli» (49). Anche se si trattasse solo di questo, è doveroso riconoscere che il contributo offerto agli studiosi è di considerevole valore. Chi scrive è convinto che la raccolta documentaria sia tale da consentire una ricostruzione più precisa delle vicende storiche di quell’arco temporale. Dalla documentazione emerge infatti un quadro ricco e complesso, che scoraggia una volta per tutte quell’approccio storiografico alla storia della Sardegna, che vorrebbe l’isola del tutto appartata, relegata in un ruolo marginale, rispetto alle vicende della storia italiana ed europea.

 

 

5. Non è questo il luogo per intraprendere questa nuova narrazione delle vicende politiche dell’isola dal 1793 al 1798; è auspicabile che nel futuro gli studiosi, facendo tesoro del nuovo materiale che viene ora messo a disposizione, possano cimentarsi nell’opera. In questa sede, oltre a offrire un quadro della documentazione raccolta e indicare alcuni temi e problemi di rilevante novità che emergono dalla documentazione, daremo un saggio di narrazione del periodo immediatamente successivo alla fuga dell’Angioy dalla Sardegna, che utilizza in modo privilegiato i documenti che pubblichiamo.

 

 

Il corpus documentario consta di 560 documenti, conservati in gran parte nell’Archivio di Stato di Torino (530) e solo pochi (30) nell’Archivio di Stato di Cagliari. Le filze documentarie conservate dell’Archivio di Stato di Torino da cui i documenti sono stati desunti sono le seguenti:

1)      Corrispondenze con particolari provenienti dall’isola (50).

2)      Lettere degli ambasciatori presso i governi dello Stato Pontificio, della Gran Bretagna, della Spagna, delle Due Sicilie, della Repubblica di Genova e dell’addetto militare presso l’esercito francese a Milano (51).

3)      Corrispondenza con il Consolato sabaudo di Livorno, che costituisce la documentazione in assoluto più cospicua (52).

4)      Relazioni dei ministri al sovrano (53).

5)      Corrispondenza della e alla Segreteria del Sovrano (54).

6)      Corrispondenza del e al viceré di Sardegna e a magistrati sardi (55).

La documentazione dell’Archivio di Stato di Cagliari, riferita esclusivamente agli anni 1796 e 1797, proviene dal Fondo della Segreteria di Stato, 2^ Serie (56).

Di particolare rilevanza appare la documentazione relativa al 1793 in quanto offre un ampliamento delle conoscenze del periodo bellico e della mobilitazione dell’intera isola contro il tentativo di conquista francese. Ci riferiamo in particolare ai documenti che interessano città e territori lontani dall’epicentro dello sbarco francese che, com’è noto, fu concentrato soprattutto nel litorale di Cagliari e Quartu S. Elena, e che si riferiscono al distaccamento di truppe nel Golfo di Palmas (57), alla vigilanza militare sulle coste della Gallura (58), alla mancata mobilitazione della città di Sassari, ampiamente illustrata da don Giambattista Cugia al ministro degli Interni Pietro Graneri (59).

Dalla documentazione sinora nota il ruolo di Sassari nel periodo della invasione francese appare, sotto il profilo della mobilitazione della popolazione e degli approntamenti bellici, assai marginale. La documentazione raccolta dal generale Lo Faso consente ora di spiegare questa marginalità, riconducibile ad un insanabile contrasto esistente tra il governatore del Capo di Sassari Merli, ispirato dalla sinistra figura del giudice Andrea Flores, assessore civile della Reale Governazione, e tutte le componenti della società sassarese, di cui si fa portavoce il Cugia in qualità di rappresentante della nobiltà sassarese. In un circostanziato promemoria al ministro Graneri, spedito da Sassari il 23 febbraio 1793, il nobile sassarese denuncia in primo luogo la colpevole reticenza del governatore il quale, analogamente a quanto aveva deciso per Cagliari il viceré Balbiano, già dalla fine del 1792 tenne celato alla popolazione e ai tre ceti l’incombente pericolo dell’invasione dell’isola, sebbene fosse ormai di pubblica opinione la decisione assunta nel settembre di quell’anno dal Direttorio Esecutivo di conquistare l’isola in quanto territorio appartenente a Vittorio Amedeo III, entrato a far parte della Prima Coalizione contro la Francia, nonché la conquista militare degli Stati di Terraferma della Savoia e della contea di Nizza. Invece di predisporre tutte le misure necessarie per affrontare la ormai sicura invasione, denuncia il Cugia, il governatore Merli non prendeva alcun provvedimento, «anzi si procurava di dissuadere tutti, e tutti persuadere che più pericolo non vi era della minacciata invasione» (60). Quando, ai primi di gennaio 1793, giunse la notizia che la flotta nemica si trovava schierata nel golfo di Cagliari, il governatore si convinse finalmente della necessità di convocare i rappresentanti dei ceti nobiliare ecclesiastico e cittadino e in questa sede si fece a gara nell’offrire risorse per approntare la difesa; si decise di allertare le fanterie e le cavallerie miliziane dei villaggi, ma a ciò non seguì alcun altro provvedimento per definire le misure operative: «tutti aspettavano le provvidenze – commenta il Cugia – e non se ne viddero» (61). Si diffuse così la convinzione che la classe dirigente locale non volesse fare alcunché per difendere la popolazione e il territorio e ciò comportò una profonda sfiducia soprattutto nei confronti della nobiltà, che prima di tutti gli altri era preposta alla difesa. «Si dice già – scrive il Cugia, riferendo il sentimento comune dei ceti inferiori – che la prima guerra non sarà co’ francesi, che sarà colla Nobiltà, col Clero, cogli Impiegati, giacché non pensando a ciò che pensar si deve si vuole esporre il Pubblico al macello. E queste sono circostanze da disprezzare?» (62).

Per ovviare a questa convinzione dell’opinione pubblica, il Cugia ritiene che la nobiltà debba riappropriarsi delle sue prerogative di guida delle popolazioni nella difesa degli interessi comuni, con la conseguenza che anche alla nobiltà sassarese, di fronte al pericolo imminente, dovesse essere legittimamente accordata la facoltà di riunirsi per assumere le decisioni del caso «non come Stamento, ma come Corpo della nobiltà» (63). La precisazione che la riunione del ceto nobiliare doveva avvenire non in seduta stamentaria ma come assemblea cetuale tentava di aggirare l’ostacolo, già presentatosi nel mese di gennaio, di potersi riunire come legittima assemblea dello Stamento militare della nobiltà sassarese in quanto la normativa in vigore attribuiva a Cagliari e previa convocazione da parte della prima voce la riunione dello Stamento, che doveva comprendere tutta la nobiltà dell’isola. La richiesta, che era stata effettuata dal duca dell’Asinara il mese prima, era stata negata dal viceré (64). E’ anche a seguito di questo già sperimentato diniego che il Cugia propone un’altra forma di intervento della nobiltà nella gestione degli affari pubblici, considerata il pericolo imminente e «l’attuale assoluta impotenza del Sovrano di poter difendere con la sue forze militari questo suo Reame» (65). Ma al di là di questa volontà di presenza nella gestione del pericolo, colpisce soprattutto nel discorso del Cugia la chiara percezione delle implicazioni politiche e sociali cui stava irrimediabilmente portando l’ottusità dei governanti piemontesi, che per non voler associare al governo del territorio le componenti locali stava creando un grave duplice danno: allargare il fossato di incomunicabilità che la politica di stampo coloniale dei piemontesi aveva provocato con tutte le componenti della nazione sarda e aizzare contro la nobiltà e i ceti dirigenti in genere la componente ‘popolare’ della società sassarese e del Logudoro favorendo così la diffusione delle idee democratiche tra i ceti inferiori. L’eccezionalità delle circostanze avrebbe dovuto suggerire ai responsabili di governo il coinvolgimento e il concorso di tutte le componenti della società per la difesa del territorio contro l’invasione nemica. In assenza di ciò la nobiltà avrebbe dovuto, secondo il Cugia, provvedere di sua iniziativa a questo coinvolgimento, anche a costo di mettersi in contrasto con il governatore e forse anche con la Reale Governazione. A Cagliari l’intraprendenza della nobiltà, che aveva deliberato l’arruolamento a sue spese di 4.000 volontari, aveva rinsaldato il legame tra i ceti e le altre componenti sociali, suscitando un clima di esaltante di unità patriottica (66). Questo clima avrebbe reso possibile negli anni successivi un atteggiamento riformistico da parte del ceto feudale del Capo meridionale. A Sassari la mancanza di un momento di carattere patriottico e unitario favorito dalla guerra, contribuì a rafforzare l’opposizione del popolo cittadino e delle comunità rurali contro la nobiltà feudale, i cui esiti più appariscenti sarebbero stati, due anni più tardi, la ribellione antifeudale, la conquista di Sassari da parte di un esercito contadino, la fuga precipitosa della nobiltà e il governo del capoluogo da parte dei rappresentanti del radicalismo giacobino (67). Questo esito radicale della lotta politica e sociale a Sassari e nel Capo del Logudoro la lunga relazione del Cugia al ministro Graneri ha avuto il merito di avere intuito e, in certo senso, previsto.

Sempre nel quadro delle vicende del 1793, un altro documento offre elementi di novità: il Breve ragguaglio dell’ingiustissima guerra, che la sedicente Repubblica francese ha fatta all’isola, e regno di Sardegna nel 1793 redatta dal notaio cagliaritano Tommaso Marras.

Personaggio minore tra quelli che parteciparono attivamente alle vicende del triennio rivoluzionario sardo, il notaio Tommaso Marras, consigliere di città, fu un acceso fautore dei piemontesi e per tale motivo particolarmente inviso al partito patriottico. Nella primavera 1794, a seguito della cacciata dei piemontesi, egli fu imprigionato dal popolo cagliaritano insieme al censore generale Giuseppe Cossu e al contadore generale Gemiliano Deidda (68), e la sua detenzione durò per più di un anno (69).

Il Breve ragguaglio – in realtà si tratta di una lunga e minuziosa relazione -, che si contraddistingue per il tono adulatorio verso il viceré e i piemontesi e per la virulenza dell’odio religioso contro i francesi additati come «moderni increduli e miscredenti» venuti in Sardegna con l’empio proposito di «alzare l’albero fatale della libertà» (70), era destinato alla pubblicazione. Se si prescinde dall’aspetto visceralmente ideologico, limite peraltro comune ad analoghi scritti del periodo (71), il Breve ragguaglio del Marras, che deve essere integrato con una breve relazione del cavalier Luigi Porcheddu (72), è uno dei resoconti più dettagliati e ordinati della spedizione francese contro Cagliari e contro l’isola di La Maddalena. Come si evince da una lettera del Marras al ministro Graneri del 18 ottobre 1793, la relazione doveva stamparsi a Venezia, ma non vide la luce «per aver negato  il permesso l’Inquisitore, per ragioni di Stato» (73). Il Marras non fu l’unico cagliaritano che, nella speranza di trarne qualche riconoscimento da parte dei protettori piemontesi, fece pervenire all’uomo potente del momento, il ministro degli Interni conte Pietro Graneri, una relazione  sull’invasione dei francesi. Nell’agosto 1793 anche Cosimo Canelles, preposto durante l’invasione al comando del 4° battaglione di milizia volontaria, fece pervenire al ministro piemontese una relazione sul contingente a lui affidato per le operazioni belliche; essa tuttavia, oltre a non offrire  alla ricerca storiografica la ricchezza di informazioni della relazione del Marras, era già nota agli studiosi perché pubblicata dal Marini (74).

 

 

6. La novità del lavoro del generale Lo Faso non si riduce alla ricchezza di dati e di notizie che consentono una notevole possibilità di integrazione delle conoscenza sulla spedizione francese del 1793. La raccolta documentaria consente di guardare alla Sardegna da angoli visuali diversi da quelli prevalenti e tradizionali, che si rifanno quasi esclusivamente alla corrispondenza ufficiale tra il governo viceregio e i ministeri torinesi e viceversa. L’elemento forse di maggiore novità consiste proprio nella possibilità, come si è accennato sopra, di seguire le vicende sarde degli anni 1793-98 dagli angoli visuali delle Legazioni sabaude presso altri governi e di un Consolato di fondamentale importanza per la Sardegna, il Consolato di Livorno, punto di raccolta di gran parte dei trasporti da e per la Sardegna.

Abbastanza significativa, nell’economia generale delle fonti che si pubblicano, è la corrispondenza tra il ministro degli Esteri Girolamo Perret conte di Hauteville e l’ambasciatore sabaudo presso la Santa Sede Clemente Damiano di Priocca: si tratta di 36 pezze documentarie intercorse nella quasi totalità durante il triennio 1793-1795 (75).

La corrispondenza diplomatica del 1793, prevalentemente indirizzata dal ministro all’ambasciatore, verte tutta sulla spedizione francese e colpisce soprattutto l’approssimazione delle informazioni date e ricevute, spesso basate su voci prive di fondamento, raccolte dagli uomini di mare in transito da un porto all’altro del Mediterraneo o dagli altri ambasciatori delle Corti europee (76).  Solo in data 20 marzo il ministro degli Esteri può comunicare in via definitiva all’ambasciatore presso la Santa Sede che le lettere provenienti dalla Sardegna «riferiscono concordemente la ritirata della flotta francese maltrattata dal fuoco de’ Sardi e dai cattivi tempi di mare» (77). Il permanere di un piccolo contingente del corpo di spedizione francese nell’occupazione delle isole di Sant’Antioco e di San Pietro provoca un’altalena di speranze e di paure. Mentre il 3 aprile 1793 il conte di Hauteville comunica all’ambasciatore Priocca che vi è da sperare che le forze nemiche «non facciano lunga stazione in quelle acque, tostoché saranno uscite in mare le flotte di Spagna e d’Inghilterra» (78), venti giorni dopo fa sapere con grande apprensione che la permanenza delle truppe francesi nelle due isole «fa dubitare d’un nuovo attacco de’ Francesi contro quel Regno, se non ne sono per avventura impediti dalle flotte Anglo-Spagnole, sentendosi di più, che sono giunte ultimamente a San Fiorenzo cinque Fregate francesi con 1000 uomini di truppa regolata, e che è pure partita da Tolone una divisione della flotta francese, la cui direzione è ancora ignota» (79). Solo alla fine di maggio il governo piemontese poteva sentirsi sicuro della riconquista delle due isole ad opera della flotta spagnola alleata e chiedere a Pio VI, attraverso il suo ambasciatore, i riconoscimenti dovuti al valore dei Sardi, dopo che tali riconoscimenti erano stati sollecitati dall’arcivescovo di Cagliari Melano «per segnalare sempre più il loro zelo verso la Chiesa, il proprio Sovrano, contro ogni attacco dell’inimica nazione non solo con la forza delle armi, ma anche colle insidie della seduzione» (80).

La corrispondenza diplomatica con la S. Sede del 1794 si riferisce prevalentemente alla cacciata dei Piemontesi e alla vicenda occorsa al sostituto avvocato fiscale Matteo Luigi Simon. Questi aveva intrapreso nella primavera di quell’anno un viaggio in Italia per motivi di salute. Giunto a Roma, forse a causa delle sue frequantazioni con persone sospette alla Curia, venne accusato di essere sostenitore di idee gianseniste. La presunta pericolosità del Simon per l’ortodossia cattolica viene segnalata all’ambasciatore Priocca dal cardinale Segretario di Stato e l’accusa è avvalorata «massimamente in vista del contegno tenuto [da Matteo Luigi Simon] in Civitavecchia all’arrivo della notizia dell’accaduto occorso in Sardegna, ch’egli mostrò piuttosto di approvare» (81). Iniziava con la disavventura romana per Matteo Luigi Simon la lunga persecuzione, che diverrà pesante e definitiva dopo il fallimento del moto antifeudale dell’Angioy, persecuzione nella quale sarà coinvolta tutta la sua famiglia. Accusato di essere un fervente seguace dell’Angioy, egli verrà destituito dall’incarico in magistratura e confinato nel villaggio di Villanova Monteleone. Sincero riformista, Matteo Luigi Simon non fu sicuramente, come pure venne dipinto, un giacobino. Come numerosi patrioti che vissero intensamente il periodo della «sarda rivoluzione», egli auspicava, per il «rifiorimento» della Sardegna, il superamento del sistema feudale e una più convinta politica riformistica soprattuto nella direzione di un convinto riconoscimento delle prerogative autonomistiche del Regno sardo e di una energica riforma della giustizia. Come si evince anche dalla documentazione raccolta dal Lo Faso, nella quale la figura di Matteo Simon – ma il discorso è da estendere a tutta la famiglia algherese – appare abbastanza frequentemente, dopo numerose vicissitudini anche le accuse di carattere politico furono riconosciute infondate da parte del governo piemontese. Si trattò però di un’assoluzione troppo tardiva: Matteo Luigi Simon aveva ormai preso la strada dell’esilio nella Francia consolare e imperiale, dove occuperà ruoli di rilievo e di alta responsabilità nei ranghi della magistratura dell’Impero. Durante gli anni dell’esilio avrebbe affidato ai suoi scritti la sua interpretazione della «sarda rivoluzione» e le sue idee di moderato riformista e di sincero patriota (82).

Altro elemento degno di nota nella corrispondenza con l’ambasciata presso lo Stato pontificio è la conferma, da parte del ministro degli Esteri Hauteville, che l’arrivo del nuovo viceré Filippo Vivalda in Sardegna sul finire dell’estate 1794 potè avvenire solo dopo che Vittorio Amedeo III, aderendo alle precise richieste degli Stamenti e della Reale Udienza, aveva licenziato l’inviso ministro degli Interni Graneri affidando il governo degli Affari di Sardegna al conte Avogadro di Quaregna e aveva determinato di aderire gradualmente alle «cinque domande» indirizzate al sovrano con la delegazione stamentaria del 1793 (83). Anche se non è fuori luogo riflettere che la cauta apertura del sovrano alle richieste del partito patriottico sardo, che avveniva solo dopo l’insurrezione cagliaritana del 28 aprile 1794, diretta conseguenza del primo diniego di quelle istanze di riforma politica, ebbe a manifestarsi in seguito sotto il segno della strumentalità e della equivocità. Questo atteggiamento del governo piemontese darà luogo ad uno aspro scontro politico tra le diverse anime del partito patriottico sardo, culminato con i delitti politici dell’Intendente generale Pitzolo e del generale delle Armi marchese della Planargia nel luglio 1795. Durante l’estate del 1794, a seguito della cacciata di tutti i funzionari piemontesi, si era instaurato nel Regno una sorta di governo autonomo nel quale il ruolo degli Stamenti e del popolo cagliaritano furono determinanti nel governo della cosa pubblica, sino a dettare tempi e modalità di insediamento del nuovo viceré Vivalda, costretto a stazionare per mesi a Livorno prima del lasciapassare del governo dei Sardi. E’ a questa situazione che si riferisce l’esplicito riconoscimento da parte del ministro degli Esteri all’ambasciatore Priocca, di cui si diceva sopra: «Migliori sono le notizie che abbiamo di Sardegna, e vanno crescendo le speranze di veder dissipati i dissapori insorti. Per una parte ha stimato S.M. di aderire nella sostanza alle cinque domande de’ Sardi già qui proposte da’ Deputati nello scaduto anno, e per altra sentesi, che s’occupano con premura gli Stamenti a tener tranquillo il popolo, e a rallentar l’ardore da lui mostrato di prender ingerenza negli affari del Governo; cosicché le ultime lettere da Livorno ci raportano che colà era giunto avviso di Sardegna, che vi dovesse giungere un Cav.e Sardo (Cav.e Angioi) deputato espressamente per invitare il V.Re a passare nel Regno, ed accompagnarlo nel tragitto. Qualche lettera particolare di cui non conosco però l’autenticità, aggiunge che altro Deputato passerà in Torino per implorare S.M. a nome del Regno la primiera sua grazia, e protezione a favor di que’ sudditi, ed in obblio perpetuo delle seguite differenze» (84).

Assecondando la nuova stagione politica instaurata dopo la cacciata dei Piemontesi, il conte Avogadro e il nuovo viceré Vivalda si impegnarono nell’attuazione delle richieste insite nelle «cinque domande», tanto che nel febbraio 1795 era già stata predisposta e autorizzata dal sovrano la procedura per la convocazione del Parlamento, che costituiva la prima e più importante fra le «domande». Solo qualche mese dopo i maneggi  dei due nuovi alti funzionari sardi Pitzolo e Planargia, unite a motivi contingenti e alle fobie rivoluzionarie di Vittorio Amedeo III, daranno luogo ad una improvvisa virata reazionaria della politica piemontese verso la Sardegna, che ebbe inizio nel marzo 1795 con la nomina del nuovo ministro per gli Affari di Sardegna Galli della Loggia in sostituzione del conte Avogadro (85). Preoccupato della presunta piega giocobina degli avvenimenti politici sardi e più disposto ad ascoltare le analoghe preoccupazioni del Pitzolo e del Planargia, decisi ad evitare la deriva democratica del movimento patriottico sardo e a non intaccare nella sostanza il potere feudale nel quale erano personalmente integrati, il ministro Galli Della Loggia provvide in primo luogo a bloccare la convocazione del Parlamento e quindi a disattendere ancora una volta le «leggi fondamentali» del Regno con la nomina di alti funzionari prescindendo dalla regola della terna. Fu questa ennesima interferenza nel processo di riforma avviato con la vittorio sui francesi  e con la cacciata dei Piemontesi a determinare l’esito cruento della crisi politica sarda nell’estate 1795 e a creare una frattura insanabile tra l’oltranzismo feudale, che aveva la sua cittadella nella città di Sassari, e il movimento riformatore.

Gli esiti drammatici della lotta politica e il rafforzarsi delle spinte democratiche, unite al riaccendersi della lotta antifeudale nelle campagne, spinsero l’ala moderata del movimento riformatore a far quadrato, ancora una volta, intorno alla piattaforma politica delle «cinque domande». Per allontanare da sé le insistententi accuse di gicobinismo, dietro regia di un intellettuale raffinato e di un politico accorto qual era l’abate di Salvenero Gian Francesco Simon (86), venne proposta e attuata dagli Stamenti una nuova ambasciata al sovrano, affidata all’arcivescovo di Cagliari Vittorio Melano di Portula (87). Egli, attraverso la mallevadoria del pontefice Pio VI, avrebbe dovuto chiedere al sovrano ancora una volta l’approvazione integrale della piattaforma politica delle «cinque domande». Il fatto che la nuova ambasciata al sovrano fosse affidata significativamente ad un piemontese e dovesse svolgersi attraverso una richiesta di interessamento del pontefice, assumeva il preciso significato, in primo luogo, di un’adesione incondizionata alla tradizione cattolica, stornando così dall’azione politica dei riformatori l’accusa di tralignamenti giocobini, in secondo luogo costituiva una professione di lealismo monarchico e di riconoscimento del fondamento sacrale del potere, pur nell’ambito delle prerogative autonomistiche insite nella costituzione del Regno sardo.

Non era sicuramente estraneo agli intendimenti della parte moderata del  partito patriottico sardo promotore dell’iniziativa della nuova ambasciata nel settembre 1795, la speranza che l’avallo del pontefice potesse anche costituire un autorevole riconoscimento delle rivendicazioni autonomistiche della nazione sarda. Non a caso, quando l’arcivescovo giunse a Roma nel novembre 1795 e chiese udienza al pontefice, la prima preoccupazione della Corte romana fu quella di escludere ogni implicazione politica all’interessamento del papa. La diplomazia pontificia era infatti persuasa, come riferiva l’ambasciatore Priocca al ministro degli esteri Hauteville, «che la mediazione di questa Corte implorata dai Sardi non dovesse portare con sé una tal quale discussione degli affari del Regno, e renderne in certo modo arbitro il Santo Padre» (88). Onde togliere ogni equivoco alla intermediazione pontificia, la diplomazia romana dichiarava di non volere in alcun modo entrare nel merito delle richieste politiche dei Sardi; l’intervento del pontefice doveva intendersi semplicemente come «una commendatizia del Papa presso Sua Maestà» (89), ossia una generica raccomandazione di attenzione ai problemi della Sardegna.

Com’è noto, l’ambasceria dell’arcivescovo Melano, che rischiò di arenarsi nel gennaio 1796 a seguito dei clamorosi fatti di Sassari del dicembre 1795 ( 90), avrebbe ottenuto l’approvazione di Vittorio Amedeo III con il regio diploma dell’8 giugno 1796, nel momento stesso, cioè, in cui gli sviluppi della «sarda rivoluzione» avevano portato il contrasto tra l’ala radicale e l’ala riformista ad una frattura definitiva ed insanabile per l’inserimento nella lotta politica e sociale del gravissimo problema del sistema feudale. A fronte dell’accelerazione impressa al moto riformatore dalla questione feudale, quella piattaforma politica appariva ormai del tutto inadeguata rispetto alla più drammatica e indilazionabile necessità di promuovere una radicale riforma del sistema feudale. Nata in un clima di unità patriottica, la piattaforma politica delle «cinque domande» approvata quattro anni dopo la sua formulazione appariva ormai sterile e del tutto insufficiente a recepire le aspettative di riforma  della società sarda che erano maturate nel tempo. Inoltre quella piattaforma veniva sancita dal sovrano in una fase politica nella quale, dopo il generoso tentativo dell’Angioy di abbattere il sistema feudale, si era ricompattata l’alleanza tra il ceto feudale e la borghesia cittadina, timorosi entrambi di perdere i propri privilegi. Nella rinnovata alleanza tra la Corona e i ceti privilegiati fu, per così dire, una morte annunciata la rinuncia da parte degli Stamenti agli aspetti più squisitamente autonomistici insiti nel regio diploma dell’8 giugno 1796. Le posizioni di privilegio dei ceti dirigenti venivano meglio assicurate, soprattutto dopo l’arrivo della Corte sabauda a Cagliari nel 1799, in un reggimento politico assoluto anziché in una compartecipazione nell’esercizio della sovranità tra il re e il Parlamento; questo, come l’esperienza del «triennio rivoluzionario sardo» stava a dimostrare, andava fatalmente nella direzione  di una moderna riforma costituzionale e rappresentativa dello Stato, non nel senso cetuale ma in quello di una progressiva democratizzazione della società e di un allargamento della base sociale della rappresentanza politica. Non a caso, come si potrà rilevare anche dalla documentazione che pubblichiamo, Carlo Emanuele IV sarà inflessibile nel negare l’ampliamento in tal senso del vecchio ordinamento parlamentare.

Nell’immediato l’esito più appariscente dell’insuccesso della «sarda rivoluzione» fu una precoce anticipazione, rispetto al resto d’Europa, della Restaurazione, con le feroci condanne al capestro, alla galera e all’esilio dei patrioti più generosi e più sinceri (91).

 

 

7.   La parte più interessante della documentazione si riferisce, come abbiamo accennato, alle peregrinazioni dell’Angioy dopo l’insuccesso del moto antifeudale nel giugno 1796. La documentazione che si pubblica assume una notevole importanza per la ricerca storica, dal momento che la ricostruzione delle vicende biografiche di Angioy e dei fuorusciti angioiani sinora pubblicate, presente nella ormai classica biografia dell’Angioy di Dionigi Scano, in quella del Madau Diaz e in altri più recenti contributi (92), è fondata in gran parte sulle carte conservate presso l’Archivio di Stato di Cagliari e presso l’Archivio del Ministero degli Esteri di Parigi. Come si potrà rilevare in quest’opera, nell’Archivio torinese, soprattuto presso i fondi  della Segreteria di Carlo Emanuele IV e del Ministero degli Esteri, la vicenda dell’Angioy e dei fuorusicti sardi occupa un posto di assoluto rilievo.

Il luogo privilegiato dal quale il governo sabaudo spia i movimenti dell’Angioy e dei fuorusciti angioiani è il Consolato di Livorno, quella stessa legazione dalla quale, negli anni precedenti, affluiva presso il Ministero degli Esteri a Torino la parte più consistente delle notizie relative alla Sardegna (93). Il Consolato di Livorno, nei sei anni cui si riferisce la documentazione, fu retto da Paolo Baretti  fino al 10 ottobre 1795, da Pietro Rebuffo fino al maggio 1798 e successivamente dall’avvocato Spagnolini (94).

Il Consolato di Livorno funge, nel periodo della diaspora angioiana, da autentico centro di spionaggio alle dirette dipendenze del ministero degli Esteri nel quale, ai primi di giugno 1796 si era avvicendato, all’austriacante Giuseppe Francesco Girolamo Perret d’Hauteville, il sagace conte Clemente Damiano di Priocca, richiamato dall’ambasciata presso la Santa Sede (95).

Le prime confuse notizie sulla ribellione dell’Angioy vengono fatte partire alla volta di Torino il 15 giugno 1796. Si dice che a Sassari vi sia una situazione convulsa e di turbolenze e che l’Angioy ha rischiato di essere assassinato, per cui ora «esce accompagnato da settecento  suoi satelliti» (96); che il 28 maggio vi sarebbe stato «un gran massacro a Cagliari essendo stato vincitore il partito di Sua Maestà colla morte di molti insorgenti» (97). Si riferisce inoltre confusamente di un assalto contro Oristano perpetrato dagli angioiani e della convulsa fuga di alcuni suoi abitanti, del terrore che incute l’Angioy, divenuto ormai un capo di briganti. «Non si può esprimere il terrore, – riferisce il capitano di mare caprarese Michele Borgono – che mette in quel Regno il sudetto D. Angioi che pare voglia impadronirsi di quell’Isola spirando principalmente sul Capo di Sassari, aflitioni, e spaventi per le famiglie che sono disperse nelle campagne a cercarsi asilo. A giorni si attendono altri bastimenti che da colà dovevano partire, da quali si sentiranno ulteriori notizie di quel capo di Briganti» (98).

Si tratta di notizie di seconda e terza mano, amplificate e deformate. Verso la fine di giugno il governo torinese riceverà, attraverso i canali ufficiali, più circostabnziate notizie sulla rivolta dell’Angioy e solo il 6 luglio il vecchio Vittorio Amedeo III verrà informato dei movimenti di lui e dei suoi seguaci. «Il Console di Livorno Rebuffo riscontra dell’arrivo del Giudice Angioi in Caprara li 21 giugno con 13 suoi compagni, fra quali il noto Avvocato Mundula, un Canonico, ed un altro Prete e dieci altre persone di bassa condizione, e con tutti i francesi prigionieri che erano in Sassari da dove è partito. Dice che il medesimo passeggiava in Caprara colla coccarda nazionale e che aveva avuto molte conferenze coll’Agente francese, che di lì era partito per Genova per quindi portarsi a ritrovare il Commissario Salicetti, e poscia a Parigi ad implorare l’assistenza della Nazione francese a fin di mettere il buon ordine nella Sardegna, quale quando sarebbe stata tranquilla sarebbe ritornata sotto il dominio di V.M., che aveva detto di essere stato tradito da molti de’ suoi compagni, ma che sperava molto ne’ Villici poiché tutti i Villaggi erano del suo partito» (99).

In effetti l’Angioy, imbarcatosi a Porto Torres la sera del 17 giugno su un piccolo legno, dopo una sosta a Capraia, era giunto a Genova il 20 giugno; lo accompagnavano il giovane segretario Emanuele Crobu, Gioacchino Mundula col figlio Giuseppe, l’avvocato Gavino Fadda, il parroco di Semestene Francesco Muroni con il fratello Salvatore, Cosimo Auleri, Antonio Luigi Petretto con i figli Antonio Vincenzo, Francesco e Ignazio, Antonio Maria Carta, Quirico Spano. La permanenza di Angioy a Genova si protrasse fino alla prima decade di luglio e qui ebbe diversi colloqui con l’incaricato di affari del governo francese presso la Repubblica di Genova Faypoult. Fu probabilmente a seguito dei colloqui dell’Angioy con Faypoult che questi avvicinò l’ambasciatore sabaudo presso la Repubblica di Genova Nomis di Cossilla per cercare di capire quali fossero le clausole che interessavano la Sardegna nel Trattato di pace stipulato a Parigi tra Vittorio Amedeo III e la Repubblica francese. In data 29 giugno il Nomis di Cossilla faceva pervenire al ministro degli esteri Priocca un breve resoconto dell’incontro con Faypoult. Questi, nel sondare le conoscenze dell’ambasciatore piemontese, era partito assai da lontano, chiedendo se il trattato di pace avesse previsto il divieto di approdo delle navi inglesi nei porti della Sardegna. Nei disegni degli angioiani, l’eventuale presenza della flotta inglese nelle acque sarde avrebbe costituito un ostacolo invalicabile ad una nuova spedizione  francese per la conquista dell’isola. Egli osservava quindi al Cossilla – ma dietro il Faypoult è facile intravvedere i veri suggeritori – che il possedimento della Sardegna non era di alcuna utilità alla monarchia sabauda. «Passò quindi – riferisce il Cossilla – a parlarmi della Sardegna, della difficoltà che proverà tuttavia Sua Maestà ad avere in quel regno una libera comunicazione, del poco profitto che se ne riceveva, dell’utile che ne ritrarrebbe la Francia per il suo commercio col Levante, e l’Affrica» (100). Alla data del colloquio, il 29 giugno 1796, il Faypoult, già a conoscenza dell’arrivo dell’Angioy a Genova, non lo averva rivelato al Nomis di Cossilla; a questi la notizia sarà rivelata da un dispaccio del ministro degli esteri spedito da Torino il 2 luglio (101) e solo in data 5 luglio egli è in grado di comunicare al Priocca che «il signor Angioy ed altri sardi per quanto mi consta, si sono avviati a Livorno, dopo essersi abboccati con signor Faypoult, da cui apparentemente non sono stati troppo soddisfatti nelle loro mire» (102). Apparentemente! Il Cossilla era persuaso, già dal colloquio del 29 giugno, che il Faypoult faceva di tutto per far giungere al governo sabaudo la direttiva, che era quella a lui data dall’Angioy e dai suoi seguaci, che era opportuno che la Sardegna passasse alla Francia. Non essendo però ancora a conoscenza delle precise clausole del Trattato di pace, il Faypoult poteva solo suggerire quella soluzione, fortemente desiderata dagli angioiani.

Per avere maggiori ragguagli e più concrete garanzie per l’attuazione di questo disegno, era necessario prendere contatto direttamente con il comandante in capo dell’Armata d’Italia, il generale Bonaparte. Fu questo il motivo dello spostamento del drappello degli angioiani da Genova a Livorno. Avviatisi alla volta della città toscana attorno al 5 luglio, vi giungevano l’11 luglio. «Accompagnato da’ suoi satelliti, – riferiva il console Rebuffo in data 13 luglio – de’ quali ancora altri se ne attendevano, giunse avant’ieri in Livorno il Celebre Perturbatore del Regno Sardo Signor Angioi; […] non ho mancato intanto di mettere in diligenza diverse persone, per destramente indagare tutti li passi del suddetto ed esplorarne per quanto sia possibile le intenzioni (103). A credere al Rebuffo, l’Angioy, che si trattenne a Livorno tre giorni, «si presentò al Generale Francese ma non ebbe soddisfazione» (104). Non pare, tuttavia, contrariamente a quanto parrebbe desumersi dalla nota del console sabaudo, che l’Angioy abbia incontrato Napoleone a Livorno. Infatti poco dopo decise di recarsi a Milano, via Firenze, per poter finalmente parlare con il Bonaparte. «Tutti questi soggetti – precisa il Rebuffo – alla riserva del figlio del Mondula, che ritorna in Sardegna, sono passati in Firenze, per recarsi in Milano o dove potranno ritrovare il Generale Bonaparte per implorarne appresso di S.M. nostro Sovrano il perdono, sperando tutto l’interessamento di detto Generale» (105).

Mentre il governo piemontese dava mandato ai suoi agenti presso gli Stati esteri di fare ogni sforzo per procurare l’arresto dell’Angioy, iniziava la dispora di quei seguaci che l’avevano accompagnato in terraferma nella fuga dalla Sardegna. A Firenze, a detta del console livornese, si ferma l’avvocato Gavino Fadda; non pare, quindi, che il Fadda, come scrive lo Scano, abbia accompagnato l’Angioy per parlare con il Bonaparte. Poco dopo egli rientrerà in Sardegna insieme con il figlio di Gioacchino Mundula Giuseppe, Antonio Vincenzo Petretto, Antonio Maria Carta e Quirico Spano. Intercettati da Domenico Millelire, furono catturati e giudicati dal famigerato giudice Valentino. Il Fadda, il Carta e il Petretto furono giustiziati, mentre lo Spano e il giovane Mundula furono condannati a pene detentive (106). A Livorno nello stesso periodo era giunto insieme con la moglie un altro angioiano, l’avvocato Domenico Solis, già assessore provvisorio della Reale Governazione nominato da Angioy, scampato fortunosamente alla morte; andò a stabilirsi a Pisa «dove nascosto si trattiene» (107). Un altro degli esuli angioiani, «o almeno supposto tale», come scrive il Cossilla, otterrà a Genova nello stesso periodo il passaporto per rientrare in Sardegna. Il sospetto del Cossilla non era infondato. Il De Lorenzo, che fu vicino all’Angioy durante il periodo cagliaritano, si scoprirà essere un delatore passato alla parte avversa (108). Ai primi di agosto, inoltre, si presenta al console di Livorno l’abate di Salvenero Gian Francesco Simon: «dal lungo discorso con esso avuto – annota il Rebuffo – compresi esser molto aderente al Signor Angioi; e nell’indecisa determinazione in cui si trova per proseguire il suo viaggio mi fa argomentare, che piuttosto sia in traccia del medemo, e che qui voglia attendere assieme a qualche altro soggetto suo partitante di Cagliari, che da quel Regno si era fatto partire, o che qui deve giungere» (109).

Nella seconda metà di agosto giungerà nel porto toscano anche il fatello minore dei Simon, il canonico della cattedrale di Alghero Giambattista,  e Antonio Maria Petretto, fratello di Vincenzo, incaricato di riportare in Sardegna gli ordini dell’Angioy dopo l’incontro con il generale Bonaparte.

Angioy e i suoi accomnpagnatori, ripartiti da Livorno, via Firenze, Bologna e Ferrara, erano finalmente riusciti a intercettare Napoleone a Castiglione delle Stiviere, in Lombardia, presso Mantova, tenuta d’assedio dall’esercito francese dal 30 maggio. Era la fine di luglio e di lì a pochi giorni, il 5 agosto, le truppe di Napoleone avrebbero avuto una brillante vittoria sulle truppe austriache del generale Wurmser proprio sui campi di Castiglione (110). Nella cittadina lombarda l’Angioy non poté parlare direttamente con Napoleone, che incaricò di riceverlo il conterraneo Cristoforo Saliceti, che si era già interessato della Sardegna ai tempi dell’invasione del 1793. Con il Saliceti l’ex Alternos ebbe lunghi colloqui anche a Milano. Il Commissario corso dimostrò sincero interessamento per la causa sarda, ma non poté dare assicurazioni concrete di un imminente intervento francese perché ciò non era contemplato nel Trattato di pace con il Piemonte firmato a Parigi il 15 maggio. Riuscì comunque ad evitare che l’Angioy e i suoi amici fossero tratti in arresto, come insistentemente chiedeva il governo piemontese tramite il suo commissario presso l’esercito francese a Milano conte Borgese in virtù proprio del trattato di alleanza tra i due Stati.

 

 

8. La sera del 6 agosto 1796, come riferisce il console Rebuffo, da Milano Angioy era rientrato a Livorno «con quatro suoi seguaci Giachino Mundula, D. Francesco Moroni col fratello Salvatore, ed Emmanuele Crobu» (111). Del rientro di Angioy il console era stato «subito avvisato» dal capitano Barigello e da «un Religioso ex Provinciale del suo Ordine in Sardegna» (112), residente a Livorno. Al momento del suo arrivo a Livorno, nell’ultima decade di luglio, Angioy si era affidato a questo religioso, che qualche anno prima era stato provinciale dell’Ordine dei frati di San Giovanni di Dio a Cagliari e che egli sicuramante conosceva; a lui aveva consegnato «i suoi migliori e ricchi effetti» (113). Il buon religioso, «affetto qual vero suddito di Sua Maestà» (114), messo sull’avviso dal console Rebuffo, diviene suo confidente e gli rivela tutti i movimenti e i divisamenti dell’Angioy e dei suoi seguaci. Fu tramite questo canale che il console individuò con precisione la locanda dove Angioy e i suoi erano alloggiati; non solo, ma ottenuta dal governatore granducale l’autorizzazione, li aveva fatti arrestare e solo dopo che le autorità toscane constatarono che erano forniti di salvacondotto francese furono rilasciati. I fratelli Muroni in questa circostanza volevano dare ad intendere di essere veneti! Il dispaccio del console al ministro degli Esteri in data 10 agosto 1796 offre un quadro gustoso e vivace del drappello di esuli sardi a Livorno che val la pena riportare integralmente: «Il Giammaria Angioi con quatro suoi seguaci Gioachino Mondula, D. Francesco Moroni col suo fratello Salvatore, ed Emmanuele Groto [recte Crobu] giunse in questa Città la sera de’ 6 corrente, dalla nota persona religiosa ne fui subito avvisato, non meno che da questo Capitano Barigello che avevo incombenzato; mi portò subito da questo Signor Governatore di S.A.R. il Gran Duca, al quale feci finalmente istanza per il tratenimento di dette persone co’ loro effetti, che nel momento mi concesse, e diede ordine alla sua squadra di eseguirlo, come fu senza ritardo effettuato nella locanda di S.t Marco, ove erano alloggiati, ma convenne nell’atto stesso di rilasciarlo, per aver fatto vedere un salvacondotto stato registrato apresso questo Governo Toscano che lor fu spedito da questo Generale francese Vaubois d’ordine del commissario Saliceti che ne scrisse al Direttorio Esecutivo, non ostante non si credono sicuri, e sul timore, che da qui partano le truppe francesi, credo che ben presto si allontaneranno da questa Città, tanto più che sono mortificatissimi dell’arresto così seguito del Delorenzo stato spedito espressamente in Sardegna per rinvenirli, e ricondurli in quel Regno; i due fratelli Moroni poi vantano d’esser veneti e trattenutisi sei giorni in codesta Capitale»  (115).

Coll’inoltrarsi del mese di agosto arrivavano ai patrioti sardi in terraferma segnali contraddittori. Da una parte l’arresto degli sventurati compagni di viaggio dell’avvocato Gavino Fadda, in spregio all’assicurazione ricevuta dal Saliceti della operatività anche in Sardegna dell’amnistia per reati politici sancita dall’art. 8 del Trattato di Parigi, dall’altro l’arrivo a Livorno di Antonio Maria Petretto, il quale assicurava essere costantemente viva nell’isola la rivolta antifeudale, per cui l’Angioy si accingeva a rimandarlo in Sardegna per assicurare i suoi seguaci che egli aveva concrete assicurazioni dalla Francia dell’interessamento per la causa della Sardegna. «Il Signor Angioi – scriveva il console di Livorno il 25 agosto – dimani rispedisce in Sardegna il suddetto Antonio Maria Petreto, per assicurare quei suoi compagni, che dalla Nazione francese non solo ha ottenuto quanto gli ha domandato, ma la promessa ancora di qualunque somma di denaro bisognevole per effettuare a dovere la loro intrapresa, la quale verrà diretta da due buoni ufficiali francesi, ma che conviene aspettare l’arrivo del Commissario Saliceti che deve procedere a giorni, per seco lui concertare la spedizione, che si farà in tutta segretezza dalla Corsica, per esservi ora in quell’Isola, oltre un imponente partito contro la Nazione inglese, introdotto un corpo considerevole di truppe francesi per scacciare gli Inglesi, la quale però non si effettuerà se prima li Francesi non saranno padroni della Sardegna, per impedirgli l’ingresso in quel Regno, ove hanno, sebben debole, un partito, segnatamente in Cagliari» (116).

Si favoleggiava che l’Angioy avesse con sé la considerevole somma di quattromila scudi e che a Genova starebbe reclutando uomini per associarli alla sua impresa. Pare che egli sia tanto sicuro dell’imminenza del suo ritorno vittorioso in Sardegna, che a Livorno fa mostra di sé. «Sin ora – si legge nel succitato dispaccio del Rebuffo -  compariva ben poco in pubblico, ma ieri sera dopo l’arrivo dell’Espresso si fece vedere ne’ più frequentati posti di questa Città molto allegro, accompagnato da tutto il suo seguito, in cui molto si distingue Gioachino Mondula, come Capo in secondo dei quei Briganti. Le giornaliere notizie, che ricevo sull’andamento di questi scellerati Sardi mi vengono pur anco date da quel certo Salvatore Moglie nominato da Vostra Eccellanza» (117).

In realtà, almeno a credere ai riscontri ufficiali francesi indirizzati al governo piemontese, l’Angioy a Milano non aveva ricevuto particolari promesse. Tutt’altro! Il commissario francese a Milano Garrau assicurava il delegato sabaudo Borgese «che erano insussistenti i riscontri pervenuti alla prefata Segreteria intorno alle macchinazioni del Signor Angioi, cui la Repubblica Francese non ha promesso, né accorderà giammai verun soccorso in uomini, denari, o munizioni per l’eseguimento dell’ideata invasione della Sardegna, nella quale mi protestò anzi non si sarebbe mai presa dalla Repubblica Francese veruna ingerenza» (118).

Non solo, ma il Saliceti, che negli ultimi giorni d’agosto si era messo in viaggio per Livorno, al suo arrivo nella città toscana avrebbe ricevuto dal console Rebuffo l’istanza del ministro degli Esteri piemontese per procedere all’arresto dell’Angioy.

Non è improbabile, tuttavia, che il Saliceti si fosse lasciato andare, durante i colloqui milanesi, a qualche promessa di troppo relativamente alla Sardegna, anche se ciò non corrispondeva alla posizione ufficiale del governo francese. Angioy e gli angioiani, infatti, a fine agosto  erano molto fiduciosi e attendevano con impazienza l’arrivo a Livorno del commissario Saliceti. Nell’attesa mantenevano fitti rapporti con i comandanti delle truppe francesi di stanza a Livorno, i generali corsi Cervoni e Gentili.

Intanto, nella seconda metà di agosto, aveva raggiunto la comitiva degli esuli un importante personaggio: l’abate di Salvenero Gian Francesco Simon. «Il Signor Angioi, a cui ora si è aggionto l’Abbate Simon di Salvenero, attende con impazienza l’arrivo del Commissario Salicetti, che in ora non è ancora comparso, nel mentre giornalmente conferisce con questi Generali Cervoni, e Gentile di Nazione Corsa, per poter partire per la Corsica, e di là trasferirsi in Sardegna, stante li frequenti espressi, che qui li giongono da quest’ultimo Regno, da dove li fanno premura di accelerare per quanto può il suo arrivo, perché temono d’essere prevenuti dagli Inglesi» (119).

La presenza a fianco dell’Angioy di Gian Francesco Simon dovette essere particolarmente preziosa per una valutazione realistica della situazione politica complessiva in relazione alle sorti della Sardegna e dei rivoluzionari sardi. Il Simon, persona di grande intelligenza e di fine intuito politico, scevra da posizioni radicali e avveniristiche, aveva ben compreso che la situazione politica generale, dopo che il Piemonte a seguito del Trattato di Parigi, era di fatto alleato della Francia repubblicana, non consentiva al Direttorio Esecutivo alcuna concessione alle aspettative e ai desideri del movimento rivoluzionario sardo. Sotto il profilo diplomatico, esisteva una sola condizione per favorire l’intervento della Francia in Sardegna: un tentativo dell’Inghilterra, ancora belligerante con la Francia repubblicana, di impossessarsi dell’isola, producendo così uno squilibrio di basi navali nel Mediterraneo, che avrebbe imposto alla Francia un intervento bellico riequilibratore. Poiché siffatto scenario era molto improbabile, era prudente consiglio porre da parte i sogni di un pronto riscatto della sconfitta subita dalla «sarda rivoluzione» e agire in aderenza ai dettami della Realpolitik, imperniata sul Trattato di pace che sanciva l’alleanza tra la Francia e il Piemonte. In questa situazione, senza chiudere del tutto la speranza, molto remota, di un intervento militare della Francia in Sardegna in appoggio all’ancora vivo movimento antifeudale, era necessario imboccare la via della pace, della riconciliazione e della disamina serena e coraggiosa delle ragioni che avevano portato alla ribellione dell’Angioy nel mese di giugno.

Dovettero essere di questo tenore le riflessioni e le valutazioni che l’abate di Salvenero sottopose all’Angioy – sicuramente non condivise dall’altro importante membro del movimento antifeudale, il giacobino Gioacchino Mundula – che portarono al lento maturare, nell’animo dell’ex Alternos, della convinzione che era necessario procedere ad una giustificazione della sua condotta davanti al re, che del resto era la stessa richiesta che egli aveva fatto al governo viceregio da Oristano con la nota lettera dell’8 giugno, sebbene allora l’intervento della Francia fosse più auspicato che non assicurato. In Angioy questa convinzione doveva essere già matura se nel dispaccio del console Rebuffo del 31 agosto egli poteva esprimersi nei termini seguenti: «Nonostante però tutte le promesse avute d’ogni sorta d’assistenza a suo favore in Sardegna da qualche giorno si trova molto inquieto, e per quanto si spiegò colla nota persona religiosa, da cui ieri sera di notte mi portai per essere ammalata, preferirebbe di potersi a qualunque costo riconciliare con S.M. suo Sovrano, appresso di cui egli assicura di essere in grado di pienamente giustificare la sua condotta con tutte le carte autentiche di chi comanda in quel Regno, le quali lo hanno autorizzato a far commettere tante scelleratezze nella sua Patria, essendo egli non solamente stato tradito, ma assassinato di tutto il fatto suo da’ suoi Colleghi, li quali sebbene ora apparentemente dimostrino un ravvedimento, ed un vero attaccamento a S.M. macchinano continuamente contro di Essa, come ben presto si verificherà se colla sua spedizione gionto in Sardegna il suo partito supererà quello dei Realisti. Da tutti comunemente si dice che il Signor Angioi sia sempre stato il Giudice più stimato della Real Udienza per la sua integrità, e disinteressamento, dotato di tutte quelle virtù che formano un perfetto onest’uomo, ma che prevalendosi li ora riconciliati autori delle primarie insurrezioni, della sua timidità, e delle sue ricchezze, lo precipitarono nello stato in cui si trova. Perdoni se spinto da quel zelo … [mi sono permesso di] farle presente che potendosi ritrovare un mezzo per la prefata S.M. plausibile di sentire le discolpe del Signor Angioi, sarebbe nelle attuali circostanze molto prudenziale e conveniente, mentre privando l’Insorgenti che si trovano nell’interno di questo capo molto potente per li amici e parenti che ha non solo in Sardegna, ma nella Corsica il loro partito sarebbe interamente disfatto» (120).

La stessa notizia, fatta pervenire al governo sabaudo con il dispaccio del 31 agosto, viene confermata al console Rebuffo il 2 settembre da fonte sicura, l’ex provinciale dell’Ordine degli Ospedalieri con cui l’Angioy si confidava: il religioso riferiva che l’Angioy «desidererebbe a qualunque costo riconciliarsi col suo Sovrano, da cui spererebbe la grazia, se potesse avere il mezzo di presentargli una memoria colla quale potrebbe giustificare se non tutto, almeno in buona parte, la sua condotta, e nello stesso tempo illuminare S.M. delli intrighi che vi sono in Sardegna per mezzo di cui potrebbe prendere le opportune, e necessarie misure per conservare quel Regno, forse ora … mai conciliante. Egli ha molte corrispondenze con codesta Capitale, ed a quel che ho perinteso con persone distinte, delle quali non dispero sapere il nome» (121)

Questa nuova situazione vanificava in qualche modo la richiesta, che era stata continua e insistente, di ottenere l’arresto dell’Angioy, e che da ultimo il console Rebuffo aveva consegnato nelle mani del Saliceti il 4 settembre, appena giunto a Livorno (122). La risposta del commissario francese fu cortese, ma interlocutoria: riconosceva giusto che il vecchio sovrano sabaudo ricevesse  dal governo francese tutti quegli attestati di amicizia che il Trattato di alleanza aveva sancito, però era necessario che le accuse contro l’Angioy e i suoi seguaci venissero vagliate nella loro veridicità e consistenza da parte francese e solo in seguito si sarebbero adottate le misure più opportune. Intanto affidava la pratica della richiesta di arresto e di estradizione al console francese a Livorno Belleville, che gli avrebbe riferito in tempo congruo. Il console Rebuffo confermava inoltre ai ministri piemontesi che era volontà del governo francese di non secondare le aspettative rivoluzionarie degli angioiani; nel contempo gli risultava che l’Angioy decantava ancora l’appoggio francese e vantava «che il suo partito sempre più aumentava in Sardegna» (123). Lo stato di attesa e di fermento in cui si trovava la Sardegna veniva poco dopo confermato dalle informative trasmesse da Torino dal ministro Priocca all’ambasciatore a Genova Nomis di Cossilla (124).

Dal suo canto il Saliceti, nonostante le evanescenti assicurazioni formali date al console sabaudo, non manifestava nel concreto alcuna intenzione di procedere all’arresto dell’Angioy. Il 6 settembre egli, insieme al suo seguito, onorava l’Angioy  di una visita e lo assicurava «che nulla temesse, che tutto sarebbe andato bene»; il problema della conquista della Sardegna in seno al Direttorio Esecutivo francese sarebbe stato gestito dalla lobby corsa, che a breve si sarebbe fatta promotrice della riconquista della Corsica, temporaneamente caduta in potere degli Inglesi, e all’interno di questo piano avrebbe trovato attuazione anche la conquista della Sardegna. «Io credo benissimo – scriveva il console Rebuffo al ministro Priocca – tutto ciò che avrà detto il Signor Garrau ma debbo altresì persuadermi, che forse di nulla sia informato, perché maneggiato l’affare da soli soggetti di Nazione Corsa, alli quali nel tentare il recupero della Corsica potrebbe anche premere d’aver nelle mani l’Isola di Sardegna. Giacché se si deve prestar fede a qualche Politico Illuminato, venendo la Corsica recuperata, si erigerà in Repubblica dipendente e sotto la protezione della Francia, e verrà il supremo comando conferto al Salicetti e al Generale Bonaparte, e li altri impieghi più luminosi a’ Generali Gentile, Cervoni e Cosatta. Si sta ultimando il piano per la spedizione della Corsica per il cui effetto giornalmente giongono le truppe corse al servizio della Francia» (125).

Che la rivolta antipiemontese e antifeudale tra le popolazioni del Capo settentrionale fosse sempre viva e minacciosa, era unanimemente confermato da tutti i riscontri che provenivano dalla Sardegna. Il rientro in patria di alcuni dei seguaci dell’Angioy che l’avevano accompagnato nella fuga, come Cosimo Auleri e i fratelli Muroni, non solo alimentavano l’aspettativa di un imminente ritorno dell’Angioy, ma ponevano in atto imprese ardimentose, come quella del tentativo di conquistare Sassari per liberare i prigionieri rinchiusi nelle carceri di San Sebastiano o l’incursione armata contro i fautori del governo viceregio a Bonorva (126). La situazione era tale che lo stesso console Rebuffo, probabilmente indottovi da influenti personalità franco-corse presenti a Livorno, suggeriva al proprio governo che forse, nell’atteggiamento nei confronti dei fuorusciti sardi, era opportuno cambiare strategia: lasciando da parte le insistenti richieste di arresto dell’Angioy, era più conveniente assecondare il desiderio di costui di recarsi a Torino munito di salvacondotto per essere messo nelle condizioni di spiegare al sovrano le motivazioni della rivolta antifeudale. «Io non posso a meno di far presente – egli scriveva al ministro Priocca – che l’Angioi sarà assistito in tutte le sue dimande. Se il colpo riuscirà, poco importerà che si sappia chi vi abbia cooperato, in caso contrario, tutto resterà sepolto. Il suo partito sempre più aumenta nella Sardegna, massimamente che que’ Villici sono assicurati, che ritornando Angioi saranno liberati dalle tirannie e dalla schiavitù di quei feudatari. Onde permettami, che nuovamente mi prenda l’ardire di ripeterle, che il migliore, e più sicuro spediente per garantire quel Regno, e liberarlo da ulteriori vessazioni, e spargimento di sangue, sarebbe che S.M. si determinasse a far anche questo sacrificio di prontamente chiamare in cotesta Capitale con un salva condotto l’Angioi a giustificarsi, giacché egli disse alla nota persona di Religione che è in grado di farlo con carte autentiche, e di sviluppare li maneggi, che con rafinatissima machiavelica si fanno da chi ha le redini in mano di quel Regno. Con questo mezzo ogni partito, ed attentato viene dissipato, l’Angioi col denaro, che ha appresso, se non in tutto, in parte almeno risarcirà li danni fatti» (127).

 

 

9.  Molto si è congetturato, in sede storiografica, sui motivi che spinsero l’Angioy a sottoporre al sovrano una memoria giustificativa del suo operato. Dionigi Scano ha accreditato la tesi che l’iniziativa di invitare a Torino l’Angioy per sentirne le ragioni fosse frutto di un’iniziativa del nuovo sovrano Carlo Emanuele IV, che era succeduto al padre Vittorio Amedeo III il 16 ottobre 1796. Secondo il biografo dell’Angioy, il nuovo re avrebbe avuto, tra le prime sue cure, «di esaminare la condizione della Sardegna, ancora sconvolta dalle agitazioni, provocate in buona parte dalla spietata reazione del governo viceregio» (128). Sulla scorta della nuova documentazione raccolta dal generale Lo Faso – e ciò ne avvalora l’importanza per una più approfondita conoscenza della vita dell’Angioy in un periodo ancora assai oscuro – la vicenda della giustificazione dell’Angioy va letta in modo assai diverso. In primo luogo, l’iniziativa di proporre un chiarimento non partì affatto dal nuovo sovrano, ma dall’Angioy e dal suo entourage già dai primi di settembre 1796, cioè un mese e mezzo prima della morte di Vittorio Amedeo III. Carlo Emanuele IV può avere, come si vedrà, facilitato l’operazione, ma non ne fu in nessun caso né il proponente né l’artefice. La proposta nacque, con ogni verisimiglianza, da un suggerimento di Gian Francesco Simon, che nella seconda metà di agosto, xome si è detto, si trovava con Angioy a Livorno ed essa fu immediatamente accolta dai responsabili del governo francese, in primo luogo dal commissario generale della Repubblica Saliceti, che si trovavano nella difficile situazione di dover rispondere come alleati alle richieste di arresto del capo dei rivoluzionari sardi e al tempo stesso di non tradire la fiducia di chi aveva chiesto asilo politico e protezione alla Francia.

La giustificazione dell’Angioy non ebbe però mai, nelle intenzioni dei proponenti, il significato di una resa senza condizioni al governo piemontese o di un gesto di resipiscenza di chi riconosceva di avere percorso una strada sbagliata. Nell’Angioy restava ferma la convinzione della onestà del suo operato al fine di sradicare il sistema feudale dalle campagne della Sardegna, e la cosiddetta ‘giustificazione’ doveva costituire un’occasione importante per riaffermare la validità di quel moto di ribellione delle popolazioni sarde e un mezzo per giungere ad una mediazione che portasse alla soluzione del problema politico e sociale, riannodando le fila con la politica riformista a suo tempo posta in essere dal viceré e dagli Stamenti e superando le turbolenze e lo stato di guerra civile cui aveva condotto il ripiegamento su posizioni reazionarie degli Stamenti, della Reale Udienza e del viceré. Non è un caso che gli angioiani, all’atto stesso in cui decidevano di percorrere questa strada, continuavano a incitare le popolazioni a non demordere dalla lotta contro i feudatari e contro la politica repressiva del governo viceregio, agitando lo spauracchio di una nuova invasione francese. Pur essendo ormai consci della oggettiva impraticabilità di quest’ultima aspettativa, non volevano tuttavia deporre per primi le armi, mentre il governo viceregio, tramite un tribunale speciale e spedizioni punitive contro le popolazioni riottose, continuava a seminare il terrore con una feroce repressione e a consumare sui superstiti angioiani una vendetta politica inaudita. L’operazione della ‘giustificazione’ nasceva, quindi, da un ponderato calcolo politico, da portare avanti, se non da posizioni di vantaggio, quanto meno da una posizione di pari dignità delle parti, in quanto tutta l’operazione si svolgeva sotto l’ala protettiva e l’avallo della Repubblica francese, alleata dello Stato piemontese. E’ questo il quadro che si intravvede dalla missiva del console sabaudo al ministro degli esteri in data 14 settembre 1796: in esso, infatti, mentre si dà conferma che l’Angioy «sta compilando una memoria da rassegnare a Sua Maestà» (129), protetto e sostenuto finanziariamente dalla Francia, viene altresì assicurato che egli, non solo continua la sua corrispondenza con i capi della rivolta antifeudale rientrati nell’isola, ma si accinge a mandare in patria un suo emissario munito di un piano rivoluzionario e di «lettere per sollevare quei popoli» (130).

La richiesta di ‘giutificazione’ dell’ex Alternos presso il sovrano è oggetto di opposte interpretazioni. Il priore del convento dei frati di San Giovanni di Dio e il console Rebuffo parlano, infatti, di un atto di «ravvedimento», di un ricondursi del reo «nel dritto sentiere da cui ha traviato» (131), l’Angioy e gli amici francesi intendono invece tutta l’operazione solo come un chiarimento delle giuste cause che avevano determinato l’azione dell’ex Alternos. Conscio dei pericoli insiti nell’atto che si accinge a compiere e soprattutto dei travisamenti cui esso avrebbe sicuramente dato adito, Angioy appare, in queste settimane, avvolto in una tempesta di dubbi, paralizzato da un groviglio di ragioni contrapposte, vere e proprie antinomie politiche, ai suoi occhi tutte razionalmente valide. Egli non può, e non vuole, operare concretamente perché i suoi seguaci pongano fine allo stato di agitazione delle popolazioni del Logudoro, fomentato dal rientro nell’isola di Cosimo Auleri e del parroco di Semestene Muroni, nonché validamente sostenuto dal cognato Felice Mulas Rubatta, perché ciò equivarrebbe  ad un oscuramento del suo carisma e ad una implicita sconfessione del suo operato (132). Non può neppure trattenere il più valido tra i suoi collaboratori, l’avvocato Giacchino Mundula, il quale, scettico sulla validità della scelta della ‘giustificazione’ presso il sovrano, ha deciso di trasferirsi in Corsica, dove, da Bastia tenterà con ogni mezzo di tenere viva in Sardegna l’aspettativa di una nuova spedizione francese (133). Non può pretendere, considerata l’alleanza della Francia con il Piemonte, che la Repubblica francese possa disattendere il Trattato di pace, ma allo stesso tempo non può fidarsi ciecamente delle buone intenzioni del governo di Torino, che fino a pochi giorni prima aveva insistentemente richiesto il suo arresto alle autorità francesi e toscane, e che avallava imperterrito la repressione in Sardegna. Non poteva neppure disattendere il parere autorevole dei più moderati e politicamente smaliziati tra i suoi seguaci, come l’abate di Salvenero e il visconte di Flumini, con i quali si era a lungo consultato prima del loro trasferimento a Pisa (134). Inoltre nutriva il timore che il governo sabaudo, una volta che egli si fosse recato a Torino, potesse imprigionarlo, nonostante la protezione che gli veniva garantita dalla Francia (135). A convincerlo della opportunità del passo, infine, si era aggiunta la presenza a Genova di un altro autorevole personaggio, che era stato a suo tempo una delle teste pensanti della «sarda rivoluzione»: attorno alla metà di settembre sicuri riscontri segnalavano la presenza di Domenico Simon. L’ex sindaco dello Stamento militare, che si era recato a Torino in occasione delle missione stamentaria del 1793, senza fare ritorno in Sardegna, ora, postosi al seguito dell’arcivescovo Melano, che attendeva il mare propizio per potersi imbarcare alla volta di Cagliari dopo avere concluso positivamente la missione affidatagli dagli Stamenti nel settembre 1795, era determinato a rientrare in Sardegna. E’ da ritenere che questa inaspettata comparsa del maggiore dei fratelli Simon, politico accorto e di temperamenti moderati, abbia contribuito a rafforzare la decisione dell’Angioy di giocare la carta della ‘giustificazione’. Inoltre non è da escludere che, dietro la decisione di Domenico Simon di rientrare in Sardegna al seguito dell’arcivescovo Melano, vi fosse la volontà di tentare in extremis una mediazione politica presso gli antichi promotori della «sarda rivoluzione» dell’ormai lontano 1793 (136).

Dopo la decisione di Angioy di recarsi a Torino per ‘giustificare’ il suo operato, tra il 2 e il 6 settembre 1796 il console Rebuffo faceva pervenire la richiesta al ministro Priocca. Il 28 settembre, dopo un informale assenso di Torino, il Rebuffo chiese un incontro con l’Angioy, durante il quale gli comunicò le condizioni poste dal governo piemontese: indirizzare una richiesta formale  al ministro, corredata da una circostanziata memoria giustificativa. Nel corso del colloquio il console compì ogni sforzo per convincere il suo interlocutore a rescindere ogni contatto con i francesi, ma Angioy fu irremovibile. Egli comunicò al Rebuffo che lo scritto che avrebbe inoltrato al ministro piemontese sarebbe stato da lui sottoposto all’attenzione del console francese Belleville «per rapportarne il consenso, giacché avendogliene già parlato, non s’oppose di ricorre al Sovrano, ma che prima di darli corso, desiderava di vederlo» (137).

Il primo ottobre il console Rebuffo riceveva dall’ Angioy la richiesta  memoria e in quello stesso giorno la spediva  al ministro Priocca. All’atto della consegna, tuttavia, il Rebuffo ebbe l’impressione che Angioy non fosse  del tutto convinto e fermo nelle sue risoluzioni. «Compiegata trasmetto a Vostra Eccellenza la memoria, che questa mattina finalmente mi rimise in camera della nota persona Religiosa il Signor Angioi, il quale però non trovai totalmente fermo nelle sue risoluzioni. Nel consegnarmela mi disse di averla prima fatta vedere a questo Signor Console francese, per non demeritare appo della Repubblica, sotto la cui protezione egli vive; dal contenuto di essa Vostra Eccellenza comprenderà bastantemente quali siano li suoi sentimenti, che vengono agitati dal timore, e dall’amore della sua famiglia, dalla vendetta, e regolati da persone affatto opposte al suo carattere, che in fondo conserva ancora onesto, e sincero, ma converrebbe per farlo ravvedere, allontanarlo al più presto da questo Stato» (138).

Due giorni dopo, il 3 ottobre, nel corso di un colloquio con il Rebuffo, il console Belleville ribadiva di avere caldamente consigliato all’Angioy di redigere quella memoria, in virtù della quale il sovrano «avrebbe dovuto graziarlo, perché onest’uomo, e pieno di attaccamento per il Sovrano, e per lo Stato» (139). Rivelava inoltre, particolare ignoto al console sabaudo, che l’Angioy gli aveva anche consegnato «un piano di commercio da aprirsi tra la Francia e la Sardegna, che per essere meglio eseguibile e vantaggioso credette doveroso mandarne un’estratto al Ministro dell’Estero in Parigi» (140). Il piano di commercio, ovviamente, non era stato accluso alla richiesta spedita a Torino: esso doveva servire solo all’interlocutore francese. Angioy, dunque, perseverava nella sua linea di tenere, come si suol dire, i piedi su due staffe. Differentemente dai suoi più diretti interlocutori, che sia per la parte sabauda che per la parte francese erano personalità minori, forse non del tutto capaci di cogliere fino in fondo il senso dell’agire di Angioy, questi era ben persuaso di compiere atti squisitamente politici, non di ravvedimento, come amava credere il console Rebuffo; pertanto, in una situazione in movimento, aperta ad esiti i più disparati, Angioy, da saggio uomo politico, percorreva tutte le strade capaci di offrire una soluzione ai problemi, senza affidarsi esclusivamente all’una o all’altra. Entrambi i partiti sembravano offrire, ad Angioy uomo politico, dei vantaggi; per tale motivo occorreva percorrere entrambe le strade. A rafforzare in lui questa convinzione, un realistico calcolo politico che all’ingenuo poteva apparire un atteggiamento di doppiezza, attorno al 10 ottobre gli giungeva la notizia dell’avvenuta esecuzione capitale a Sassari dell’avvocato Gavino Fadda, di Giovanni Antonio Carta e di Antonio Vincenzo Petretto (141). Oltre a rafforzarlo nella convinzione della necessità di operare su entrambi i binari, le notizie provenienti dalla Sardegna lo rendevano particolarmente inquieto e talvolta dubitoso sul viaggio a Torino, per il quale attendeva con ansietà la risposta del ministro Priocca.

Il 16 ottobre, a seguito della morte di Vittorio Amedeo III, era salito al trono Carlo Emanuele IV. Tale avvicendamento non pare abbia intralciato la pratica relativa al viaggio di Angioy a Torino, anche perché la compagine governativa aveva subito poche variazioni, di cui la più significatica fu la sostituzione del conte Galli con il marchese Della Valle alla guida del dicastero degli Interni, cui era affidata la trattazione degli affari di Sardegna (142).

Sebbene il console Rebuffo sottolineasse nei suoi rapporti ai ministri torinesi una certa doppiezza nell’agire dell’Angioy, che mentre dilazionava ad arte la consegna ai ministri sabaudi del piano di commercio a suo tempo fatto pervenire ai francesi, sapeva per certo che egli «era in continue conferenze, e che ben poco si aveva da sperare  di suo ravvedimento» (143), alla fine di ottobre il ministro Priocca fece pervenire all’Angioy il salvacodotto per il viaggio a Torino. In data 2 novembre Angioy spediva al ministro piemontese una lettera di ringraziamento  e si impegnava a raggiungere la capitale subalpina non appena le sue condizioni di salute glielo avessero consentito. Le diffidenza del console Rebuffo, tuttavia, neanche ora veniva meno, soprattutto perché egli seguiva con la meticolosità del segugio gli spostamenti e le frequentazioni dell’Angioy: «temo – commenta a proposito della lettera scritta in risposta al ricevimento del salvacondotto – che sarà molto verbosa, e poco concludente, come lo fu la sua Promemoria, perché al solito avrà prima consultato da chi, dice, aver qualche dipendenza; ed in seguito coll’Abbate Simon di Salvenero, col Visconte De Flumini, e col famoso Dottor Mondula, da quali è sempre attornato» (144).

Dal 2 al 15 novembre Angioy scompare dalla circolazione, tanto che il console dubita che sia in procinto di partire per la Corsica, dove si è già recato il Mundula. Il 16 novembre Angioy, che nel frattempo ha ricevuto riscontri e assicurazioni dal ministro degli Interni marchese Della Valle, ha un lungo colloquio con il console Rebuffo, al quale comunica che è in procinto di partire per Torino. Infatti si mette in viaggio il 18 novembre in compagnia del suo segreterio Emanuele Crobu. Giunto a Genova, vi si trattiene alcuni giorni; tra l’altro nella capitale ligure egli incontra, come riferisce l’ambasciatore Nomis di Cossilla, l’arcivescovo di Cagliari monsignor Vittorio Melano, per cui è da auspicarsi «che metta in pratica i prudenti, e savi consigli che ha ricevuto da questo degno prelato» (145). La documentazione in esame non riporta altri particolari di questa tappa del viaggio dell’Angioy e non viene detto se abbia incontrato anche Domenico Simon, che era stato segnalato al seguito dell’arcivescovo in attesa di imbarco per la Sardegna. Da questo momento nella documentazione non vi è più traccia  del maggiore dei fratelli Simon ed è da ritenersi che questi sia rientrato a Torino insieme al Melano, che nel frattempo era stato incaricato dagli Stamenti di rappresentare il Regno nella cerimonia del giuramento di fedeltà al nuovo sovrano (146). Di sicuro l’Angioy incontrò a Genova l’incaricato di affari francese Faypoult, che gli consegnò lettere commendatizie per l’addetto di affari a Torino Jacob.

«Non credendosi abbastanza sicuro per la solita strada», scrive il marchese Della Valle al viceré Vivalda nel dispaccio del 7 dicembre, Angioy è giunto a Torino, passando per Mondovì, il 6 dicembre «verso notte» (147). Nello stesso dispaccio il ministro spiega le motivazioni politiche  che hanno consigliato al governo di accogliere la richiesta di giustificazione, peraltro difficile da dimostrare secondo il Della Valle, inoltrata dall’Angioy. «Si è benissimo ravvisata la grave difficoltà – scrive il ministro -  che avrebbe incontrata a dare una piena giustificazione, ma si è altresì considerato, che stando egli in Livorno, e trattando continuamente con Francesi, de quali vantava la protezione, ed eziandio stabilita qualche intelligenza relativamente al Capo Superiore di codesto Regno, avrebbero potuto succedere, od almeno fomentarsi nuovi maggiori sconcerti, e turbolenze, come già se ne avea qualche riscontro, per cui si sono prese le misure contenute nelle due lettere particolari, che ho avuto l’onore di scrivere a V.E. gli 8, e il 12 del precorso ottobre, di maniera che colla venuta di detto Signor Angioi in Torino nulla si rischiava, e per altra parte si toglieva, per dir così, un fomite di attentati nel Capo di Sassari. Si vedranno ora le memorie, e rappresentanze, che darà, come anche ciò che saprà dir in voce, essendosi destinato il suddetto Signor Avvocato Fiscale Regio Cappa per sentirlo, ed avrò poi l’onore d’informare l’Eccelleza Vostra del risultato. M’immagino, che da più d’uno de’ Sassaresi, che qui ritrovansi verrà costì partecipato l’arrivo in Torino di detto Signor Angioi, e Vostra Eccellenza sentirà come tal cosa sarà costì intesa dalle persone più assennate, e vorrei dire dagli Stamenti medesimi, quantunque Ella ritenga in se questo dettaglio, e la prego quindi d’accennarmi tutti i chiarimenti che stimerà su tale proposito» (148).

 

 

10. La permanenza di Angioy a Torino, alloggiato nell’hotel Auberge, riverito dai simpatizzanti e inviso ai partigiani della feudalità sarda, durò solo 15 giorni, dal 6 al 21 dicembre 1796. Per ordine del re venne fatto partire a Casale, dove giunse la sera del 22 dicembre, sempre in compagnia del segretario Crobu. La decisione di mandare Angioy a Casale non è stata, come si suol credere, conseguenza delle eventuali ritorsioni o attentati di cui poteva essera oggetto a Torino. A quanto riferisce la segreteria di Carlo Emanuele IV nel dipaccio al viceré del 21 dicembre 1796, già dal momento in cui l’istanza dell’Angioy era stata accolta, il governo piemontese aveva deciso, una volta realizzato l’intento fondamentale che si riproponeva con l’operazione, ossia di allontanare l’ex Alternos da Livorno dove era troppo soggetto all’influenza dei suoi seguaci e dei francesi, di relegarlo a Casale «e colà guardarlo a vista» (149). Per motivi che la documentazione non chiarisce, forse dovuti a pressioni di parte francese, Angioy era stato stato indirizzato a Torino, dove peraltro era vigilato a vista (150). Il pavido Carlo Emanuele IV, già messo sull’avviso dalla feudalità sarda residente a Torino, per evitare ogni cattiva impressione sulla cosiddetta parte sana della classe dirigente sarda e degli Stamenti, attorno al 20 dicembre «ordinò di portar li suoi ordini a chi doveva per farlo partire subito per Casale» (151). Sebbene nella documentazione non se ne faccia cenno, da altra fonte sappiamo che l’Angioy a Torino ebbe contatti con il ministro degli Interni marchese Della Valle, con il ministro degli Esteri Clemente Damiano di Priocca, con il segretario del re conte Viretti e con l’avvocato fiscale regio Cappa; per interposta persona ebbe contatti anche con l’addetto di affari francese Jacob (152).

Prima della partenza per Casale il sovrano, recependo l’istanza dell’avvocato fiscale Cappa, il 12 dicembre inoltrava al viceré Vivalda a Cagliari la richiesta del fascicolo processuale costruito contro l’Angioy (153). I responsabili del governo, dai colloqui avuti con l’Angioy, avevano chiaramente compreso che cosa egli si prefiggeva col suo viaggio a Torino e le loro aspettative non collimavano affatto con quelle dell’ex Alternos. «L’intenzione dell’Angioi – scriveva il Della Valle al viceré il 21 dicembre – non è altro salvo di far vedere, che ha osservato le istruzioni stategli date alla sua partenza da Cagliari, e che fu tradito, con caricare Vostra Eccellenza ed il Reggente Cocco. Consideri se potrà essere creduto, e non basta il male che ha fatto in Sardegna perché deve aggiungersi quello che ha tentato di fare a Livorno. E si compiaccia Vostra Eccellenza di ritenere in se quanto sopra che per ordine di S.M. ho l’onore di comunicarle» (154).

L’atteggiamento del governo di Torino nei confronti dell’Angioy durante i dieci mesi della sua permanenza in Piemonte fu attendista e dilatorio. Difficilmente, però, avrebbe potuto essere diverso. Infatti, se aveva conseguito l’obiettivo di allontanare l’Angioy dai suoi seguaci e da un luogo dal quale era in grado di seguire e indirizzare la rivolta in Sardegna, non poteva però giudicare il suo operato né positivamente né negativamente. Pronunciare un giudizio di assoluzione, o quantomeno emettere un verdetto che alleggerisse il peso delle sue respnsabilità, equivaleva a sconfessare l’operato del viceré e degli Stamenti; giudicarlo colpevole equivaleva a disattendere le aspettative implicite e gli accordi con la Francia alleata e contribuire a riaccendere in modo forse irreparabile la situazione di ribellione delle popolazioni sarde, facile esca della propaganda rivoluzionaria dei fuorusciti, in particolare di Gioacchino Mundula, che si era trasferito a Bastia in concomitanza con la partenza dell’Angioy per Torino e donde continuava a incitare alla resistenza e alla rivolta contro il governo dei piemontesi e dei feudatari che egli definiva nelle sue  missive un «governo intruso». Questo pericolo assumeva un peso ancora maggiore specialmente ora che la Francia aveva ripreso possesso della Corsica strappandola agli Inglesi (155).

Alloggiato temporaneamente con il segretario Crobu all’Albergo della Posta di Casale, in ottemperanza al desiderio del re e al fine di procurare all’Angioy la tranquillità necessaria per la stesura di un organico memoriale, già dal 27 dicembre il ministro degli interni sollecitava il governatore di Casale conte Della Torre, incaricato di una stretta sorveglianza dell’ospite, di favorire il suo trasferimento in un convento della città. Tale trasferimento avvenne il 7 gennaio 1797, quando il priore del convento degli Agostininai, «in esecuzione della Regia intenzione, ha … ricevuto nel suo  convento il Signor D. Gio. Angioi col suo Segretario Signor Emanuele Corba [recte Crobu] ai quali somministrerà ogni cosa di loro convenienza» (156). Quasi non fossero sufficienti le raccomandazioni del ministro Della Valle per una stretta vigilanza sull’Angioy, a rafforzare tale raccomandazione si aggiungeva ora con una nota personale l’ex ministro degli Interni conte Pietro Graneri, sicuramente indottovi dai parenti ed amici dei feudatari sardi in Torino, dalla cui cerchia proveniva la contessa Graneri (157).

Da Casale l’Angioy, impegnato a redigere i suoi memoriali, intratteneva una fitta corrispondenza con Ludovico Baille a Torino, con certo «cittadino Castellini» a Genova, con Andrea De Lorenzo a Cagliari e con Gioacchino Mundula a Bastia (158). L’attivismo dei fuorusciti angioiani riparati in Corsica, le cui file si andavano notevolmente ingrossando costituiva, come testimonia la documentazione, la maggior preoccupazione del governo di Torino durante la prima metà del 1797. A seguito degli allarmistici dispacci del viceré, il ministro degli Esteri Priocca sollecitava dalla Francia alleata « per ottenere l’arresto, o almeno l’allontanamento dalla Corsica di Dn Gio Maria Angioi, e del Dr Gioachino Mundula, e di altri rivoluzionari loro seguaci, che si suppongono ivi ricoverati, e che continuino da colà a turbare la pubblica quiete e tranquillità del Regno eziandio colla minaccia d’un prossimo loro sbarco nel medesimo con una quantità di Corsi» (159). Poiché numerose voci incontrollate davano presente a Bastia, insieme al Mundula, lo stesso Angioy, il marchese Della Valle doveva rassicurare il reggente Gavino Cocco che l’ex Alternos « è venuto in Piemonte con passaporto al fine di giustificarsi al quale effetto sta in Casale lavorando la rappresentanza ovvero memoria da presentarsi onde deve cessare il maggior timore che si era concepito per la voce che si fosse recato in Bastia per reclutare tutta la feccia di que’ nullatenenti facinorosi, e perché tal voce erasi anche più volte sparsa in Torino, e si aveano molti riscontri da Livorno ch’egli trattasse co’ Francesi si è per ciò stimato di aderire alla di lui istanze di venire in Piemonte perché in tal guisa non avrebbero più potuto da di lui aderenti millantarsi soccorsi ed ajuti stranieri ma avrebbero anzi concepito un timore di venire affatto abbandonati, e scoperti nelle loro ree machinazioni» (160). Quanto al Mundula, la sua azione di propaganda a Bastia è intensa e continua; secondo quanto raccontano passeggeri provenienti dalla Sardegna  che transitano da Bastia per raggiungere Livorno, «si è inteso che il Mondula sempre si vanta di andar a liberare la Patria dall’attuale intruso Governo, giacché in mancanza dell’Angioi, si è dovuto egli erigere Capo della spedizione, che quanto prima si dovrà fare per quel Regno» (161).

L’istruzione della pratica dell’Angioy, intanto, subisce dilazioni continue e immotivate. Solo l’11 aprile viene acquisito dal governo l’incartamento del processo Angioy proveniente da Cagliari e l’indomani viene formalmente consegnato all’avvocato fiscale Cappa (162). Questi ritardi, giudicati strumentali e densi di pericoli per la sua incolumità, inducono alcuni seguaci dell’Angioy a predisporre un piano per favorire la sua fuga da Casale sin dal mese di febbraio 1797 (163). Il canale attraverso cui l’Angioy continua la sua corrispondenza con la Sardegna e con il Mundula, è quello «d’un certo Sorba Sassarese, chirurgo della Nazione francese a Livorno» (164), che fa capo, a Torino, al citato Ludovico Baille, segretario particolare dell’ambasciatore della Corte di Spagna, e a Cagliari al console toscano Francesco Baille, zio di Ludovico (165). Tra le lettere che pervengono all’Angioy, vi sono quelle «di certo Rubato, cugino dell’Angioy» (166), che è da identificarsi con il nobile di Bono don Felice Mulas Rubatta, attivissimo nella propaganda e nella lotta antifeudale, che alla fine dell’estate sarà l’artefice della fuga di Angioy da Casale (167).

L’attività incessante del tribunale speciale istituito a Sassari contro gli angioiani, capeggiato dal giudice Giuseppe Valentino e le apprensioni per l’incolumità dell’Angioy, provocano alla fine di marzo 1797, dietro sollecitazione degli esuli sardi, una nota ufficiale dell’incaricato di affari francese Jacob al ministro degli Esteri Priocca (168). La nota denuncia tre atti del governo viceregio che la Francia giudica contrari al Trattato di pace con il Piemonte. Tali atti sono:

1°) il pregone viceregio del 20 giugno 1796, che stabilisce una taglia sul capo di Angioy, Gioacchino Mundula e l’avvocato Gavino Fadda, accusati di insurrezione contro i poteri dello Stato per atti compiuti nel corso della guerra tra la Francia e il Piemonte;

2°) le esecuzioni capitali, eseguite tra la fine di settembre e i primi di ottobre 1796, del citato avvocato Fadda e degli altri due patrioti Antonio Vincenzo Petretto e Antonio Maria Carta, e la condanna a pesanti pene detentive per i medesimi reati di Giuseppe Mundula e di Quirico Spano, arbitrariamente arrestati dal governo viceregio su un bastimento battente bandiera genovese;

3°) il pregone viceregio del 16 settembre 1797 con il quale, disattendendo un provvedimento regio del 5 luglio 1796, che riconosceva inclusi nell’amnistia per reati politici i fratelli Muroni di Bonorva, costoro venivano dichiarati non compresi nel provvedimento di clemenza, ribadendo la taglia sulla testa di essi come su quella dell’Angioy e di altri capi dell’insurrezione angioiana.

Pur non addebitando la responsabilità di quanto denunciato al governo del re, ma esclusivamente al viceré Vivalda, premesso che la Francia non avrebbe avuto alcunché da obiettare per delitti politici commessi dopo la firma del Trattato di pace, poiché il governo francese  «a tout lieu a penser qu’ils n’ont été condamnés ou proscrits que pour leurs opinions politiques manifestées avant le traité» (169), chiedeva al governo alleato:

1°) la revoca dei provvedimenti contestati;

1°) la sostituzione del viceré Vivalda con un altro viceré.

Era evidente che il passo ufficiale dello Jacob presso il governo piemontese nasceva  dalla necessità di arrestare la politica forcaiola del governo viceregio e della Delegazione sassarese affidata al feroce giudice Valentino contro i seguaci dell’Angioy, cercando di salvare il salvabile dopo le esecuzioni capitali e le numerosissime carcerazioni di quanti avevano aderito alla ribellione contro i feudatari. Si trattava, a ben vedere, di un intervento troppo tardivo. Era fin troppo facile per il governo di Carlo Emanuele IV rispondere che l’attività rivoluzionaria per cui venivano condannati e imprigionati gli angioiani era andata ben oltre il periodo della firma del Trattato di Parigi. Le imprese di Cosimo Auleri e dei fratelli Muroni nell’autunno del 1796 stavano a dimostrarlo. Proprio prete Muroni, che si era dato alla macchia già dall’estate del 1796 al suo rientro in Sardegna e si era messo a capo di una quadriglia armata di 150 uomini che battevano le campagne del Logudoro, negli stessi giorni in cui veniva recapitata la nota diplomatica dello Jacob veniva catturato nelle campagne di Sindia (170). Di tutte le richieste dell’addetto francese al governo sardo pareva potesse accogliersi solo la richiesta di sostituzione del viceré, che rispondeva peraltro al desiderio più volte espresso dall’interessato. Tale sostituzione, tuttavia, non era al momento praticabile «non avendo il Vivalda ancora maturato un triennio di incarico» (171). Nella sostanza, il Piemonte restava sulle sue posizioni e non lasciava intravvedere alcuna apertura in merito. E’ dal tenore di questo atteggiamento del governo di Torino  che è facile arguire, come si è già rilevato, la impossibilità che la pratica relativa all’Angioy potesse avere un esito positivo anche in presenza dei condizionamenti politici e delle note ufficiali della Repubblica francese. Angioy, dal canto suo, dopo l’arrivo da Cagliari degli incartamenti che lo riguardavano, nella seconda metà di aprile faceva pervenire al ministro degli Interni «tre pieghi relativi alla [sua] memoria» (172), che venivano subito consegnati all’avvocato fiscale Cappa, con l’assicurazione che «verrà il tutto preso in considerazione per rendersele in seguito tutta quella giustizia che le sarà dovuta» (173).

Intanto a Casale era insorta qualche lamentela da parte del padre superiore degli Agostiniani circa la corresponsione da parte dell’Angioy di una adeguata pigione; in realtà la presenza dell’Angioy e del suo segretario nel convento era ormai divenuta indesiderata e pertanto se ne chiedeva «la rimozione» (174). Il giudice istruttore Cappa era però dell’avviso che il trasferimento dell’Angioy ad altra residenza  era inopportuna «perché non si è addotta veruna specifica causa di far il cambiamento, che ora neppure converrebbe, essendosi già dall’Angioi mandata la memoria per sua giustificazione, che si sta da esso esaminando» (175). Del resto dal ministro degli Interni veniva assicurato «non essersi avuto dal Governatore di Casale alcun riscontro contrario alla buona condotta dell’Angioi» (176).

Tra la fine di aprile e la prima metà di maggio erano pervenute dalla Sardegna sinistre notizie sulla sorte degli angioiani in Sardegna: la cattura del parroco di Semestene Francesco Muroni e di suo fratello Salvatore, contro i quali si era iniziato a costruire il processo; l’esecuzione capitale a Sassari di «cinque soggetti per delitto d’insurrezione» (177), ossia il giovane medico Gaspare Sini e i patrioti Giacomo Devilla, Luigi Serra, Giovanni Devilla, Giovanni Antonio Merella (178); le traversie dell’abate di Salvenero Gian Francesco Simon, del fratello Matteo Luigi e dell’ex vicario generale della diocesi di Sassari Salvatore Roig, tutti fatti oggetto di provvedimenti di confino. I fuorusciti, dal canto loro, sparpagliati in diverse località della Toscana e della Corsica, il 4 giugno 1797 si erano raccolti attorno a Gioacchino Mundula e si erano presentati a Livorno al console Belleville per implorare «la protezione della Repubblica francese affine venga da essa sistemato un nuovo Governo nella Sardegna, o altrimenti, che sia il suo partito dichiarato innocente, assolto da ogni impostura fattagli, rimesse le loro persone nelle proprietà, e dritti, ed impieghi, che cuoprivano, indennizzati de’ danni sofferti, a riparazione delle sentenze pronunciate, in odio de suoi partitanti pretesi complici d’imputatigli delitti» (179). Facevano parte del drappello di esuli, oltre al noto avvocato giacobino sassarese, i dottori Giovanni Maria Sotgia Mundula e Domenico Solis, Antonio Luigi Petretto, padre del giustiziato Antonio Vincenzo, insieme a due figli, il cognato del Solis Antonio Martinetti, Cosimo Auleri, un ex frate minore osservante cognato del giustiziato dottor Sini, Giuseppe Luigi Livia con due figli, Gavino Tealdi e Giovanni Sorba (180). Dopo l’incontro con il Belleville, il grosso del gruppo si era fermato a Livorno, con l’intenzione di raggiungere  a Milano il generale Bonaparte muniti di lettere di raccomandazione del Bellevile (181); e tale incontro effettivamente avvenne, ma il generale Bonaparte, riferisce l’addetto piemontese Borgese in data 4 luglio, « a norma delle assicurazioni datemi non solo si è rifiutato alla loro domanda, ma li ha prevenuti che essendo la Repubblica Francese alleata alla Corte di Torino si sarebbe astenuta dal prendere la menoma ingerenza in tali affari, e li consigliò finalmente di desistere dai loro progetti e di rispettare il governo stabilito» (182). Gioacchino Mundula invece, in compagnia di  Giovanni Sorba, era partito il 5 giugno alla volta di Parigi, dove avrebbe continuato a sollecitare l’aiuto del governo francese in favore della causa della Sardegna e dove sarebbe morto di lì a un anno (183); anche l’Angioy avrebbe alla fine cercato asilo e protezione a Parigi. Secondo quanto riferisce il vice-console di Livorno Ghio nel suo rapporto del 18 giugno 1797, il Mundula nel suo viaggio avrebbe dovuto far tappa a Casale per incontrare l’Angioy: di tale visita però la documentazione non offre sicuro riscontro (184).

A seguito di queste notizie, il governo torinese  diede disposizioni più rigide per un controllo più stretto della corrispondenza e delle persone in arrivo o in partenza da e per la Sardegna, in particolare a Casale, dove era confinato l’Angioy e compì passi ufficiali presso le autorità francesi per ottenere assicurazioni che la Francia non avrebbe più dato appoggio né sovvenzioni ai fuorusciti sardi. Il 26 giugno 1797 il conte Borgese, commissario piemontese presso l’Armata d’Italia a Milano, indirizzava da Mombello a Napoleone Bonaparte una nota nella quale chiedeva che non si aderisse più alle richieste dei rivoluzionari sardi, in ottemperanza alle clausole del trattato di alleanza tra i due governi (185). Il giorno successivo Napoleone dava anmpie assicurazioni al ministro degli Esteri Priocca nei termini seguenti: «mi ha il prefato Signor Generale in Capo assicurato, che non avrebbe preso veruna ingerenza nelle loro domande, ed ancor meno prestato in modo alcuno la mano a verun progetto rivoluzionario, che per avventura volessero nuovamente mettere in campo, e che venendo le loro rappresentanze limitate a chiedere l’interposizione del Governo Francese per ottenere il permesso di rientrare in quel Regno, non avrebbe dato loro risposta veruna senza preventivamente sentire li miei eccitamenti» (186). E il successivo 4 luglio, dopo che era effettivamente avvenuto l’abboccamento della delegazione dei patrioti sardi con Napoleone, il Borgese poteva confermare, in via definitiva, che le richieste del governo piemontese potevano ritenersi in tutto accolte. «Alcuni de’ noti Sardi si sono poi effettivamente presentati al Signor Generale Bonaparte per ottenere la protezione del Governo Francese nell’esecuzione de’ piani rivoluzionarj che stanno meditando sopra quell’Isola, ma il prefato Generale a norma delle assicurazioni datemi non solo si è rifiutato alla loro domanda, ma li ha prevenuti che essendo la Repubblica Francese alleata alla Corte di Torino si sarebbe astenuta dal prendere la menoma ingerenza in tali affari, e li consigliò finalmente di desistere dai loro progetti e di rispettare il governo stabilito» (187).

Analoghe assicurazioni aveva dato a Livorno il console Belleville al console Rebuffo nel corso di un lungo colloquio chiarificatore (188). Ogni speranza sembrava ormai tramontata per gli esuli sardi. Alcuni di essi, rientrati a Livorno, erano «mortificati, partiti per la Corsica, per non aver voluto portarsi a servire nelle truppe lombarde per godere di quella libertà, ed eguaglianza che cercavano» (189); era stato questo il suggerimento che aveva dato loro il console Belleville, il quale aveva anche ribadito al console Rebuffo «che non li avrebbe mai più in alcun modo provvisti di soccorsi» (190). Dei fuorusciti cui si fa riferimento, gli avvocati Solis e Sotgia Mundula si fermeranno a Genova, alloggiati nell’albergo «Scudo di Francia» insieme ad altri 11 esuli (191); Gavino Tealdi fu il solo che raccolse il suggeriento del console Belleville e andò ad arruolarsi nell’Armata d’Italia (192); nel frattempo si aggiungeva al drappello un altro esule angioano, che chiedeva invano di poter essere ricevuto ai piedi del sovrano per giustificarsi: il macomerese Domenico Pinna, ex giudice della Reale Governazione, molto caro all’Angioy (193). Le missive del solerte console Rebuffo della fine di luglio e dell’agosto 1797 offrono un’immagine davvero patetica dei fuorusciti sardi, condannati a una vita errabonda e come abbandonati a se stessi.

«Rapporto alli Sardi fuor’usciti – egli scriveva il 28 luglio – si sono essi dispersi quà e là, gli uni però mal contenti si sono ritirati nella Corsica, gli altri si sono adetti al Servizio della Repubblica Cisalpina, ve ne hanno pure degli erranti sine fide, ma che qui non si lasciano vedere sul timore che hanno, ch’io possa assicurarli in queste prigioni, o farli tradurre in Sardegna» (194).

E in data 3 agosto, il sacerdote Giuseppe Ghio, sostituto del console, comunicava a Torino: «Ho inteso per buon canale che 17 di que Sardi i quali gonfi di buone speranze da qualche tempo errano per l’Italia, sono giunti non è guari ad Ajaccio coperti di miseria e stracciati come ladri, ed estremamente male soddisfatti del Generale in capite Bonaparte per non averli voluto prestare quella protezione, che imploravano, avendo loro fatto sentire di non avere da che fare colla Sardegna, né co’ Sardi, bensì era disponibilissimo di conceder loro una divisa da soldato, se volevano godere in quella carriera la sospirata libertà» (195).

 

 

11. Era evidente che la svolta della primavera 1797 nei rapporti tra il governo piemontese e le autorità e i rappresentanti francesi metteva in serio pericolo la vita dell’Angioy, confinato a Casale, e toglieva ogni speranza circa l’esito della sua ‘giustificazione’. Di conseguenza gli esuli sardi, oltre a rendere edotto l’Angioy degli sviluppi della situazione per corrispopndenza e con rare e circospette visite, prepararono un piano di fuga da Casale. Tutto ciò nonostante che il Mundula, giunto a Parigi, mandasse segnali positivi sulla sorte dei fuorusciti sardi: « Non guari – scriveva il console livornese il 25 agosto – giunse a Pisa certo Domenico Pinna Giudice di Sassari che disse di aver lasciato in Genova il Dottor Soggia Mondula, Solis, e Petretto con due suoi figli, soggiungendo che li riscontri avuti da Parigi dal Dottor Gioachino Mondula erano molto lusinghieri per il partito de fuor’usciti dalla Sardegna» (196). Dopo aver consegnato le sue memorie ai ministri piemontesi, l’Angioy aveva sollecitato più volte  la conclusione dell’esame della sua pratica, ma nessuna concreta assicurazione egli ricevette in proposito: in data 5 settembre 1797 la relazione dell’avvocato fiscale Cappa non risultava ancora redatta (197).

Di organizzare la fuga si era fatto carico il cognato dell’Angioy, don Felice Mulas Rubatta (198). Sbarcato a Livorno attorno al 20 giugno insieme con il suo giovane segretario Salvatore Frassu, egli predispose in grande segretezza il piano, sebbene qualche sentore il governatore di Casale sembra avere avuto, soprattutto a seguito della visita ad Angioy di un misterioso personaggio che aveva fatto tappa a Casale il 13 e il 14 luglio (199). Rientrava sicuramente nel piano di fuga dell’Angioy la richiesta di passaporto inoltrata dal segretario Emanuele Crobu per due volte nel breve volgere di dieci giorni, il 2 e l’11 luglio, quasi in coincidenza con la visita del misterioso personaggio. La motivazione addotta dal Crobu per giustificare la richiesta era che intendeva profittare di una vantaggiosa offerta di lavoro che gli era stata fatta, «per entrare in una banca avendo bel carattere, ed essendo anche esperto di conteggio» (200). Negatogli in prima battuta per le perplessità che la richiesta aveva suscitato nel giudice Cappa, il passaporto fu spedito al Crobu dal marchese Della Valle il 15 luglio. Partito poco dopo alla volta di Genova, egli scriveva in data 30 agosto da Milano ad un suo conoscente di Casale, «a cui dice che è al servizio della repubblica Cisalpina con 200 lire al mese di stipendio fisso senza viveri, e sta può dirsi ottimamente. Quell’impiego gliel’ha procurato un suo amico e protettore che da Genova lo portò con lui a Milano» (201). Si trattava di tutta una messinscena architettata per non destare sospetti e per far sì che il Crobu, che era l’unica persona a conoscenza delle abitudini dell’Angioy e dei luoghi, potesse contribuire concretamente al piano di fuga. Egli, infatti, non era andato a Milano, come aveva voluto far credere tramite una lettera regolarmente intercettata dall’ufficio postale di Casale, ma si era recato a Genova per unirsi a Felice Mulas Rubatta e a Salvatore Frassu al fine di perfezionare il piano della fuga.

La fuga dell’Angioy da Casale avvenne la mattina del mercoledì 6 settembre 1797. Le modalità di essa sinora note e riportate dai biografi e dagli storici, sono quelle, alquanto romanzate, riferite circa sessant’anni dopo da uno dei protagonisti, il canonico Salvatore Frassu di Bono, in una lettera a Giorgio Asproni dell’11 maggio 1855, pubblicata da Giovanni Antonio Mura nel 1925 (202). La mattina del 6 settembre, racconta il Frassu, Angioy uscì dal convento degli Agostiniani dicendo che si sarebbe recato nell’orto di un amico per mangiare fichi; in un posto convenuto si trovava su una vettura il cognato Felice Mulas Rubatta travestito da ufficiale francese e munito di passaporto ugualmente francese. Angioy montò sulla vettura, «si galoppò a uffo, ed in poche ore furono in terra libera [a Genova], ed ebbe dal Faypoult cordiale accoglienza» (203). Non è chiaro se alla fuga, insieme al Rubatta, abbia partecipato anche il Frassu, autore della lettera, allora appena ventenne.

La documentazione raccolta dal generale Lo Faso consente ora di delineare assai meglio  le circostanze attraverso cui l’Angioy «si è scaltramente assentato» (204), come si esprime il governatore di Casale Della Torre nel rapporto indirizzato al segretario del re conte Cerruti, in un goffo tentativo di giustificare la mancata vigilanza e la beffa dell’accaduto (205). In un rapporto successivo del 17 settembre egli narrava con dovizia di particolari le modalità della fuga.

Dopo la partenza del Crobu il padre priore del convento aveva nutrito seri sospetti su un imminente allontanamento da Casale anche dell’Angioy, ma la sua preoccupazione era dovuta soprattutto al timore che, essendo l’ospite da molto tempo moroso nel pagamento della pigione – l’Angioy era debitore al convento di 250 lire – potesse partendo non onorare il debito. Il priore non si curò di svelare i suoi sospetti al governatore, anche perché precedentemente, quando si era rivolto ai ministri torinesi, era stato espressamente invitato a soprassedere. Del resto, si giustificava il governatore, avendo l’Angioy, per determinazione dei ministri del re, ampia libertà di movimenti nella città e nei dintorni, era facile un’evasione in qualunque momento. Nei giorni che precedettero la fuga non era capitato a Casale alcun sardo che potesse destare sospetti. Solo il 5 settembre era giunto a Casale un sedicente ufficiale francese, che prese alloggio nell’albergo della Posta. Essendone stato avvisato, il governatore  ingiungeva all’avventore di presentarsi da lui alle tre del pomeriggio, come di fatto avvenne. Durante l’incontro il governatore verificava che l’ufficiale non era francese, ma corso; diceva di essere un ufficiale di Sanità addetto agli ospedali ed esibiva un passaporto, sottoscritto dal ministro francese a Genova Faypoult, nel quale «era qualificato col nome di Lega di Bastuta in Corsica, ed ufficiale di Sanità al servizio della Francia» (206). Durante la mattina il sedicente ufficiale francese si era presentato attorno alle dieci al convento degli Agostiniani, aveva chiesto del padre maestro Levis e gli aveva consegnato una lettera di Emanuele Crobu, alla quale era acclusa una lettera per l’Angioy, con cui il sedicente ufficiale ebbe un colloquio. Dopo questo incontro, nel corso della giornata l’Angioy fece le cose consuete: si presentò dopo pranzo presso la sede del governatore, che però non poté ossequiare perché impegnato, fece «il suo solito passeggio col Demichelis», si trattenne nella casa di questi sino a sera, quindi si ritirò, com’era solito, nel convento. «L’indomani mattina- racconta il governatore -  il Lega partì solo in vettura di Posta per Alessandria; si trovò l’Angioi in qualche distanza fuori della Posta, e fece fermare il Postiglione, che in principio ebbe qualche difficoltà, ma sgridato dal Lega lo lasciò porre nella vettura, e fece attenzione che l’Angioi mise il pennacchio sul capello di divisa francese. Siccome il Bollettone di Posta non era che per il solo Lega, se non ha osato riffiutargli assolutamente di porsi in sedia, doveva almeno consegnarlo alla Posta di Alessandria, ove dal Governo poteva essere trattenuto l’Angioi; ma l’inosservanza delle attenzioni che si dovrebbero fare ad ogni Posta favorisce le evasioni, e questa poteva non riuscire» (207). Per non destare sospetti, l’Angioy era partito «co’ soliti abiti che aveva in corpo come se andasse a passeggio; ha lasciato nella camera il suo cofano con qualche vestimenta e lingeria e sua spada» (208). Nella camera del convento Angioy aveva lasciato anche diverse carte, che il governatore aveva giudicato insignificanti. Tra queste, la lettera del Crobu, falsamente datata da Milano, in cui il Crobu diceva di essersi impiegato nella città lombarda, identica alla lettera che il governatore aveva segnalato nel precedente rapporto del 10 settembre.

Erano trascorsi oltre due mesi dall’arrivo a Livorno di Salvatore Frassu e di don Felice Mulas Rubatta, sicuramente da identificare con il sedicente ufficiale francese di Sanità Lega, con il quale l’Angioy fuggì da Casale, non in una carrozza appositamente presa a nolo, ma semplicemente nella vettura di posta diretta ad Alessandria, e di là a Genova. Un piano di fuga, dunque tanto semplice quanto rischioso, ma allo stesso tempo beffardo, realizzato da uomini ardimentosi e amanti del rischio.

 

 

12. Giunto a Genova l’Angioy, cui stava particolarmente a cuore la propria dignità e onorabilità, scriveva immediatamente al marchese Della Valle per spiegargli il motivo della sua fuga, o quantomeno quella versione che egli voleva fosse accreditata presso il sovrano e i ministri piemontesi, e per sollecitare ancora una volta e insistentemente la conclusione dell’istruttoria che lo riguardava. Com’è risaputo, e come la documentaziuone che si pubblica conferma, nel corso del 1797 l’avvocato fiscale Cappa consegnò finalmente la relazione sull’Angioy, che fu esaminata da una speciale commissione  nominata da Carlo Emanuele IV ma che non risulta sia giunta mai a definizione. Il governo piemontese, ormai alle prese con gli enormi problemi che avrebbero avuto come esito, alla fine del 1798, l’annessione del Piemonte alla Repubblica francese e l’esilio della famiglia reale in Sardegna, non aveva alcun interesse a pronunciarsi su una vicenda che appariva ormai lontana nell’evoluzione degli eventi. Anche la documentazione relativa al 1798 è comunque altrettanto ricca per la storia della Sardegna di fine Settecento, sia sotto il profilo generale, sia sotto quello, avvincente e ancora da approfondire, delle peripezie dei numerosi patrioti sardi ormai definitivamente condannati all’esilio.

Abbiamo voluto, in questa introduzione, presentare un tentativo di approfondimento alla luce della nuova documentazione, soprattuto in relazione all’invasione francese del 1793 e alle vicende della prima fase dell’esilio dell’Angioy. I risultati ci sembrano di rilevante novità per la ricostruzione di questo appassionante momento della storia della Sardegna. Sono però numerosi gli episodi che questa imponente raccolta documentaria è in grado di illuminare e di completare. A condizione, ovviamente, che la rivisitazione delle vicende proceda con gli strumenti propri della critica storica, che esige in primo luogo una buona conoscenza della storiografia e una paziente e accurata collazione della più recente documentazione con i risultati già acquisiti della ricerca.

A conclusione, va testimoniata al generale Lo Faso la gratitudine degli storici e dei semplici curiosi per l’imponente e meticolosa raccolta documentaria, nella quale quotidianità con cui si succedono gli eventi narrati dalle fonti si accompagana con il piacere di una lettura, per così dire, in presa diretta  delle vicende storiche della Sardegna degli anni 1793-1798.

 

 

 

 

NOTE

(1) Cfr. La Sardegna e la Rivoluzione francese. Atti del convegno su «G.M. Angioy e i suoi tempi», Bono 15-17 dicembre 1988, a cura di M. Pinna, Sassari 1990; Francia e Italia negli anni della Rivoluzione. Dallo sbarco francese a Quartu all’insurrezione cagliaritana del 28 aprile 1794. Atti del convegno internazionale di studi, Quartu Sant’Elena – Cagliari, 28-30 aprile 1994, a cura di L. Carta e G. Murgia, Roma-Bari 1995; La rivoluzione sulle Bocche. Francesco Cilocco e Francesco Sanna Corda «giacobini» in Gallura (1802), a cura di M. Brigaglia e L. Carta, Cagliari 2003. Tra le relazioni lette in occasione del convegno organizzato dall’Università di Sassari il 26-27 aprile 1996 su Patriottismo e costituzionalismo nella «sarda rivoluzione». L’alternos Giovanni Maria Angioy e i moti antifeudali, quella di A. Mattone e P. Sanna, ampliata e corredata di note, è stata in seguito pubblicata sotto il titolo Costituzionalismo e patriottismo nella «sarda rivoluzione», in Universalismo e nazionalità nell’esperienza del giacobinismo italiano, a cura di L. Lotti e R. Villari, Roma-Bari 2002, pp. 191-244, ora anche in A. Mattone – P. Sanna, Settecento sardo e cultura europea. Lumi, società, istituzioni nella crisi del’Antico Regime, Milano 2007, pp. 197-240. Di particolare interesse la relazione, tuttora inedita, di M. Brigaglia, Per un profilo biografico di Angioy, letta nell’Aula Magna dell’Università di Sassari il 26 aprile 1996. Ringrazio il prof. Brigaglia per avermi offerto la possibilità di leggere il dattiloscritto.

 

(2) Oltre ai saggi contenuti nei tre volumi citati nella nota precedente, ricordiamo in ordine cronologico i saggi più significativi apparsi negli ultimi anni, ai quali rimandiamo per una più completa informazione bibliografica: L. Del Piano, La Sardegna e la Rivoluzione francese, in «Annali della Facoltà di Economia e Commercio di Cagliari», V (1991), estratto; I. Birocchi, La carta autonomistica della Sardegna tra antico e moderno. Le «leggi fondamentali» nel triennio rivoluzionario (1793-96), Torino 1992; L. Carta, Il triennio rivoluzionario sardo in due manoscritti inediti della Biblioteca Reale di Torino (codice 672 bis e codice 628), in «Archivio sardo del movimento operaio contadino e autonomistico» (di seguito citato ASMOCA), N. 41/43 (1993), pp. 133-205; 1793: i franco-corsi sbarcano in Sardegna, a cura di F. Francioni, Cagliari 1993; A. Mattone, P. Sanna, I Simon: una famiglia di intellettuali tra riformismo e restaurazione, in All’ombra dell’aquila imperiale. Trasformazioni e continuità istituzionali nei territori sabaudi in età napoleonica (1802-1814). Atti del convegno, Torino 15-18 ottobre 1990, Ministero per i Beni Culturali e Ambientali. Ufficio Centrale per i Beni Archivistici, Roma 1994, pp. 762-863; Storia de’ torbidi occorsi nel Regno di Sardegna dall’anno 1792 in poi. Opera anonima del secolo XVIII, a cura di L. Carta, Cagliari 1994; A. Mattone – P. Sanna, Giovanni Maria Angioy e un progetto sulla storia del «diritto patrio» del Regno di Sardegna (1802), in Studi e ricerche in onore di Girolamo Sotgiu, II, Cagliari 1994, pp. 231-308, ora anche in A. Mattone – P. Sanna, Settecento sardo e cultura europea, cit., pp. 241-297; M. Luigi Simon, La Sardegna antica e moderna, a cura di C. Sole e V. Porceddu, Cagliari 1995; L. Carta, Cagliari nel 1794-95: la bufera rivoluzionaria, saggio introduttivo al volume Pagine di storia cagliaritana 1794-1795, Camera di Commercio Industria Artigianato e Agricoltura di Cagliari, Cagliari 1995; V. Del Piano, Giacobini, moderati e reazionari in Sardegna. Saggio di un dizionario biografico 1793-1812, Cagliari 1996; L. Marrocu, Procurad’’e moderare. Racconto popolare della Rivoluzione sarda 1793-1796, Cagliari 1996; F. Francioni, Per una storia segreta della Sardegna tra Settecento e Ottocento, Cagliari 1996; T. Orrù – M. Ferrai Cocco Ortu, Dalla guerra all’autogoverno. La Sardegna nel 1793-94: dalla difesa armata contro i francesi alla cacciata dei piemontesi, Cagliari 1996; A. Mattone-P. Sanna, La «rivoluzione delle idee»: la riforma delle due Università sarde e la circolazione della cultura europea (1764-1790), in «Rivista Storica Italiana» (di seguito citata RSI), CX (1998), pp. 137-138, ora anche in A. Mattone – P. Sanna, Settecento sardo e cultura europea, cit., pp. 13-106; A. Mattone – P. Sanna, La «crisi politica» del Regno di Sardegna dalla rivoluzione patriottica ai moti antifeudali, in Le insorgenze popolari nell’Italia rivoluzionaria e napoleonica, a cura di A. M. Rao, Roma 1999, pp. 37-70, ora anche in A. Mattone – P. Sanna, Settecento sardo e cultura europea, cit., pp. 141-172; L’attività degli Stamenti nella «sarda rivoluzione» (1793-1799), vol. 24° della collana «Acta Curiarum Regni Sardiniae», tomi I-IV, a cura di L. Carta, Cagliari 2000; F. Francioni, Vespro Sardo. Dagli esordi della dominazione piemontese all’insurrezione del 28 aprile 1794, Cagliari 2001; L. Carta, La  «sarda rivoluzione». Studi e ricerche sulla crisi politica in Sardegna tra Settecento e Ottocento, Cagliari 2001;  F. I. Mannu, Su patriota sardu a sos feudatarios, a cura di L. Carta, Cagliari 2002. Nel recentissimo volume di A. Mattone – P. Sanna, Settecento sardo e cultura europea, sopra citato, si segnalano altri tre importanti contributi scritti a due mani dagli stessi autori: Francesco Cetti e la storia naturale della Sardegna, ivi, pp. 107-140 (già apparso in «Studi Storici», 43 (002, pp. 967-1002); Corpi parlamentari e antidispotismo nella «sarda rivoluzione». Il “Discorso parenetico” di Gian Francesco Simon agli Stamenti (ottobre 1805), ivi, pp. 173-198 (già apparso in Il Settecento di Furio Diaz, a cura di C. Mangio e M. Verga, Pisa 2006, pp. 169-193); Istruire nelle verità patrie. Il Prospetto dell’isola di Sardegna di Matteo Luigi Simon, ivi, pp. 299-364 (già pubblicato in Dal mondo antico all’età contemporanea. Studi in onore di Manlio Brigaglia offerti dal Dipartimento di Storia dell’Università di Sassari, Roma 2001, pp. 513-598). Per un inquadramento generale del periodo cfr. G. SOTGIU, Storia della Sardegna sabauda, Roma-Bari 1984; C. SOLE, La Sardegna sabauda nel Settecento, Sassari 1984.

 

(3) Cfr. G. Manno, Storia moderna della Sardegna da 1773 al 1799, Torino 1842; per la ricostruzione delle fonti del Manno si rimanda alla Prefazione di A. Mattone alla recente riedizione dell’opera: cfr. G. Manno, Storia moderna, a cura di A. Mattone, revisione bibliografica di T. Olivari, Nuoro 1998; di particolare interesse anche l’introduzione alla ristampa anastatica curata da G. Serri:  cfr. G. manno,  Storia moderna, a cura di G. Serri, Cagliari 1972.

 

(4) Cfr. F. Sulis, Dei moti politici dell’isola di Sardegna dal 1793 al 1821. Narrazioni storiche, Torino 1857; la narrazione del Sulis si ferma al 1796.

 

(5)  A. Mattone – P. Sanna, La «crisi politica» del Regno di Sardegna dalla rivoluzione patriottica ai moti antifeudali, in Le insorgenze popolari nell’Italia rivoluzionaria e napoleonica, cit., p. 37.

(6) Ivi, p. 39.

 

(7) F. Francioni, Vespro sardo, cit., p. 7.

 

(8) Ivi, p. 386

 

(9) Cfr. L’attività degli Stamenti nella “sarda rivoluzione”, cit.

 

(10) G. Manno, Storia moderna,  cit., p. 182.

 

(11) Ivi, p. 186.

 

(12) F. Sulis, Degli Stamenti sardi. Lezione data nel dì 22 febbraio 1854 nella Regia Università di Sassari, Sassari 1854, p. 5.

 

(13)  Id., Dei moti politici, cit., p. 4.

 

(14) C. Sole, Politica, economia e società in Sardegna nell’età moderna, Cagliari 1978, p. 131.

 

(15) Ivi, p. 52.

 

(16) Cfr. C. Sole, Lo Stamento militare del Parlamento sardo nel gennaio 1793, in Sardegna, Mediterraneo e Atlantico tra Medioevo ed Età moderna. Studi in onore di Alberto Boscolo, a cura di L. D’Arienzo, vol. I, La Sardegna, Roma 1993, p. 554 passim. La compilazione di Vittorio Angius cui Sole fa riferimento è l’ormai rara appendice al  vol. XVIII quater, Sardegna, del Dizionario geografico- storico- statistico- commerciale degli Stati di Sua Maestà il re di Sardegna, Torino 1833-1856, di G. Casalis. L’appendice è un volume di 212 pagine senza frontespizio né data e senza indicazioni editoriali, che l’erudito cagliaritano pubblicò a proprie spese nel 1859, dopo che il successore del Casalis nella direzione del Dizionario Paolo Camosso e l’editore Marzorati rifiutarono di accogliere la continuazione della storia dei  Parlamenti sardi contenuta nel vol. XVIII quater, che si ferma infatti al 1648. L’appendice dell’Angius, che è stampata con gli stessi tipi del Dizionario e ne riprende la numerazione da p. 796 (il vol. XVIII quater termina con la p. 795) fino a p. 1007, narra la storia parlamentare del regno di Sardegna dal 1648 fino alle riunioni stamentarie del 1793-1796. Relativamente al periodo sabaudo, dopo aver dedicato pochi cenni alla Interruzione de’ Parlamenti sardi dal 1700 al 1793 (pp. 911-914), l’Autore offre un ampio transunto delle sessioni stamentarie dal gennaio 1793 all’ottobre 1796 (pp. 914-1004), mentre dedica poche pagine all’attività degli Stamenti dal 1796 al 1847. Significativamente egli intitola l’ultimo capitolo Abdicazione dell’antica costituzione del regno di Sardegna (pp. 1005-1007): con la «fusione perfetta» e con l’adozione della nuova costituzione dello Stato sabaudo, secondo la sua opinione, fu «illegalmente soppresso l’antico Statuto della Sardegna». Fino alla pubblicazione degli atti dello Stamento militare del 1793 curata da Sole e fino alla recente pubblicazione degli atti stamentari del 1793-1799, l’appendice dell’Angius ha costituito l’unica fonte cui gli studiosi potevano riferirsi per una narrazione completa e sufficientemente analitica dell’attività degli Stamenti sino alla fine del Settecento. Si vedano in proposito le osservazioni di A. Mattone, Una progetto di edizione degli atti dei Parlamenti sardi, in «Quaderni sardi di storia», n. 4 (luglio 1983-giugno 1984), pp. 212-213; un’analitica indicazione delle sedute stamentarie del 1793-1796 presenti nell’appendice dell’Angius è stata redatta da L. Carta, Le sedute stamentarie nel triennio rivoluzionario (1793-96): problemi di ricognizione documentaria e di edizione, tav. 4, in ASMOCA, n. 47/49 (1996), pp. 281-300. Sull’Angius si veda la recente riedizione realizzata dall’editore ILISSO delle ‘voci’ sulla Sardegna scritte dall’erudito cagliaritano per il Dizionario di Goffredo Casalis: V. ANGIUS, Città e villaggi della Sardegna dell’Ottocento, a cura di L. Carta, Nuoro 2006.

 

(17) C. Sole, Lo Stamento militare del Parlamento sardo nel gennaio 1793, cit., p. 555.

 

(18) Ivi, p. 556.

 

(19) Nel secondo dopoguerra, quando fu ripreso il secolare progetto di pubblicazione degli atti dei Parlamenti del regno di Sardegna, che ha dato luogo alla edizione critica di tre Parlamenti (cfr. A. Boscolo, I Parlamenti di Alfonso il Magnanimo, Milano 1953, ora ristampato come volume 4° della collana «Acta Curiarum Regni Sardiniae» con aggiornamenti, apparati e note a cura di Olivetta Schena; A. Era, Il Parlamento sardo del 1481-1485, Milano 1955; G. Sorgia, Il Parlamento del viceré Fernandez de Heredia (1553-1554), Milano 1963), la Deputazione di Storia Patria per la Sardegna aveva affidato l’incarico di raccogliere gli «atti stamentari del 1793» a Pietro Leo. Cfr. F. Loddo Canepa, La Deputazione di Storia Patria e la Raccolta degli atti parlamentari sardi, in Liber Memorialis Antonio Era, Bruxelles 1963, pp. 193-207; la citazione è a p. 197. Sui vari tentativi compiuti, a partire dal secolo scorso, di pubblicare gli atti dei Parlamenti sardi, cfr. A. Mattone, Problemi di storia del Parlamento sardo, in Assemblee di Stati e istituzioni rappresentative nella storia del pensiero politico moderno (XV-XX secolo). Atti del convegno internazionale tenuto a Perugia da 16 al 18 settembre 1982, I, Rimini 1984, pp. 165-172; Id., Un progetto di edizione degli atti dei Parlamenti sardi, cit., pp. 281-300; G. Olla Repetto, La collana «Acta Curiarum Regni Sardiniae», in ASMOCA, n. 47/49 (1996), pp. 75-83.

 

(20) Cfr. G. Sotgiu, Alcune conseguenze politiche dell’attacco francese alla Sardegna nel 1792-93, in «Annali delle Facoltà di Lettere Filosofia e Magistero dell’Università di Cagliari», vol. XXIII (1970); Id., La insurrezione di Cagliari del 1794, in «Studi Sardi»,  vol. XXI (1971); le indicazioni di pagina relative a questi due lavori di Sotgiu si riferiscono agli estratti. Oltre che nei due saggi citati, Sotgiu si è occupato a più riprese del problema del riformismo sabaudo e delle vicende di fine Settecento in Sardegna: si veda, in particolare, la nitida sintesi contenuta in G. Sotgiu, Storia della Sardegna sabauda, Roma-Bari 1984; Id.,  Note per uno studio degli anni della Rivoluzione Sarda del 1793-1796, in ASMOCA, n. 29/31 (1990), pp. 11-44; Id., La Sardegna della prima metà dell’Ottocento: i germi della contemporaneità, in ASMOCA, n. 32/34 (s. d. ma 1991), pp. 46-47, ora anche in  Intellettuali e società in Sardegna tra Restaurazione e Unità d’Italia, a cura di G. Sotgiu, A. Accardo, L. Carta,  vol. I , Oristano 1991, pp. 23-42; G. Sotgiu, La Sardegna tra Rivoluzione e Restaurazione, in ASMOCA, n. 35/37 (1991), pp. 11-27.

 

(21) Cfr. G. Sotgiu, La insurrezione di Cagliari, cit., p. 49 passim.

 

(22) Cfr. Id., Storia della Sardegna sabauda, cit., pp. 89-131. Si veda, in proposito, il recente profilo di A. Accardo, Il filo rosso dell’autonomia. Alcune note introduttive allo studio dell’opera storiografica di Girolamo Sotgiu, in ASMOCA, n. 50 (1998), pp. 20-28.

 

(23) Cfr. F. Venturi, Settecento riformatore, vol. I, Da Muratori a Beccaria (1730-1764), Torino 1969; vol. II, La chiesa e la repubblica dentro i loro limiti (1758-1774), Torino 1976; vol. III, La prima crisi dell’Antico Regime (1768-1776), Torino 1979; vol. IV,  La caduta dell’Antico Regime (1776-1789), tomo I,  I grandi stati dell’Occidente, Torino 1984, tomo II,  Il patriottismo repubblicano e gli imperi dell’Est, Torino 1984;  vol. V,  L’Italia dei lumi (1764-1790), tomo I, La rivoluzione di Corsica. Le grandi carestie degli anni sessanta. La Lombardia delle riforme, Torino 1987, tomo II, La Repubblica di Venezia (1761-1797), Torino 1990. Su Franco Venturi  (1914-1994) e sulla sua opera si vedano i recenti saggi di E. Tortarolo, La rivolta e le riforme. Appunti per una biografia intellettuale di Franco Venturi (1914-1994),  in «Studi settecenteschi», 15 (1995), pp. 9-42; A. Mattone, Franco Venturi e la Sardegna. Dall’insegnamento cagliaritano agli studi sul riformismo settecentesco, in ASMOCA, n. 47/49 (1996), pp. 303-355; il volume collettaneo edito dalla Fondazione Luigi Einaudi di Torino, Il coraggio della ragione. Franco Venturi intellettuale e storico cosmopolita, a cura di L. Guerci e G. Ricuperati, Torino 1998, con contributi  dei due curatori e di  Giuseppe Giarrizzo, Roberto Vivarelli, Edoardo Tortarolo, Furio Diaz, Bronislaw Baczko, Daniel Roche, Giuseppe Galasso, Ettore Cinnella, Abbott Gleason, Valentina A. Tvardavskaja, Pier Giorgio Zunino e testimonianze di Norberto Bobbio, Alessandro Galante Garrone, Giorgio Vaccarino, bibliografia a cura di Paola Bianchi e Leonardo Casalino. 

 

(24) Cfr.L. Bulferetti, Il riformismo settecentesco in Sardegna, Cagliari 1966, 2 voll.; C. Sole, La Sardegna sabauda nel Settecento, Sassari 1984; L. Scaraffia, La Sardegna sabauda, in J. Day, B. Anatra, L. Scaraffia, La Sardegna medioevale e moderna, vol. X della Storia d’Italia diretta da G. Galasso, Torino 1984.

 

(25) G. Ricuperati, I volti della pubblica felicità. Storiografia e politica nel Piemonte settecentesco,  Torino 1989, pp. 166-167.

 

(26) Cfr. F. Venturi,  Gian Battista Vasco all’Università di Cagliari, in «Archivio Storico Sardo» (di seguito citato ASS), XXV (1957), fasc. 1-2, pp. 16-41; Id., Il conte Bogino, il dottor Cossu e i Monti frumentari. Episodio di storia sardo-piemontese del secolo XVIII, in  RSI, LXXVI (1964), pp. 470-506; ma si veda anche Id., Giuseppe Cossu, in Illuministi italiani, VII, Riformatori delle antiche repubbliche, dei ducati, dello Stato pontificio e delle isole, a cura di G. Giarrizzo, G. Torcellan, F. Venturi, Milano-Napoli 1965, pp. 849-859; L. Berlinguer, Domenico Alberto Azuni giurista e politico (1749-1827). Un contributo bio-bibliografico, Milano 1966; E. Verzella, L’età di Vittorio Amedeo III in Sardegna: il caso dell’Università di Sassari, in «Atti della Fondazione L. Einaudi», XXIV (1990), pp. 235-272; Id., L’Università di Sassari nell’età delle riforme (1763-1773), Sassari 1992; M. LEPORI, Dalla Spagna ai Savoia. Ceti e corona nella Sardegna del Settecento, Roma 2003.

 

(27) A. Mattone-P. Sanna, La «rivoluzione delle idee»: la riforma delle due Università sarde e la circolazione della cultura europea (1764-1790), cit., pp. 137-138. Alla luce di questo importante saggio di Mattone e Sanna andrebbero confrontate e rivisitate le numerose interpretazioni restrittive sul riformismo boginiano in Sardegna, a partire dai contributi di L. Bulferetti, Premessa a Il riformismo settecentesco in Sardegna a cura di L. Bulferetti, Cagliari 1966; A. Boscolo – L. Bulferetti- L. Del Piano, Profilo storico-economico della Sardegna dal riformismo settecentesco al Piano di rinascita, Padova 1962, ora ristampato con aggiornamenti bibliografici e con una Parte II  relativa ai tempi più recenti di Gianfranco Sabattini presso l’editore Franco Angeli: A. Boscolo – L. Bulferetti – L. Del Piano – G. Sabattini, Profilo storico-economico della Sardegna dal riformismo settecentesco ai Piani di rinascita, Milano 1991. In sintonia con questa interpretazione Stefano Pira ha scritto in un recente contributo che l’obiettivo della riforma delle Università voluta dal Bogino «era quello di creare nuovi quadri burocratici e tecnici non di formare una classe dirigente sarda autonoma» (S. Pira, Sardi, viceré e ministri: dal Bogino al 28 aprile 1794, in Studi e ricerche in onore di Giampaolo Pisu, Cagliari 1996, p. 113). Al contrario fu proprio la «rivoluzione delle idee» innescata dalla riforma del Bogino a favorire la crescita di una «classe dirigente sarda autonoma», cioè di quella intellettualità che proprio dalla cultura rinnovata trasse alimento per l’acquisizione di una matura coscienza dell’identità e di un rinnovato e solido ‘patriottismo’ che costituì il terreno di coltura della rivoluzione sarda di fine Settecento. L’osservazione non va riferita solamente al riformismo sabaudo,  ma al riformismo settecentesco in generale. Si veda, in proposito, l’acuta introduzione di Antonio De Francesco all’edizione critica di V. Cuoco, Saggio storico della rivoluzione di Napoli, edizione critica di A. De Francesco, Napoli 1998; cfr. anche B. Croce, La rivoluzione napoletana del 1799, a cura di C. Cassani, con una nota di Fulvio Tessitore, Napoli 1998.

 

(28) G. Sotgiu, La insurrezione di Cagliari, cit., pp. 83-84.

 

(29) I. Birocchi, La carta autonomistica della Sardegna tra antico e moderno,  cit., p. 103.

 

(30) Ibidem. L’espressione è di C. Sole, Gli Stamenti e la crisi rivoluzionaria sarda della fine del XVIII secolo, in Liber memorialis Antonio Era,  Bruxelles 1963,  p. 187.

 

(31) I. Birocchi,  La carta autonomistica, cit., p. 95.

 

(32) Ivi, p. 103.

 

(33) Cfr. A. Mattone – P. Sanna, Il «partito patriottico» al potere. Dalla sollevazione antipiemontese ai moti antifeudali delle campagne del Logudoro (1794-1796), relazione tenuta nell’aula magna dell’Università di Sassari il 26 aprile 1996  in occasione del convegno Patriottismo e costituzionalismo nella «sarda rivoluzione» sopra citato, pp. 5-6 del dattiloscritto.

 

(34) Il discorso è stato pubblicato nell’annuario dell’Ateneo turritano: cfr. A. Era, Estrema reviviscenza di un secolare istituto (Gli Stamenti nell’ultimo decennio del secolo XVIII), in Universita’ degli Studi di Sassari, Annuario per gli anni accademici dal 1943-44 al 1946-47, Sassari 1947, p. 16; sulla reviviscenza dell’istituto parlamentare alla fine del Settecento cfr. anche C. Sole, Gli Stamenti e la crisi rivoluzionaria sarda della fine del Settecento, cit.; F. Francioni, Un’anomalia istituzionale: il Parlamento sardo nel triennio rivoluzionario (1793-96), in ASMOCA, n. 29/31 (1990), pp. 149-178. Circa l’attività degli Stamenti nel Settecento e la mancata convocazione del Parlamento cfr. G. Olla repetto, Il primo donativo concesso dagli Stamenti sardi ai Savoia, in Liber Memorialis Antonio Era, cit., pp. 101-111; M. A. Benedetto, Nota sulla mancata convocazione del Parlamento sardo nel secolo XVIII, ivi, pp. 1134-168; G. Todde, Proteste degli Stamenti sardi contro l’attività del governo piemontese nella seconda metà del secolo XVIII, ivi, pp. 170-177.

 

(35) G. Zirolia, Sugli Stamenti di Sardegna, Milano 1892; Id., Stamenti sardi, in « Archivio giuridico», 1912; A. Marongiu, I Parlamenti di Sardegna nella storia e nel diritto pubblico, Roma 1932; il volume è stato poi ripubblicato dall’Autore, con notevoli integrazioni e arricchimenti contenutistici e bibliografici, col titolo: I Parlamenti sardi. Studio storico- istituzionale e comparativo, Milano 1979.

 

(36) A. Era, Estrema reviviscenza di un secolare istituto, cit., p. 16.

 

(37) Ivi, p. 24.

 

(38) Ibidem.

 

(39) Cfr. V. Del Piano, Giacobini, moderati e reazionari in Sardegna. Saggio di un dizionario biografico 1793-1812, cit.

 

(40) Cfr. G. Cucca, Macomer: documenti cronache e storia di una comunità. Settecento sabaudo, Cagliari 2000.

 

(41) Una pregevole drammatizzazione è quella di G. Putzolu, Alternos. Dramma in tre atti, Cagliari, 2002, che rievoca l’episodio della resistenza del villaggio di Macomer alla marcia di Angioy e dei suoi seguaci verso Cagliari nel giugno 1796. L’edizione critica dell’inno antifeudale è contenuta nel volume: F. I. Mannu, Su patriota sardu a sos feudatarios, a cura di L. Carta, cit.

 

(42) Cfr. A. Mattone – P. Sanna, Settecento sardo e cultura europea. Lumi, società, istituzioni nella crisi dell’Antico Regime, Milano 2007.

 

(43) Cfr., oltre ai saggi già citati, A. Mattone – P. Sanna, Istruire nelle verità patrie. Il Prospetto dell’isola di Sardegna di Matteo Luigi Simon, in Dal mondo antico all’età contemporanea. Studi in onore di Manlio Brigaglia offerti dal Dipartimento di Storia dell’Università di Sassari, Roma 2001, pp. 513-598; M. Pes, La rivolta tradita. La congiura di Palabanda e i Savoia in Sardegna. Introduzione di G. Serri, Cagliari 1994; V. Sulis, Autobiografia, a cura di G. Marci. Introduzione e note storiche di L. Ortu, Cagliari 1994.

 

(44) Vedi infra, A. Lo Faso, Premessa, p.

 

(45) Cfr. P. Marini, La spedizione francese per la conquista della Sardegna nel 1793, in ASS, vol. XVIII, fasc. 2, Cagliari 1931. Le relazioni degli otto battaglioni dei volontari che difesero il litorale di Cagliari si riferiscono al 1°, 2°, 4°, 6°, 7° e 8°, comandati rispettivamente dai colonnelli Emanuele Ripoll marchese Neoneli, Marchese di San Saverio, Cosimo Canelles, Barone Otger, Emanuele Ghiani e Pasquale Atzori. Le stesse relazioni sono ora pubblicate in L’attività degli Stamenti nella «sarda rivoluzione», cit., tomo I, docc. 61/1, 54/2, 57/1, 60/1, 59/2, 57/2.

 

(46) La documentazione che si pubblica è raccolta per anno; dopo una Premessa generale, il capitolo dedicato a ciascun anno è introdotto da una breve sintesi sui principali avvenimenti di Terraferma di carattere politico e militare.

 

(47) Vedi infra, A. Lo Faso, Premessa, p.   .

 

(48) Ibidem.

(49) Ibidem.

 

(50) Questo tipo di documentazione è desunto da: Archivio di Stato di Torino (di seguito indicato AST), Sardegna, Corrispondenza proveniente dall’isola, Lettere di particolari, mazzo 1; AST, Sardegna, Corrispondenza coi particolari sardi, mazzi 12, 25 e 26; AST, Lettere di particolari, Lettera T, mazzo 18.

 

(51) Le filze documentarie da cui proviene questa tipologia sono le seguenti: AST, Lettere Ministri, Roma, voll. 305 e 306; AST, Lettere Ministri, Gran Bretagna, mazzo 95; AST, Lettere Ministri, Due Sicilie, mazzi 38 e 39; AST, Lettere Ministri, Spagna, mazzo 96; AST, Lettere Ministri, Genova, mazzo 34; AST, Milanese, Lettere diverse, mazzo 21 e mazzo non inventariato; AST, Lettere Ministri, Milano, mazzo 57; Lettere Ministri, Francia, mazzo 238.

 

(52) Cfr. AST, Consolati nazionali, Livorno, mazzi 75 e 76.

 

(53) Cfr. AST, Sardegna, Relazioni a S. M., mazzo 12.

 

(54) Cfr. AST, Segreteria di S. M., Lettere di Particolari, mazzi 124 e 125; AST, Segreteria di Gabinetto, mazzi 118 e 125.

 

(55) Cfr. AST, Segreteria di Sardegna, II elenco, mazzo 69; AST, Sardegna, Lettere del viceré, mazzo 5; AST, Sardegna, Corrispondenza col viceré, mazzo 26; AST, Sardegna, Lettere al viceré, mazzo A/27.

 

(56) Cfr. ASC, Segreteria di Stato, 2^ serie, voll. 1685 e 1686.

 

(57) AST, Sardegna, Corrispondenza proveniente dall’isola, Lettere di particolari ed altri, mazzo 1, Palmas, 4 gennaio 1793, Dal cav. De Rochette al Vicerè e da questo inviata al conte Graneri (infra, p.   ); AST, Sardegna, Corrispondenza proveniente dall’isola,  Lettere di particolari ed altri, mazzo1, Dal accantonamento di Palmas, 5 gennaio 1793, Dal cav. De Rochette al Viceré e da questo inviata al conte Graneri (infra, p.   ). Sulle operazioni belliche nel golfo di Palmas cfr. G. M. Arrius, Relazione della campagna di Palmas 1792-93, edita da Tommaso Colgiani, in ASS, III, Cagliari 1907, pp. 206-246; T. Cogliani, Nuovo documento storico per la Sardegna, in «Bollettino bibliografico sardo», V, 1907, pp. 81-84 (si tratta della relazione del comandante De Nobili, che integra il racconto della campagna di Palmas descritta dall’Arrius).

 

(58) AST, Sardegna,  Corrispondenza proveniente dall’isola, Lettere di particolari ed altre, mazzo 1, Tempio, 7 marzo 1793, Dal cav. Giacomo Manca di Tiesi al Viceré (infra, p.   ).

 

(59) AST, Sardegna, Corrispondenza proveniente dall’isola, Lettere di particolari ed altre, mazzo 1, Sassari, 23 febbraio 1793, Da Don Gio. Batta Cugia al conte Graneri, Promemoria (infra, pp.        ).

 

(60) Infra, p.    .

 

(61) Infra, p.    .

 

(62) Infra, p.    .

 

(63) Infra, p.    .

(64) Su questo aspetto cfr. L’attività degli Stamenti nella «sarda rivoluzione», cit., tomo I, pp. 73-74 e docc. 10/3, 10/4, 10/5.

 

(65) AST, Sardegna, Corrispondenza proveniente dall’isola, Lettere di particolari ed altre, mazzo 1, Sassari, 23 febbraio 1793, Da Don Gio. Batta Cugia al conte Graneri, Promemoria, (infra, pp.        ).

 

(66) Cfr. L’attività degli Stamenti nella «sarda rivoluzione», cit., tomo I, pp. 42-119.

 

(67) Ivi, tomo I, pp. 207-228 e tomo III e tomo IV per la parte documentaria.

 

(68) La figura di Giuseppe Cossu (1739-1811), il celebre censore generale dei Monti di soccorso, autore di numerose opere di divulgazione agraria ispirate dalla politica di riforme del ministro Gian Lorenzo Bogino, è stato spesso all’attenzione degli studiosi. Su di lui cfr. P. Tola, Dizionario biografico, Torino 1837, vol. I, ad vocem; F. Venturi, Il conte Bogino, il dottor Cossu e i Monti frumentari, cit.; Illuministi italiani. Riformatori delle antiche Repubbliche, dei ducati, dello Stato pontificio e delle isole, a cura di G. Giarrizzo, G. Torcellan e F. Venturi, Milano-Napoli 1965, tomo VII, pp. 847-887. Si veda inoltre la recente edizione  della più celebre tra le sue opere: G. Cossu, La coltivazione de’ gelsi e propagazione de’ filugelli in Sardegna, a cura di G. Marci, Cagliari 2002. Su Gemiliano Deidda (1721-1810), matematico, che progettò la riforma del sistema monetario della Sardegna introdotto da Carlo Emanuele III nel 1768,  dal 1772 contadore generale, cfr. P. Tola, Dizionario biografico, cit., vol. I, ad vocem.

 

(69) Sulle vicissitudini del notaio Tommaso Marras cfr. L’attività degli Stamenti nella «sarda rivoluzione», cit., tomo I, p. 255; tomo II, p. 1150; tomo III, pp. 1160-61, 1636, 1638-39.

 

(70) AST, Sardegna, Corrispondenza proveniente dall’isola, Lettere di particolari ed altre, mazzo 1, Cagliari, 22 marzo 1793, Da Gio. Tommaso Marras al conte Graneri, Breve ragguaglio dell’ingiustissima guerra, che la sedicente Repubblica francese ha fatta all’isola, e regno di Sardegna nel 1793 redatta dal notaio cagliaritano Tommaso Marras (infra, pp.      ).

 

(71) Si veda, ad esempio, M. Pugioni, Memorie storiche della spedizione della gran flotta francese contro l’isola di Sardegna, dell’invasione della città capitale e delle isole intermedie, Bologna 1793.

 

(72) AST, Sardegna, Corrispondenza proveniente dall’isola, Lettere di particolari ed altre, mazzo1, Cagliari, 19 aprile 1793, Da Gio. Tommaso Marras al conte Graneri, Copia della lettera del cavagliere dn Luigi Porcheddu di Senorbj del dettaglio, e successi della sua compagnia di volontarj, cioe’ dal dì che i francesi si portarono a terra, sino al giorno, che se ne ritornarono a bordo (infra, p.   ).

(73) Gio. Tommaso Marras, Breve ragguaglio, cit. (infra, pp.      ).

 

(74) Cfr. Relazione del colonello Canelles, letta e scritta il 21 agosto 1793, in P. Martini, La spedizione francese, cit., pp. 195-291.

 

(75) Francesco Gerolamo Perrot d’Hauteville, nato nel 1731, intendente generale della gabelle, divenne ministro degli Esteri nel 1789, incarico nel quale nel giugno 1796 fu sostituito da Clemente Damiano di Priocca (1749-1813), già ambasciatore presso la Santa Sede. Cfr. G. Ricuperati, Il Settecento, in aa. vv. Il Piemonte sabaudo. Stato e territori in età moderna, Torino, 1994, passim; G. Romagnani, Prospero Balbo intellettuale e uomo di Stato (1762-1837), vol. I, Il tramonto dell’Antico Regime in Piemonte (1762-1800), Torino 1998, passim.

 

(76) AST, Lettere Ministri, Roma, mazzo 305, Roma, 3 marzo 1793, Dal cav. di Priocca al conte di Hauteville (infra, p.   )

 

(77) AST, Lettere Ministri, Roma, mazzo 305, Torino, 20 marzo 1793, Dal conte di Hauteville al Cav. di Priocca (infra, p.

 

(78) AST, Lettere Ministri, Roma, mazzo, 305, Torino, 3 aprile 1793, Dal conte di Hauteville al cav. di Priocca (infra, p.   )

 

(79) Ibidem.

 

(80) AST,  Lettere Ministri, Roma, mazzo 305, Torino, 22 maggio 1793, Dal conte di Hauteville al cav. di Priocca (infra, p.    ).

 

(81) AST, Lettere Ministri, Roma, mazzo 305, Roma, 7 giugno1794, Dal Cav. Damiano di Priocca al conte di Hauteville (infra, p.   ).

 

(82) Per gli aspetti biografici della vicenda di Matteo Luigi Simon (1761-1816), cfr. A. Mattone – P. Sanna, I Simon: una famiglia di intellettuali tra riformismo e restaurazione, cit. Tra le opere di M. L. Simon ricordiamo: Astemio Lugtimnio (pseudonimo di M. L. Simon), La crisi politica dell’isola di Sardegna, ossia Risposta imparziale a un oltremontano, s. l., 1800, ripubblicata da Rafael Catardi, Matteo Luigi Simon e la crisi politica dell’isola di Sardegna (1793-96), Alghero 1964. Si veda inoltre la recente edizione di un manuale geografico-storico lasciato inedito dall’autore: M. L. Simon, La Sardegna antica e moderna, a cura di Carlino Sole e Virgilio Porceddu, Cagliari 1995 (da un inedito manoscritto francese del 1816 tradotto da Carlino Sole).

(83) Su questi aspetti cfr. L. Carta, La «sarda rivoluzione». Studi e ricerche sulla crisi politica della Sardegna tra Settecento e Ottocento, Cagliari 2001, pp. 7-159.

 

(84) AST, Lettere Ministri, Roma, mazzo 305, Torino, 6 agosto 1794, Dal conte di Hauteville al Cav. di Priocca (infra, p.   ). I corsivi sono miei.

 

(85) Il conte Filippo Avogadro di Quaregna, padre dello scienziato Amedeo, presidente del Senato di Piemonte dal 1787, era succeduto quale responsabile degli Affari di Sardegna, al conte Pietro Graneri nel giugno 1794 (cfr. E. Genta, Senato e senatori di Piemonte nel sec. XVIII, Torino 1983, pp. 147-48). Il conte Pier Gaetano Galli Della Loggia, presidente in seconda del Senato di Piemonte, era subentrato al Quaregna nel febbraio 1795. Il conte Galli nel 1798, dopo l’abdicazione di Carlo Emanuele IV, «avrebbe aderito al governo provvisorio e poi al regime napoleonico, diventando conte dell’Impero e alto magistrato (G. Ricuperati, Il Settecento, in aa. vv., Il piemonte sabaudo, cit., p. 872).

 

(86) Su Gian Francesco Simon (1762-1819), terzo dei figli di Bartolomeo, abate di San Michele di Salvenero e preside del Collegio dei Nobili a Cagliari negli anni della «sarda rivoluzione», cfr. A. Mattone, P. Sanna, I Simon: una famiglia di intellettuali tra riformismo e restaurazione, cit. Tra i suoi lavori a stampa ricordiamo l’interessante Lettera sugli illustri coltivatori di giurisprudenza in Sardegna, Cagliari 1801.

 

(87) Vittorio Melano di Portula, frate domenicano, già professore di Teologia dogmatica all’Università di Cagliari, arcivescovo di Cagliari fino al 1797,  fu trasferito a Novara, dove morì nel 1813. Sull’ambasciata a Roma e a Torino nel 1795-96, cfr. L. Carta, L’attività degli Stamenti nella «sarda rivoluzione», cit., tomo I, pp. 218-21; tomo III, docc. 485-489 e 489/2.

 

(88) AST, Lettere Ministri, Roma, vol. 306, Roma, 24 ottobre 1795, Dal Cav.di Priocca al conte di Hauteville (infra, p.   ).

 

(89) Ibidem.

 

(90) Cfr. L. Carta, L’attività degli Stamenti nella «sarda rivoluzione», cit., tomo I, pp.231-33; tomo IV, docc. 517, 566, 579.

 

(91) Sulle persecuzioni contro gli angioiani e sulla loro diaspora si vedano soprattutto S. Pola, I moti delle campagne della Sardegna, cit.; L. Del Piano, Giacobini e massoni in Sardegna tra Settecento e Ottocento, Sassari 1982.

 

(92) Cfr. D. Scano, La vita e  tempi di Giommaria Angioy, cit.; G. Madau-Diaz, Un capo carismatico: Giovanni Maria Angioy, Cagliari 1979.

 

(93) Dei 530 documenti desunti dall’Archivio di Stato di Torino, 192 provengono dalla filza relativa al Consolato di Livorno.

 

(94) AST,  Consolati nazionali, Livorno, mazzo 76,  Livorno, 14 ottobre 1795, Dal Console di Sardegna, Pietro Rebuffo, al conte di Hauteville (infra, p.    ).

 

(95) Vedi nota 75.

 

(96) AST, Consolati nazionali, Livorno, mazzo 76, Livorno, 15 giugno 1796, Dal Console di Sardegna al conte di Hauteville (infra, p.    ).

 

(97) AST, Consolati nazionali, Livorno, mazzo 76, Livorno, 18 giugno 1796, Dal Console di Sardegna al cav. di Priocca (infra, p.    ).

 

(98) Ibidem (infra, p.    ). Il corsivo è mio.

 

(99) AST, Sardegna, Relazioni a S. M., Torino, 6 luglio 1796,  mazzo 12 (infra, p.    ).

 

(100) AST, Lettere Ministri, Genova, mazzo 3, Genova, 29 giugno 1796, Da Nomis di Cossilla, ambasciatore di Sardegna presso la Repubblica di Genova, al cav. di Priocca (infra, p.    ).

 

(101) AST, Lettere Ministri, Genova, mazzo 33, Torino, 2 luglio 1796, Dal cav. di Priocca a Nomis di Cossilla (infra, p.   ).

 

(102) AST, Lettere ministri, Genova, mazzo 34, Genova, 5 luglio 1796, Da Nomis di Cossilla al cav. di Priocca (infra, p.   ).

 

(103) AST, Consolati nazionali, Livorno, mazzo 76 (in un pacco a parte, indicato come proveniente dalla Segreteria degli affari di Sardegna), Livorno, 13 luglio 1796, Dal Console di Sardegna al cav. di Priocca (infra, p.   ). Il corsivo è mio.

 

(104) AST, Consolati nazionali, Livorno, mazzo 76, Livorno, 15 luglio 1796, Dal Console di Sardegna al cav. di Priocca (infra, p.   ).

 

(105) Ibidem.

 

(106)  Cfr. D. Scano, op. cit., pp. 137-39. Su tutti i personaggi citati si vedano le voci biografiche in V. Del Piano, Giacobini moderati e reazionari, cit.

 

(107) AST, Consolati nazionali, Livorno, mazzo76, Livorno, 20 luglio 1796, Dal Console di Sardegna al cav. di Priocca (infra, p.   ).

 

(108) AST, Lettere ministri, Genova, mazzo 34, Genova, 23 luglio 1796, Da Nomis di Cossilla al cav. di Priocca (infra, p.   ). Sul De Lorenzo cfr. V. Del Piano, Gacobini moderati e reazionari, cit., ad vocem.

 

(109) AST, Consolati nazionali, Livorno, mazzo 76, Livorno, 3 agosto 1796, Dal Console di Sardegna al cav. di Priocca (infra, p.   ).

 

(110) Cfr. A. Soboul, La Rivoluzione francese, trad. it. di Carlo Pischedda, Bari 1971, vol. 2°, p. 504.

 

(111) AST, Consolati nazionali, Livorno, mazzo 76, Livorno, 10 agosto 1796, Dal Console di Sardegna al cav. di Priocca (infra, p.   ).

 

(112) Ibidem; AST, Consolati nazionali, Livorno, mazzo 76, Livorno, 3 agosto 1796, Dal Console di Sardegna al cav. di Priocca (infra, p.   ).

 

(113) AST, Consolati nazionali, Livorno, mazzo 76, Livorno, 27 luglio 1796, Dal Console di Sardegna al cav. di Priocca (infra, p.   ).

 

(114) AST, Consolati nazionali, Livorno, mazzo 76, Livorno, 3 agosto 1796, Dal Console di Sardegna al cav. di Priocca (infra, p.   ).

 

(115) Ibidem.

 

(116) AST, Consolati nazionali, Livorno, mazzo 76, Livorno, 25 agosto 1796, Dal Console di Sardegna al cav. di Priocca (infra, p.   ).

 

(117) Ibidem.

 

(118) AST, Paesi, Milanese, Lettere diverse, mazzo 2 non inventariato, Milano, 31 agosto 1796, Dal cav. Borgese al cav. Rebuffo Console di Sardegna a Livorno (infra, p.   ).

 

(119) AST, Consolati nazionali, Livorno, mazzo 76, Livorno, 31 agosto 1796, Dal Console di Sardegna al cav. di Priocca (infra p.   ).

 

(120) Ibidem.

 

(121) AST, Consolati nazionali, Livorno, mazzo 76, Livorno, 2 settembre 1796, Dal Console di Sardegna al cav. di Priocca (infra, p.   ).

 

(122) AST, Consolati nazionali, Livorno, mazzo 1, Livorno, 5 settembre 1796, Dal Console di Sardegna al cav. Borgese (infra, p.   ).

 

(123) Ibidem.

(124) AST, Lettere Ministri, Genova, mazzo 33, Torino, 7 settembre 1796, Dal cav. di Priocca a Nomis di Cossilla Ambasciatore di Sardegna presso la Rep. di Genova (infra, p.   ).

(125) AST, Consolati nazionali, Livorno, mazzo 76, Livorno, 7 settembre 1796, Dal Console di Sardegna al cav. di Priocca (infra, p.   ).

 

(126) Come si desume da una relazione al viceré Vivalda del giudice Giuseppe Valentino e degli altri magistrati incaricati della repressione degli angioiani, probabil,ente redatta nel settembre 1798, conservato in ASC, Segreteria di Stato, 2^ serie, vol. 1696, fasc. 1796, la fallita incursione contro Sassari della squadriglia guidata da Cosimo Auleri avvenne il 17 settembre 1796; l’attacco dei fratelli Muroni contro Bonorva avvenne invece la sera del 7 e la mattina dell’8 ottobre 1796. Cfr. L. Del Piano, Giacobini e massoni, cit., Sassari, 1982, p. 141; si veda anche G. Sotgiu, Storia della Sardegna sabauda, cit., p. 217.

 

(127) AST, Consolati nazionali, Livorno, mazzo 76, Livorno, 7 settembre 1796 – Dal Console di Sardegna al cav. di Priocca (infra, p.   ).

 

(128) D. Scano, op. cit., p. 140. Una documentazione di grande interesse per valutare l’atteggiamento di Carlo Emauele IV nei confronti della Sardegna è costituita dalle lettere della moglie Maria Clotilde di Francia al confessore, l’ex gesuita originario di Osilo Giovanni Battista Senes: cfr. C. Manunta Bruno, Una regina e il confessore. Lettere inedite di Maria Clotilde di Francia regina di Sardegna all’ex gesuita G. B. Senes (1799-1802), Firenze 1935.

 

(129) AST, Consolati nazionali, Livorno, mazzo 76, Livorno, 14 settembre 1796, Dal Console di Sardegna al cav. di Priocca (infra, p.   ).

 

(130) Ibidem.

 

(131) AST, Consolati nazionali, Livorno, mazzo 76, Livorno, 21 settembre 1796, Dal Console di Sardegna al cav. di Priocca (infra, p.   ).

 

(132) Felice Mulas Rubatta, che fu l’artefice della fuga da Casale dell’Angioy, ne aveva sposato la sorella Maria Grazia Giovanna. Particolarmente attivo, insieme al fratello Andrea, nella propaganda e nella lotta antifeudale, stretto collaboratore dell’Angioy durante il periodo del governo a Sassari, fu tra gli animatori della resistenza del villaggio natale di Bono all’assedio e al saccheggio perpetrato contro quel villaggio dal corpo di spedizione al comando  dei delegati viceregi Ignazio Musso, Nicolò Guiso ed Efisio Luigi Pintor Sirigu. Dopo il rientro in Sarddgna fu a lungo invischiato nei contrasti interni alla comunità di Bono, per cui subì anche il confino. Il Manno nella Storia moderna scrive erroneamente che fu assassinato a Bono il 9 febbraio 1798; in realtà ad essere assassinato fu il fratello Andrea. Cfr. L. Del Piano, Giacobini e massoni, cit., p. 130.

 

(133) L’avvocato sassarese Gioacchino Mundula, il più noto giacobino della «sarda rivoluzione» e valido collaboratore dell’Angioy, che seguì nell’esilio, nel novembre 1796 da Livorno si recò in Corsica, ad Ajaccio, per tenere viva, tramite  i fuorusciti, la speranza  d’una imminente spedizione francese per liberare la Sardegna. Tramontata questa speranza, si trasferì in Francia per sollecitare il Direttorio. Non si conosce con esattezza la data della morte, che avvenne a Parigi. Nella documentazione che pubblichiamo la notizia della morte viene data in un dispaccio del marchese Della Valle all’avvocato fiscale Cappa del 22 luglio 1798 (vedi oltre, nota 183).

 

(134) AST, Consolati nazionali, Livorno, mazzo 76, Livorno, 3 agosto 1796, Dal Console di Sardegna al cav. di

Priocca (infra, p.   ); AST, Consolati nazionali, Livorno, mazzo 76, Livorno, 2 novembre 1796, Dal Console di Sardegna al cav. di Priocca (infra, p.   ).

 

(135) AST, Consolati nazionali, Livorno, mazzo 76, Livorno, 21 settembre 1796, Dal Console di Sardegna al cav. di Priocca (infra, p.   ).

 

(136) Cfr. AST, Lettere Ministri, Genova, mazzo 33, Torino, 17 settembre 1796, Dal cav. di Priocca a Nomis di Cossilla (infra, p.   ); AST, Lettere ministri, Genova, mazzo 34, Genova, 24 settembre 1796, Da Nomis di Cossilla al cav. di Priocca (infra, p   ).; AST, Lettere ministri, Genova, mazzo 34, Genova, 1 ottobre 1796, Da Nomis di Cossilla al cav. di Priocca (infra, p.   ); AST, Lettere ministri, Genova, mazzo 34, Genova, 4 ottobre 1796, Da Nomis di Cossilla ambasciatore al cav. di Priocca (infra, p.   ); AST, Lettere Ministri, Genova, mazzo 34, Genova, 8 ottobre 1796, Da Nomis di Cossilla al cav. di Priocca (infra, p.   ).

 

(137) AST, Consolati nazionali, Livorno, mazzo 76, Livorno, 28 settembre 1796, Dal Console di Sardegna al cav. di Priocca (infra, p.   ).

 

(138) . AST, Consolati nazionali, Livorno, mazzo 76, Livorno, 1° ottobre 1796, Dal Console di Sardegna al cav. di Priocca (infra, p.   ).

(139) AST, Consolati nazionali, Livorno, mazzo 76, Livorno, 5 ottobre 1796, Dal Console di Sardegna al cav. di Priocca (infra, p.   ).

 

(140) Ibidem.

 

(141) AST, Sardegna, Relazioni a S.M., mazzo 12, Torino, 6 dicembre 1796, Relazione a S.M. fatta la sera del 6 Xbre (infra, p.   ).

 

(142) Il marchese Giuseppe Della Valle di Clavesana, primo presidente della Camera dei Conti, era succeduto al conte Galli Della Loggia nell’incarico di responsabile degli Affari di Sardegna nel settembre 1796, con l’avvento al trono di Carlo Emanuele IV.

 

(143) AST, Consolati nazionali, Livorno, mazzo 76, Livorno, 26 ottobre 1796, Dal Console di Sardegna al cav. di Priocca (infra, p.   ).

 

(144) AST, Consolati nazionali, Livorno, mazzo 76, Livorno, 2 novembre 1796, Dal Console di Sardegna al cav. di Priocca (infra, p.   ).

 

(145) AST, Lettere ministri, Genova, mazzo 34, Genova, 3 dicembre 1796, Da Nomis di Cossilla al cav. di Priocca (infra, p.   )

 

(146) Sull’incarico dato dagli Stamenti all’arcivescovo Melano di rappresentare la Sardegna nella cerimonia del giuramento di fedeltà al nuovo sovrano, cfr. L’attività degli Stamenti nella «sarda rivoluzione», cit., tomo IV, docc. 706, 707, 715, 717, 718 722, 723, 725, 730, 733, 735, 736.

 

(147) AST, Sardegna, Corrispondenza col Viceré, mazzo 26, Torino, 7 dicembre 1796, Dal marchese Della Valle al Viceré (infra, p.   ).

 

(148) Ibidem.

 

(149) AST, Segreteria di S.M., lettere di particolari, mazzo 125, Torino, 21 dicembre 1796, Dalla Segreteria di S.M. al Viceré (infra p.   ).

 

(150) Ibidem.

 

(151) Ibidem.

 

(152) Cfr. D. Scano, op. cit., pp. 141-42.

 

(153) AST, Sardegna, Relazioni a S. M., mazzo12, Torino, 14 dicembre 1796, Relazione a S.M. (infra, p.    ).

 

(154) AST, Segreteria di S.M., lettere di particolari, mazzo 125, Torino, 21 dicembre 1796, Dalla Segreteria di S. M. al Viceré (infra, p.    ).

 

(155) Ceduta alla Francia dalla Repubblica di Genova con il Trattato di Versailles nel 1768, la Corsica, a seguito della ribellione di Pasquale Paoli, nella primavera del 1794 fu occupata dagli inglesi, che la governarono per due anni; dovettero evacuarla a seguito delle vittorie del Bonaparte nella prima Campagna d’Italia della primavera 1796.

 

(156) AST, Lettere di particolari, lettera T, mazzo 18, Casale, 8 gennaio 1797, Dal conte della Torre Governatore di Casale al Segretario agli Interni (infra, p.    ).

 

(157) Il conte Pietro Graneri, che fu giudice della Reale Udienza a Cagliari dal 1760 al 1768, aveva sposato Anna Maria Manca Brea (1739-1808), la vedova del duca di San Pietro Bernardo Genovès Cervellon.

 

(158) AST, Lettere di particolari, lettera T, mazzo 18, Casale, 17 gennaio 1797, Dal conte della Torre Governatore di Casale al Segretario agli Interni (infra, p.   ); AST, Consolati nazionali, Livorno, mazzo 76, Livorno, 8 febbraio 1797, Dal Console di Sardegna al cav. di Priocca (infra, p.    ).

 

(159) AST, Lettere di particolari, lettera T, mazzo 18, Casale, 17 gennaio 1797, Dal conte della Torre Governatore di Casale al Segretario agli Interni (infra, p.    ).

 

(160) AST, Sardegna, Corrispondenza coi particolari Sardi, mazzo 26, Torino, 18 gennaio 1797, Dal marchese Della Valle al Reggente Dn Gavino Cocco (infra, p.    ).

 

(161) AST, Consolati nazionali, Livorno, mazzo 76, Livorno, 20 gennaio 1797, Dal Console di Sardegna al cav. di Priocca (infra, p.    ).

 

(162) AST, Sardegna, Relazioni a S.M., mazzo 12, Torino,11 aprile 1797, Relazione a S.M., (infra, p.   ); AST, Corrispondenza col Viceré, mazzo 26, Torino, 12 aprile 1796, Dal marchese della Valle al Viceré (infra, p.   ).

 

(163) AST, Consolati nazionali, Livorno, mazzo 76, Livorno, 20 gennaio 1797, Dal Console di Sardegna al cav. di Priocca (infra, p.    ).

 

!164) Ibidem.

 

(165) Ibidem.

 

(166) Ibidem. In realtà don Felice Mulas Rubatta era congnato dell’Angioy.

 

(167) Vedi nota 132.

 

(168) AST, Lettere Ministri, Francia, mazzo 238, Torino, 25 marzo 1797, Dall’Incaricato di Francia, M.r Jacobs, al cav. di Priocca (infra, p.    ).

 

(169) Ibidem.

 

(170) ASC, Segreteria di Stato, serie 2^, vol. 1686, Sassari, 27 marzo 1797, Dal cav. Cugia al Viceré (infra, p.    ).

 

(171) AST, Sardegna, Corrispondenza coi particolari Sardi, mazzo 26 , Torino, 12 aprile 1797, Dal marchese Della Valle al Reggente Gavino Cocco (infra, p.    ).

 

(172) AST, Sardegna, Corrispondenza coi particolari Sardi, mazzo 26, Torino, 19 aprile 1797, Dal marchese Della Valle a Dn Gio Maria Angioi (infra, p.    ).

 

(173) Ibidem.

 

(174) AST, Sardegna, Relazioni a S.M., mazzo 12, Torino, 25 aprile 1797, Relazione a S.M. (infra, p.    ).

 

(175) Ibidem.

 

(176) Ibidem.

 

(177) AST, Sardegna, Relazioni a S.M., mazzo 12, Torino, 9 maggio 1797, Relazione a S.M. fatta li 9 maggio 1797 dei tre Dispacci del Viceré 17, e 31 marzo, e 14 aprile (infra, p.    ).

 

(178) Per le biografie di questi personaggi cfr. V. Del Piano, Giacobini moderati e reazionari, cit., alle rispettive voci.

 

(179) AST, Consolati nazionali, Livorno, mazzo 76, Livorno, 7 giugno 1797, Dal Console di Sardegna al cav. di Priocca (infra, p.    ).

 

(180) Ibidem.

 

(181) AST, Consolati nazionali, Livorno, mazzo 76, Livorno, 18 giugno 1797, Dal Console di Sardegna al cav. di Priocca (infra, p.    ).

 

(182) Ibidem.

 

(183) AST, Sardegna, Lettere coi particolari Sardi, mazzo 12, Torino, 22 luglio 1798, Dal marchese Della Valle al Presidente Cappa (infra, p.   ).

 

(184) AST, Consolati nazionali, Livorno, mazzo 76, Livorno, 18 giugno 1797, Dal sacerdote D. Giuseppe Ghio, segretario del Console a Livorno, al cav. di Priocca (infra, p.    ).

 

(185) AST, Paesi, Milanese, lettere diverse, mazzo 2 non inventariato., Mombello, 27 giugno 1797, Dal Cav. Borgese al cav. di Priocca (infra, p.    ).

 

(186) AST, Paesi, Milanese, lettere diverse, mazzo 2 non inventariato, Milano, 4 luglio 1797, Dal cav. Borgese al cav. di Priocca (infra, p.    ).

 

(187) Cfr. AST, Consolati nazionali, Livorno, mazzo 76, Livorno, 30 giugno 1797, Dal Console di Sardegna al cav. di Priocca (infra, p.    ).

 

(188) AST, Consolati nazionali, Livorno, mazzo 76, Livorno, 5 luglio 1797, Dal Console di Sardegna al cav. di Priocca (infra, p.    ).

 

(189) AST, Consolati nazionali, Livorno, mazzo 76, Livorno, 5 luglio 1797, Dal Console di Sardegna al cav. di Priocca (infra, p.    ).

 

(190) Ibidem.

 

(191) Cfr. V. Del Piano, Giacobini moderati e reazionari, cit., p. 506, ad vocem Sotgia Mundula Giammaria.

 

(192) AST, Consolati nazionali, Livorno, mazzo 76, Livorno, 5 luglio 1797, Dal Console di Sardegna al cav. di Priocca (infra, p.    ).

 

(193) Su Domenico Pinna, magistrato della Reale Governazione, che partecipò alla marcia di Angioy verso Cagliari, fratello dell’oppositore macomerese Salvatore, che ritorna spesso nella documentazione che si pubblica nel tentativo non coronato da successo di farsi ricevere dal sovrano per giustificarsi e dopo il suo rientro in Sardegna a lungo confinato a Carloforte, cfr. V. Del Piano, Giacobini, moderati e reazionari, cit., ad vocem; G. Cucca, Macomer, documenti cronache e storia di una comunità. Settecento sabaudo, Cagliari 2000, passim; Idem, Macomer, documenti cronache e storia di una comunità. Ottocento. Da Calo Emanuele IV a Carlo Felice (1800-1831), Nuoro 2007; S. Pittalis, Un documento inedito su Giomaria Angioy, in ASS, vol. XI, 1916, pp. 174-79.

 

(194) AST, Consolati nazionali, Livorno, mazzo 76, Livorno, 28 luglio 1797, Dal Console di Sardegna al cav. di Priocca (infra, p.    ).

 

(195) AST, Consolati nazionali, Livorno, mazzo 76, Livorno, 25 agosto 1797, Dal Console di Sardegna al cav. di Priocca (infra, p.    ).

 

(196) AST, Consolati nazionali, Livorno, mazzo 76, Livorno, 25 agosto 1797, Dal Console di Sardegna al cav. di Priocca (infra, p.    ).

 

(197) AST, Sardegna, Relazioni a S.M., mazzo 12., Torino, 5 settembre 1797, Relazione a S.M. (infra, p.    ).

 

(198) Vedi nota 132.

 

(199) AST, Lettere di particolari, lettera T, mazzo 18, Casale, 16 luglio 1797, Dal conte della Torre Governatore di Casale al Segretario agli Interni (infra, p.    ).

 

(200) AST, Sardegna, Corrispondenza coi particolari Sardi, mazzo 26, Torino, 14 luglio 1797, Dal marchese Della Valle alla Segreteria di Stato estera (infra, p.    ).

 

(201) AST, Lettere di particolari, lettera T, mazzo 18, Casale, 10 settembre 1797, Dal conte della Torre Governatore di Casale al conte Cerruti (infra, p.    ).

 

(202) Cfr. G. A. Mura, Un interessante documento inedito su Giomaria Angioy, in «Il Nuraghe», anno III, n. 33, ottobre-novembre 1925; D. Scano, op. cit., pp. 143-44; G. Madau Diaz, Un capo carismatico: Giovanni Maria Angioy, Cagliari 1979, p. 433.

 

(203) D. Scano, op. cit., p. 143.

 

(204) AST, Lettere di particolari, lettera T, mazzo 18, Casale, 10 settembre 1797, Dal conte della Torre Governatore di Casale al conte Cerruti (infra, p.    ).

 

(205) Ibidem.

 

(206) AST, Lettere di particolari, lettera T, mazzo 18, Casale, 17 settembre 1797, Dal conte della Torre Governatore di Casale al conte Cerruti (infra, p.    ).

 

(207) Ibidem.

 

(208) AST, Lettere di particolari, lettera T, mazzo 18., Casale, 10 settembre 1797, Dal conte della Torre Governatore di Casale al conte Cerruti (infra, p.    ).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Luciano Carta

Una nuova raccolta documentaria sulla «sarda rivoluzione»: appunti e riflessioni per una più compiuta interpretazione del periodo 1793-1798.

 

1. Negli ultimi venti anni la storiografia sulla Sardegna ha registrato un insolito fervore di studi sull’ultimo decennio del Settecento, che ha il suo epicentro nel «triennio rivoluzionario sardo», scandito da tre momenti cruciali: l’invasione francese nel 1793, la cacciata dei piemontesi nel 1794 e le sollevazioni antifeudali nel 1795-96 culminate nella sfortunata epopea di Giovanni Maria Angioy. Sull’onda delle celebrazioni bicentenarie della Rivoluzione francese, la storiografia sarda ha sviluppato una riflessione su questo evento epocale della storia dell’Occidente, rivisitando le vicende storiche locali alla luce della ‘mentalità’ del secolo dei lumi e delle conquiste della Grande Rivoluzione e individuando in quel momento cruciale della storia europea, che segna tradizionalmente l’inizio dell’età contemporanea, l’alba della Sardegna contemporanea.

Non è facile fare un’analitica rassegna di tutti i contributi sull’argomento apparsi dal 1988 ad oggi, soprattutto se tra questi si volessero comprendere, oltre ai libri e agli articoli di riviste, anche gli articoli apparsi sui quotidiani locali, che spesso hanno offerto un contributo significativo di idee e di critica. Sarà sufficiente soffermarsi sulle iniziative e sui contributi più significativi e su quelli che, a giudizio di chi scrive, hanno dato un apporto del tutto nuovo sia sotto il profilo dell’interpretazione che della documentazione

Le iniziative di studio più significative sulla fine del Settecento sardo hanno preso l’avvio con il convegno promosso dall’Amministrazione comunale di Bono nel dicembre 1988 su Giovanni Maria Angioy e i suoi tempi (15-17 dicembre 1988), in occasione del centottantesimo anniversario della sua morte; sono seguite le numerose iniziative di «Archivio sardo», la rivista diretta da Girolamo Sotgiu scomparso nel 1996, che ha promosso, insieme all’Amministrazione comunale di Santa Teresa di Gallura, il convegno di studi La Rivoluzione sulle bocche. Francesco Cilocco e Franceso Sanna Corda ‘giacobini’ in Gallura (1802), svoltosi il 14-15 giugno 1991 e, tre anni dopo, il convegno internazionale di studi Francia e Italia negli della Rivoluzione, svoltosi a Quartu Sant’Elena e a Cagliari nell’aprile del 1994 in occasione del bicentenario della cacciata dei piemontesi, con la partecipazione di studiosi italiani e francesi; si sono concluse con il convegno Patriottismo e costituzionalismo nella «sarda rivoluzione». L’Alternos Giovanni Maria Angioy e i moti antifeudali (26-27 aprile 1996), organizzato dall’Università di Sassari, con il contributo del Comune di Sassari e della Regione Autonoma della Sardegna. Dei primi tre convegni sono stati pubblicati gli atti (1).

I saggi e gli articoli sull’argomento apparsi dal 1988 ad oggi, tanto numerosi da rendere problematica una puntuale ricognizione bibliografica, presentano impostazioni metodologiche e tematiche diversificate. Molti hanno seguito la tradizionale e frequentatissima strada della storia politica e sociale; qualcuno ha egregiamente dissodato il terreno della storia delle istituzioni, pochi hanno timidamente aperto il varco della storia delle idee ed anche, sulla falsariga della storiografia ‘annalistica’, della ’mentalità’;  diversi hanno offerto importanti contributi sul versante della pubblicazione di fonti sinora ignorate o poco note (2). Si è trattato, in generale, di un importante e valido lavoro critico rivolto ad un periodo della nostra storia che ha costituito a lungo, e per certi versi costituisce ancora, un momento storico attraverso il quale si sono confrontate e spesso scontrate, sul terreno dell’interpretazione storiografica, concezioni politiche ed ideologiche diverse e talvolta contrapposte, dettate in modo troppo marcato dai bisogni e dalle contingenze del presente. Lo studioso che volesse cimentarsi nello studio della storia della storiografia angioiana non faticherebbe molto a rendersi conto che, nelle ricostruzioni delle vicende storiche della Sardegna di fine Settecento, passano gli orientamenti ideali e le battaglie politiche di momenti diversi della nostra storia contemporanea. Quelle vicende hanno rappresentato il terreno sul quale i ‘maestri’ della conoscenza storica hanno veicolato ‘visioni del mondo’ ora reazionarie ora moderate ora progressive. Inoltre, poiché la ricerca dei ‘valori’ in ambito storico s’incarna sempre in questo o in quel personaggio, ne è scaturita, nell’arco di due secoli di storiografia, la mitizzazione, in senso ora positivo ora negativo, di Giovanni Maria Angioy, a torto considerato la sola figura emergente e significativa del periodo.

La storiografia più recente ha contribuito non poco a spostare l’attenzione dalla figura mitizzata dell’Angioy alle cause strutturali dei sommovimenti politico-sociali del periodo; alla formazione culturale degli uomini che hanno guidato quei moti che furono insieme antipiemontesi antifeudali e antiassolutisti; al profondo significato autonomistico che sottende la reviviscenza dell’attività degli Stamenti, i bracci dell’antico Parlamento cetuale non più convocato da un secolo; alla ‘mentalità’ degli uomini di quel tempo e conseguentemente alla circolazione in Sardegna, reale per quanto limitata, delle ‘idee francesi’ e più in generale di una visione del mondo in sintonia col secolo dei lumi e con i valori e  le conquiste dell’Ottantanove; al protagonismo politico della nascente borghesia, delle plebi cittadine e delle masse contadine. Ne è emerso un quadro, ancora in via di definizione e di completamento, molto vivace e dinamico, in cui ad una rappresentazione eroica del periodo è succeduta una rappresentazione articolata di tutte le componenti della società, con le loro passioni, i loro progetti, le loro contrapposizioni: in breve una storia non di eroi ma di uomini in carne ed ossa.

Tra i lavori più recenti, alcuni hanno aperto nuovi campi di ricerca: il volume di Italo Birocchi, La carta autonomistica della Sardegna tra antico e moderno. Le «leggi fondamentali» nel triennio rivoluzionario (1793-96) (1992); i quattro saggi scritti in collaborazione da Antonello Mattone e Piero Sanna, I Simon, una famiglia di intellettuali tra riformismo e restaurazione (1994), Giovanni Maria Angioy e un progetto sulla storia del «diritto patrio» del Regno di Sardegna (1802) (1994); La «rivoluzione delle idee»: la riforma delle due Università sarde e la circolazione della cultura europea (1764-1790) (1998), La «crisi politica» del Regno di Sardegna dalla rivoluzione patriottica ai moti antifeudali (1999); i lavori di Federico Francioni, fra cui la raccolta di saggi Per una storia segreta della Sardegna fra Settecento e Ottocento (1996); il volume 24° della collana «Acta Curiarum Regni Sardiniae», L’attività degli Stamenti nella «sarda rivoluzione» (1793-1799), a cura di chi scrive, pubblicato nel 2000.

Al di là delle differenze di impostazione tematica e metodologica, è possibile individuare almeno tre grandi temi che accomunano gli autori di quella che potremmo chiamare la nuova storiografia sulla fine del Settecento sardo:

1) La Sardegna di fine Settecento non è avulsa sotto il profilo ideologico, politico ed economico, dalla temperie culturale dell’Europa del periodo, come pure numerosi autori nel passato e in tempi a noi più vicini hanno sostenuto.

2) La stagione della «sarda rivoluzione» di fine Settecento non si risolve nella rivendicazione di interessi particolari e neppure in scomposte sommosse di plebi cittadine affamate o in tumultuose jacqueries di contadini, ma è il risultato di una piattaforma politica, complessa per la diversità delle istanze che rappresenta, ma coerente nei suoi obiettivi di fondo; una piattaforma politica che fondandosi sul riconoscimento di una specificità politica e culturale della nazione sarda, rivendica una autonomia a tutto campo ed elabora un piano di riforma della società e dello Stato di carattere progressivo intonato alla mentalità dei tempi.

3) La piattaforma politico-ideologica del periodo, soffocata e ferocemente repressa dal governo sabaudo, è rimasta sommersa ma viva lungo tutto il cinquantennio della Restaurazione, per riaffiorare agli albori del Risorgimento e per informare di sé l’ideologia e l’azione politica della componente democratica dell’intellettualità sarda, che annovera tra i suoi componenti più rappresentativi Giorgio Asproni e Giovanni Battista Tuveri.

 

 

2. Gli anni della «sarda rivoluzione» 1793-1796 rappresentano ancora oggi un periodo di difficile interpretazione e ricostruzione storica, nonostante i grandi passi avanti fatti dalla ricerca storica nell’ultimo ventennio, grazie soprattutto alle nuove cospicue acquisizioni documentarie relative all’attività degli Stamenti.

La difficoltà della ricostruzione storica dipende in primo luogo dagli avvenimenti stessi, per la loro complessità, una certa contraddittorietà di comportamento dei protagonisti, la passionalità viscerale con cui sono stati vissuti, l’incalzare degli eventi che imponeva un continuo adattamento di progetti politici e di coordinate ideologiche, le repentine e profonde fenditure che si verificarono nel breve periodo del triennio rivoluzionario sardo (1793-1796) tra le forze sociali che ne furono protagoniste, diverse per interessi e per obiettivi politici, anche se durante e dopo la vittoriosa guerra contro l’invasione francese nel 1793 avevano trovato un comune terreno d’intesa nella nebulosa cornice dell’unità patriottica. Siamo in presenza delle dinamiche proprie di ogni rivoluzione; nel caso specifico, di quella che viene definita la «sarda rivoluzione».

In secondo luogo la difficoltà della ricostruzione storica dipende dalle differenti e talvolta contrapposte valutazioni che di quell’importante periodo hanno dato gli storici, i quali lo hanno spesso rivestito di sembianze che non gli appartenevano, ora denigrando ora esaltando oltre misura l’evento e i suoi protagonisti. Da una parte Giuseppe Manno, massimo storico sardo dell’Ottocento e uomo di convinzioni politiche moderate, il capostipite dei denigratori della «sarda rivoluzione» ha offerto nella Storia moderna (3), un superbo e ancora oggi insuperato affresco in negativo delle vicende dell’ultimo decennio del Settecento sardo, ai cui protagonisti egli ascrive la responsabilità di essersi invischiati nelle maglie dei chimerici princìpi dell’Ottantanove; dall’altra parte, uomini di spiriti liberali, tra i quali spicca nella seconda metà dell’Ottocento l’illustre giurista e uomo politico sassarese Francesco Sulis, desiderosi di riscattare la rivoluzione sarda di fine Settecento dalla luce sinistra in cui l’aveva collocata la storiografia della Restaurazione, ne fecero l’improbabile incunabolo del triennio giacobino italiano (1796-1799), il luogo storico in cui attecchì il seme dei «grandi veri» della Rivoluzione francese (4).

Come avviene spesso per i momenti cruciali della storia dei popoli, anche la «sarda rivoluzione» di fine Settecento è divenuta oggetto preferito della ricerca storica e agone privilegiato di contrapposte scuole di pensiero politico. Il risultato di un approccio così marcatamente ideologico a questo argomento, il cui termine di paragone, in positivo o in negativo, è rappresentato dalla Rivoluzione francese, è stato quello, secondo la felice intuizione di Antonello Mattone e di Piero Sanna, di «offuscarne i tratti essenziali di rivoluzione ‘patriottica’ di Antico Regime» (5).

L’interpretazione che i due studiosi sassaresi hanno recentemente proposto della rivoluzione sarda di fine Settecento, convincente e solidamente argomentata, fa tesoro del ricco fervore di ricerche e di studi che all’argomento hanno dedicato nel secondo dopoguerra illustri storici, come Antonio Era, Franco Venturi, Carlino Sole, Lorenzo Del Piano, Tito Orrù, Girolamo Sotgiu e, in tempi a noi più vicini, Giuseppe Ricuperati, Italo Birocchi e Federico Francioni.

Alla luce di uno studio organico delle vicende della fine del Settecento, attento alla complessità e alla specificità dei fenomeni storici, Mattone e Sanna ritengono che «la sarda rivoluzione non è […] una sorta di anticipazione del triennio repubblicano italiano ma piuttosto l’ultima significativa rivoluzione patriottica del Settecento, ancora indissolubilmente legata alle dinamiche sociali, alla cultura e alla prassi istituzionale di antico regime» (6).

Questa interpretazione, fondata su solide fonti documentarie e su un corretto inquadramento delle peculiarità proprie della società sarda di fine Settecento, non è condivisa da quegli studiosi i quali ritengono di individuare nella «sarda rivoluzione» lo snodo cruciale della storia contemporanea della Sardegna, che ne ricongiunge le aspirazioni e le idee con le aspirazioni e le idee della Rivoluzione francese. Tra questi studiosi, i contributi più significativi sono dovuti a Federico Francioni. Egli, attraverso una lettura ‘militante’ della rivoluzione sarda, che fa riferimento alla lezione di due maestri della storiografia contemporanea, Lucien Febvre e Marc Bloch, per cui «l’indagine sul passato serve a chiarire la situazione contemporanea» (7), si sforza di individuare e valorizzare all’interno della rivoluzione sarda, tutti quegli elementi dell’ambiente politico, economico e culturale della Sardegna che maggiormente si avvicinano alle esperienze più avanzate e progressive della Rivoluzione francese. Da questa lettura emerge una «sarda rivoluzione» fortemente venata di giacobinismo. «Col termine giacobino – scrive Francioni – non dobbiamo limitarci ad indicare, puristicamente ed astrattamente i seguaci di Robespierre e di Saint Just; più in generale possiamo fare riferimento anche a coloro che assunsero come modello da seguire la Francia repubblicana, lottando in modo intransigente contro l’Antico Regime. Non c’è dubbio che in Sardegna comparvero dei repubblicani filofrancesi, che combatterono il sistema feudale ed assolutistico con le armi in pugno; per questo si possono definire giacobini. […] Non dimentichiamo, come ha scritto Michel Novelle, che il giacobinismo è anche una mentalità: essa emerge senz’altro dalla continuità e dalla inflessibilità dell’azione, insomma dalla ’militanza’ propria, se non dell’Angioy, certo del notaio cagliaritano Francesco Cilocco e dell’avvocato sassarese Gioacchino Mundula» (8).

 

 

3. L’aspetto del triennio rivoluzionario sardo su cui si è concentrata maggiormente l’attenzione degli studiosi e che ha prodotto la raccolta e la pubblicazione di una mole imponente di documenti, è stato quello relativo all’attività degli Stamenti. Nel 2000 ha infatti visto la luce, a cura dell’autore di questa introduzione, il volume 24° della collana «Acta Curiarum Regni Sardiniae», opera in quattro tomi dedicata all’attività degli Stamenti negli anni 1793-1799 (9).

Le assemblee stamentarie di fine Settecento non hanno goduto nella storiografia di studi specifici e di adeguata valutazione. Giuseppe Manno, che pure ne loda la generosa tempestività nell’accorrere in difesa del suolo nazionale e ne riconosce il ruolo istituzionale, sempreché si eserciti entro il binario della consolidata pratica di governo di un illuminato assolutismo – «gli Stamenti non hanno autorità veruna: sono corpi abilitati a chiedere ed a rispondere al sovrano, tutt’al più a dargli consulta» (10) – ne condanna aspramente l’operato quando, a partire dalla sollevazione antipiemontese del 28 aprile 1794, le assemblee stamentarie si rendono interpreti delle aspirazioni del popolo sardo e guidano di fatto il governo dell’isola con l’assecondare le spinte innovative, motivo per il quale esse si sarebbero poste in balia di quella che sprezzantemente egli stigmatizza come «tirannia plebea» (11).

Il Sulis, dal canto suo, in una lucida lezione tenuta nell’Ateneo sassarese nel 1854, attraverso un’improponibile ed anacronistica omologazione dell’antico Parlamento sardo con l’istituto parlamentare di uno stato costituzionale fondato sui princìpi del moderno liberalismo, contestava ad esso la legittimità di rappresentare la nazione sarda, attesa la sua composizione cetuale che escludeva «il principio della elezione dei suoi membri da un corpo politico elettorale» (12); nel saggio Dei moti politici dell’isola di Sardegna, inoltre, Sulis giudicava quell’istituto della costituzione sarda di Antico Regime incapace di interpretare e portare a compimento le trasformazioni politiche che la società sarda di fine Settecento reclamava, e ne denunciava «l’impotenza a grandi concetti politici» (13).

Tra i contemporanei, Carlino Sole, che ha considerevolmente contribuito ad illustrare con fondamentali lavori la storia della Sardegna nel secolo XVIII, ha costantemente ribadito «la regola di una Sardegna pressoché chiusa ad ogni fermento di rivoluzione politica» (14). In merito all’attività delle assemblee stamentarie e alla nota piattaforma politica delle «cinque domande», che prevedeva in primo luogo il ripristino della convocazione decennale del Parlamento, asserisce: «La classe dirigente sarda non si rendeva conto che, chiedendo la conferma degli antichi privilegi e il ripristino integrale del Parlamento spagnolo, senza alcun adeguamento della rappresentanza da questo espressa allo spirito dei nuovi tempi, si faceva un gran passo indietro, si ignoravano le attese innovatrici alimentate da trent’anni di riformismo illuminato e si condannava ad una fatale involuzione la spinta rivoluzionaria che la nuova posizione di guida assunta dagli Stamenti in un momento difficile sembrava voler imprimere alle forze reali» (15).

Nonostante la perentorietà di queste affermazioni, relativamente al problema storiografico della reviviscenza stamentaria di fine Settecento, Carlino Sole ha tuttavia, molto saggiamente, fatto professione di sano scetticismo, ha assunto un corretto atteggiamento di epoché storica, sostenendo la necessità di procedere a ulteriori acquisizioni documentarie tali da consentire un giudizio più approfondito. Egli stesso ha pubblicato i processi verbali dello Stamento militare dal 4 al 21 gennaio 1793, che asserisce di aver desunto da un prezioso manoscritto, da lui integralmente trascritto nei primi anni Cinquanta, che gli era stato consegnato dall’illustre giurista Antonio Era e che apparteneva in origine alla collezione algherese Simon-Lavagna. Riprendendo nelle brevi note introduttive a questa edizione di fonti il discorso relativo alla disparità di giudizi della storiografia passata e recente sull’attività degli Stamenti di fine Settecento, Sole osservava che se è corretto ricondurre tale disparità alla «differente connotazione culturale e ideologica dei singoli studiosi», non è meno corretto asserire che quella disparità è da riferire anche «alla scarsezza di fonti edite e alla dispersività e frammentarietà (e, quindi, alle obiettive difficoltà di consultazione diretta) delle molte e inedite altre fonti». In sostanza egli osservava molto a proposito che quanti a vario titolo si sono occupati dei moti rivoluzionari in ordine all’attività parlamentare, si sono rifatti alla «diffusa ma non obiettiva narrazione del Manno» o ad una «tardiva e riassuntiva compilazione di Vittorio Angius» (16). Auspicava pertanto che gli studiosi, accantonando la sterile consuetudine di «rifarsi a citazioni di seconda e terza mano» (17), si dedicassero con rinnovata lena a ricercare i testi autentici dei processi verbali delle sessioni stamentarie tenutesi dal 1793 al 1799, passo obbligato per una più onesta e più compiuta valutazione storica del periodo in generale e delle assemblee stamentarie in particolare. Pago di aver aperto la strada, egli si rammaricava solamente «di non poter riprodurre per intero la serie dei verbali di tutti e tre gli Stamenti, che pure da qualche parte dovevano esistere» (18).

L’onere di progettare la ricerca e di avviare la raccolta sistematica degli atti stamentari fu affidata, nell’ambito della collana Acta Curiarum, a Girolamo Sotgiu ed egli l’ha in gran parte realizzata con la collaborazione di chi scrive e di Aldo Accardo (19). Sin dagli anni Settanta l’illustre storico, scomparso nel marzo 1996, aveva dedicato un’attenzione particolare alle vicende della Sardegna di fine Settecento, segnalando l’importanza di quel momento cruciale della nostra storia, in cui egli individuava i germi della contemporaneità, impostandone lo studio secondo categorie interpretative nuove e originali, rivalutando l’importanza delle assemblee stamentarie nel complesso periodo del triennio rivoluzionario sardo, sebbene fondasse la sua ricostruzione su una documentazione archivistica già nota, sull’opera del Manno e sulla ormai vastissima storiografia. Egli richiamava anzitutto l’attenzione su un grave limite della storiografia sarda, che, sul presupposto di una malintesa e non meglio definita ‘specificità’ dell’isola, dimenticava che la storia della Sardegna della fine del Settecento, come di qualunque altro periodo, non può essere compresa se non viene inquadrata nel più vasto panorama della storia italiana ed europea (20).

Si sforzava inoltre di individuare le cause strutturali dell’arretratezza della Sardegna, l’incidenza e i limiti del riformismo sabaudo, le motivazioni economiche, politiche e culturali che stavano alla base del rivendicazionismo autonomistico di fine Settecento, le forze sociali che se ne fecero interpreti. Secondo Sotgiu il riformismo sabaudo della seconda metà del secolo XVIII ebbe sulla società isolana un impatto decisamente positivo, che si tradusse in una complessiva per quanto limitata crescita economica e demografica e in un sensibile elevamento del grado di cultura specie tra le classi abbienti; avviò l’ammodernamento della struttura produttiva e la razionalizzazione dell’apparato amministrativo; favorì la crescita di una moderna per quanto poco intraprendente borghesia cittadina e terriera. Tale politica di riforme, funzionale ad un «assolutismo cieco e retrivo» e a un regime coloniale di governo che comportò una «alterazione arbitraria delle istituzioni esistenti» (21), non poté agire in profondità nella società isolana e nelle sue strutture produttive, che mantenne inviluppate nell’anacronistico sistema feudale; soprattutto non fu capace, dopo averne creato le premesse, di corrispondere alle aspettative della nuova intellettualità locale che, resa più cosciente della propria identità e dei propri diritti, aspirava legittimamente ad un coinvolgimento diretto nel governo dello Stato. Tale riformismo si risolse, dunque, secondo la definizione di Sotgiu, in una «razionalizzazione senza riforme» (22).

L’interpretazione del riformismo sabaudo proposta da Sotgiu, che ha come punto di riferimento la Rivoluzione francese ed è connaturata ad una concezione fortemente contestativa del rapporto tra centro e periferia nell’ambito dello Stato moderno, risulta oggi, alla luce dei più recenti studi che egli ha contribuito a rinnovare, alquanto riduttiva per mettere a fuoco il complesso rapporto tra Piemonte e Sardegna nella seconda metà del Settecento. Quella interpretazione presenta il limite di connotare come «coloniale» la politica di riforme dei monarchi illuminati negli Stati italiani del secolo XVIII, solo perché promossa dal potere centrale.

Già nella metà degli anni Ottanta Giuseppe Ricuperati, rivalutando una caratteristica della concezione politica e storiografica del Manno e facendo tesoro dei magistrali studi di Franco Venturi sul Settecento riformatore (23), osservava che un corretto approccio storiografico al riformismo settecentesco non poteva avere come unico punto di riferimento i valori e le conquiste politiche della Rivoluzione francese, alla luce dei quali il riformismo illuminato non poteva che apparire un progetto politico inadeguato e perdente. Il riformismo settecentesco, in particolare quello sabaudo, doveva  al contrario essere considerato «dall’interno» della concreta realtà della Sardegna, periferia in situazione di grande arretratezza, per valutarne i risultati non tanto alla luce delle successive conquiste rivoluzionarie, quanto degli altri modelli di riforma attuati negli Stati italiani, ad esempio quello asburgico e quello borbonico. Con riferimento all’interpretazione di Sotgiu, ma anche di Bulferetti, Sole e Scaraffia, autori che partendo da ottiche diverse erano approdati a identiche conclusioni (24), Ricuperati scriveva: «Mi sembra di poter cogliere un residuo di moralismo, spesso in realtà superato dalle cesure interne, per il quale si tende a giudicare una realtà complessa e difficile, come quella che lo Stato sabaudo si trovò ad affrontare in Sardegna, sulla base del senno di poi, che in questo caso è l’eversione feudale, la quale venne teorizzata, è vero, negli ultimi decenni dell’antico regime (e perfino cautamente sperimentata, precocemente e in forme controllate, in Sardegna), ma che, avendo aperto contraddizioni incontenibili nel modello riformistico giuseppino e asburgico, era destinata a diventare una scelta concreta solo con la rivoluzione francese. E’ in questa direzione che intendo riaprire la discussione. Credo che una valutazione più articolata del rapporto tra Piemonte e Sardegna nel Settecento debba partire dai seguenti presupposti: per prima cosa considerare il progetto politico non con le lenti di un futuro inevitabilmente lontano e imprevedibile, ma in confronto col suo presente, cioè con gli altri modelli riformistici in corso, quello borbonico e quello asburgico. Per seconda cosa, tener conto della concreta realizzabilità del progetto, senza sovrapporvi immaginazioni che nascano dal nostro senno di poi. Per ultima, misurare solo a questo punto in termini di lungo periodo i problemi ai quali non si diede risposta, tenendo presente che spesso anche ciò che immediatamente non si realizzava con una carica trasformatrice rilevante, conteneva premesse di modificazioni future. Cerchiamo di esemplificare per chiarezza: il termine di confronto non può essere la rivoluzione francese e le sue scelte più radicali, ma ciò che capita negli spazi italiani e in Europa negli stessi decenni. In questo senso i modelli politici che si delineano a partire dal primo Settecento sono: la strategia delle riforme di Vittorio Amedeo II e Carlo Emanuele III, il riformismo austriaco e le sue fasi, fino a Maria Teresa, quello borbonico di Carlo III, Tanucci e Du Tillot» (25).

Sulla base di questa ipotesi storiografica, le cui premesse erano presenti in due lavori di Venturi sulla Sardegna apparsi tra gli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta, nel fondamentale saggio di Luigi Berlinguer su Domenico Alberto Azuni apparso nel 1966 e nei più recenti lavori di Emanuela Verzella sull’Università di Sassari (26), Mattone e Sanna hanno offerto in un importante saggio pubblicato sulla «Rivista Storica Italiana», un’interpretazione nuova e avvincente del riformismo sabaudo nella Sardegna del Settecento, valutandone gli esiti nell’ottica della «lunga durata». Concentrando l’attenzione su quella che può considerarsi la vera grande riforma tra quelle volute dal ministro Lorenzo Bogino, ossia la riforma dell’istruzione primaria nel 1760 e delle due Università di Cagliari e di Sassari nel 1764-1765, i due studiosi hanno analiticamente ricostruito il percorso attraverso il quale la società sarda nella seconda metà del Settecento, disancorandosi dalle secche della ormai asfittica cultura iberica, si rinnova profondamente immettendosi nel circuito vitale della cultura italiana ed europea. Ciò grazie alla lenta ma progressiva introduzione della lingua italiana nelle scuole primarie e soprattutto alla folta schiera di docenti universitari «forestieri» che il Bogino aveva mandato in Sardegna dalla Dominante, che  lungo un trentennio furono i promotori del rinnovamento della cultura. Alla loro scuola si formò una nuova classe di intellettuali, che in quella nuova temperie culturale maturò la coscienza di un nuovo «patriottismo», terreno di coltura del risveglio della coscienza autonomistica nel triennio rivoluzionario. Secondo i due studiosi sassaresi, nel trentennio che precedette la «sarda rivoluzione» del 1793-1796, la società isolana è stata lentamente e irreversibilmente pervasa da una rivoluzione meno appariscente, ma non per questo meno importante, di quella di fine secolo: la «rivoluzione delle idee», che rappresenta il vero incunabolo della rivoluzione politica degli anni Novanta. «In realtà – secondo Mattone e Sanna -  nella Sardegna degli anni Ottanta si assiste alla progressiva diffusione di un sentimento ‘patriottico’ che affondava le sue radici nel crescente malessere dei gruppi dirigenti locali e traeva alimento dalla penetrazione della cultura europea e dalla più ampia circolazione delle idee innescata dal rinnovamento degli studi. Mentre la politica sabauda verso la Sardegna ripiegava su schemi di ordinaria amministrazione e lasciava che il ministero e il governo viceregio apparissero via via sempre più chiusi e autocratici, confusamente le nuove generazioni di letterati licenziati dagli atenei riformati, educate ai valori della ’pubblica felicità’ ed animate da un rinnovato spirito di servizio per la monarchia, ricercavano nel confronto con le grandi correnti ideali dell’Europa settecentesca una propria identità culturale e civile. Così, attraverso i modelli culturali dell’Arcadia veniva riscoperta la ’musa’ locale; nello spirito muratoriano venivano rivisitate le vicende storiche della Sardegna; alla luce delle opere del giusnaturalismo, del contrattualismo e dell’illuminismo italiano e francese (Muratori, Montesquieu, Filangieri etc.) venivano studiate le leggi fondamentali e i privilegi del Regno; nel confronto con l’italiano e con il purismo della Crusca veniva rivalutato e ripulito l’idioma nazionale; facendo tesoro delle acquisizioni scientifiche del secolo s’iniziavano a studiare le risorse e la storia naturale dell’isola. Tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta una vera impennata di ‘patriottismo’ infiammò i letterati locali di fronte ai superficiali giudizi negativi espressi sulla Sardegna da alcuni osservatori forestieri, che spesso non avevano visitato l’isola» (27).

Il riformismo sabaudo del secondo Settecento costituì, dunque, l’antecedente dei moti rivoluzionari degli anni Novanta. Delle istanze più significative di cui tali moti furono portatori, in particolare la forte coscienza dell’identità nazionale, la rivendicazione dell’autonomia politica del Regno sardo e della pari dignità nell’ambito degli Stati della monarchia sabauda, l’affermazione della capacità di autogoverno da parte della classe dirigente isolana, si fecero legittime interpreti le assemblee stamentarie, prima con la piattaforma politica unitaria delle «cinque domande» e successivamente con la partecipazione di fatto, negli anni 1794-1796, all’attività di governo, quando gli Stamenti e il popolo cagliaritano imposero una sorta di dittatura parlamentare e diedero ai loro atti «un tono che potremmo quasi definire, con le cautele necessarie, di assemblea costituente» (28).

Su questa linea interpretativa si era già inserito il fondamentale saggio di Italo Birocchi, La carta autonomistica della Sardegna tra antico e moderno (1992), profonda analisi delle istituzioni del Regno di Sardegna di Antico Regime, prevalentemente impegnata sul versante storico-giuridico, che si avvale anche di nuove fonti documentarie. Secondo l’analisi di Birocchi, il significato complessivo dell’operato delle assemblee stamentarie durante il «triennio rivoluzionario» e la piattaforma politica delle «cinque domande» in particolare, risiede nella rivendicazione forte e decisa della nazione sarda intesa come «soggetto politico, cosciente dei propri diritti» (29); consiste nel ribadire che sotto il profilo giuridico la forma di governo della Sardegna è una monarchia mista, in cui il Regnum si trova in posizione autonoma rispetto al sovrano. Conseguentemente, sotto il profilo politico, la sfera di esercizio della sovranità si configura come una diarchia che comporta una compartecipazione nell’esercizio del potere. Il richiamo al rispetto delle «leggi fondamentali» e dei «privilegi» e la richiesta degli impieghi ai soli sardi non significano, come pure è stato scritto, indulgere a «rivendicazioni particolaristiche e classiste» (30); il nocciolo della piattaforma delle «cinque domande» consiste nella «richiesta di osservare le «leggi fondamentali» del Regno, perché questo significa precisare la sfera di esercizio della sovranità sabauda ed affermare un potere concorrente e originario del Regnum» (31). Richiamare il rispetto dei «privilegi» – che nel linguaggio giuridico e nelle istituzioni di Antico Regime s’identificano con le ‘guarentigie’ o le ‘libertà’ sempre rivendicate dai corpi intermedi contro i governi assoluti – significava «rivendicare un sistema normativo in cui la funzione primaria non era svolta dalla volontà del principe che si fa legge, bensì dal concorrere di più poli protagonisti del processo normativo, concepiti come soggetti di un ordinamento policentrico» (32).

E’ proprio sulla rivendicazione dell’autonomia del Regno, sul rispetto della «carta autonomistica» secondo l’espressione di Birocchi, che s’impernia l’azione del «partito patriottico». La piattaforma politica autonomistica, scrivono Mattone e Sanna, «costituì l’asse portante del movimento ‘patriottico’ per l’intero triennio rivoluzionario sardo»; e la vicenda del partito patriottico «ricalca la parabola complessiva della rivoluzione sarda» (33): di essa le assemblee stamentarie furono l’interprete e il motore. Attraverso il vetusto strumento istituzionale dell’ordinamento parlamentare una nuova classe dirigente sarda, costituita in prevalenza dai ceti emergenti della borghesia delle professioni e dalla piccola nobiltà cittadina e rurale, i cui organi di rappresentanza erano costituiti dagli Stamenti militare e reale, si affermarono le istanze politiche nuove del «triennio rivoluzionario sardo». Soprattutto all’interno degli Stamenti militare e reale è possibile individuare in maggior numero gli homines novi della classe dirigente sarda, rappresentata da un numero cospicuo di esponenti della piccola nobiltà e del cavalierato rurali e dalla borghesia delle professioni che ai due Stamenti facevano capo. Non deve dunque apparire strano, ci sia consentita la metafora, che il vino nuovo sia stato versato in botti vecchie. Anche la Grande Rivoluzione ha avuto il suo preambolo negli Stati Generali, ha preso l’avvio nel Parlamento di Antico Regime. Ricade fuori da ogni corretta metodologia storica presupporre aprioristicamente «l’impotenza» di un antico ordinamento a fungere da motore di un processo innovativo, soprattutto quando i fatti ne testimoniano la vitalità.

Analoghe considerazioni svolgeva Antonio Era, uno tra i più acuti studiosi delle nostre antiche istituzioni, nel discorso pronunziato il 1° dicembre 1946 per l’inaugurazione dell’anno accademico dell’Università di Sassari (34). Contestando l’errore di prospettiva che stava alla base del giudizio che Francesco Sulis aveva dato della reviviscenza dell’istituto parlamentare di fine Settecento, errore già rilevato negli studi di Giovanni Zirolia e di Antonio Marongiu (35), Era riconosce in primo luogo che il Parlamento di Antico Regime, nei paesi in cui durante l’Età Moderna fu vigente, fu «forse il più efficace dei vari correttivi dell’assolutismo […] uno degli argini, protettivi per quanto era allora possibile perché i soli concepibili, che si ammettevano idonei ad impedire la degenerazione dell’assolutismo in dispotismo» (36). Quanto all’azione politica delle assemblee stamentarie sarde di fine Settecento, egli afferma, sviluppando un’intuizione di Francesco Loddo Canepa, che l’opera loro, pur in assenza di una riforma di struttura e di attribuzioni, soprattutto a partire dall’aprile 1794 e fino agli inizi del 1796, «in riguardo alla loro composizione, alla loro funzione, ai loro diritti fu fondamentalmente innovatrice della vecchia costituzione dello Stato, fu, in confronto ad essa, apertamente rivoluzionaria» (37). L’esame della copiosa documentazione – che egli ben conosceva per averla a disposizione, compresi i processi verbali dello Stamento reale dal 29 aprile al 7 luglio 1793, che chi scrive non è purtroppo riuscito sinora a rintracciare – lo induceva a ritenere che la reviviscenza stamentaria di fine Settecento, qualificata dal Loddo Canepa «rivoluzione stamentaria», rappresentò un vero e proprio sovvertimento istituzionale. «Si deve riconoscere – egli scrive – che gli Stamenti attuarono una vera e propria usurpazione di funzioni e di poteri. Essi, che abbiamo riconosciuto [nel 1793] ossequienti fino alla meticolosità al formalismo prescritto per le loro adunate, se ne svincolano [nel 1794-96] e procedono per vie sempre nuove, ma, allo stato di una intelaiatura costituzionale non mai abrogata, prettamente illegali e arbitrarie – ho detto: rivoluzionarie» (38).

Sono questi gli esiti più significativi della ricerca storica sulla «sarda rivoluzione» di fine Settecento; una ricerca che è stata di stimolo anche alla pubblicazione di importanti contributi biografici su gran parte dei protagonisti ma anche di figure minori di quella vicenda, come testimonia il volume di Vittoria Del Piano, Giacobini moderati e reazionari in Sardegna (39); a minuziose ricerche di storia locale, tra cui si distingue il pregevole contributo di Giovanni Cucca sul Settecento macomerese (40); a ricostruzioni in chiave di drammatizzazione storica delle vicende del triennio; infine alla edizione critica dell’inno Procurade ‘e moderare barones sa tirannia (41) e alla recentissima raccolta in volume degli studi di Antonello Mattone e Piero Sanna (42).

Minore attenzione è stata rivolta alla ricerca documentaria e alla ricostruzione storica degli esiti della «sarda rivoluzione», alla vicenda biografica e all’attività di Giovanni Maria Angioy negli anni dell’esilio e più in generale degli angioiani, alle vicende del Sulis, alle congiure di fine Settecento e a quella di Palabanda del 1812, sebbene anche in tutti questi ambiti siano apparsi, insieme a ricostruzioni generali, i pregevoli lavori monografici e letterari di Federico Francioni, di Antonello Mattone e Piero Sanna, di Giuseppe Marci e Leopoldo Ortu, di Maria Pes (43).

Su uno dei momenti cruciali della vicenda biografica dell’Angioy, offre un apporto di forte novità, come vedremo, la documentazione raccolta dal generale Alberto Lo Faso.

 

 

4. Come sempre accade per i periodi storici complessi e di particolare rilevanza, la ricerca storica costituisce un cantiere sempre aperto e le interpretazioni storiografiche come le acquisizioni documentarie continuano nel tempo, contribuendo ad arricchire sempre più  e a illuminare sempre meglio il quadro generale degli avvenimenti. Alle numerose acquisizioni documentarie relative al periodo dell’ultimo decennio del Settecento in Sardegna, si aggiunge ora, con questo volume, la lunga e pazientissima ricerca «a tappeto» che il generale Alberto Lo Faso ha condotto «in tutte le sezioni» (44) dell’Archivio di Stato di Torino, in cui potevano ragionevolmente essere conservati i documenti relativi alle vicende del «triennio rivoluzionario sardo» e in particolare quelli attinenti al personaggio che viene unanimemente considerato l’eroe eponimo della storia sarda di fine Settecento, Giovanni Maria Angioy.

Nella storia degli studi del periodo di fine Settecento in Sardegna non è la prima volta che uno studioso proveniente dalle file delle Forze Armate si cimenta nella ricerca storica. Nel 1931 il generale Pietro Martini aveva pubblicato nel volume XVIII dell’«Archivio Storico Sardo» un ampio saggio, corredato da una cospicua appendice documentaria, sulla spedizione della flotta francese contro la Sardegna nell’inverno del 1793. Il saggio, di carattere squisitamente militare, si proponeva di verificare, insieme all’entità delle forze e dei mezzi a disposizione dei contendenti, la capacità di resistenza e il reale stato della piazzaforte cagliaritana alla fine del secolo XVIII, anche al fine di formulare un giudizio storicamente più equanime sul viceré Balbiano, che secondo il Marini era stato con troppa leggerezza tacciato di eccessiva pusillanimità e irresolutezza in occasione del tentativo di invasione francese. Ne emergeva, anche a prescindere dal giudizio forse troppo fuori dal coro degli alti funzionari piemontesi che governarono l’isola in  quel periodo, un quadro puntuale e documentato sullo stato della difesa dell’isola e sul contingente francese, nonché sul ruolo decisivo svolto dagli otto battaglioni di truppe volontarie chiamate dagli Stamenti a difendere il litorale cagliaritano. La ricostruzione del ruolo avuto dagli otto battaglioni di volontari, la cui consistenza e il cui utilizzo nel teatro della guerra venivano analiticamente indicati, si fondava su materiali di fondamentale importanza, quali erano gli atti stamentari e le superstiti relazioni di alcuni dei comandanti, desunte dalle carte conservate nell’Archivio Storico del Comune di Cagliari, che venivano integralmente pubblicate in appendice (45).

Diversamente dal Marini, il generale Lo Faso non si è proposto, con la sua meticolosa ricerca d’archivio, di illustrare aspetti specificamente militari del periodo 1793-1798, ma ha voluto offrire un quadro ricco e articolato di quelle vicende sotto un’angolatura nuova, rappresentata in particolare dalla corrispondenza da e per Torino spedita dai funzionari di governo e dai privati, da quella degli ambasciatori sabaudi delle più importanti Corti europee, dal Consolato del re di Sardegna a Livorno, importantissimo e interessantissimo crocevia del traffico marittimo da e per la Sardegna (46). Inoltre, dopo il fallimento del moto antifeudale nel Logodoro nel giugno 1796, la ricerca del Lo Faso segue, come filone privilegiato, le peripezie di Giovanni Maria Angioy, capo carismatico della «sarda rivoluzione», dal suo arrivo a Genova con un folto gruppo di esuli ai tentativi di contatto con il generale Bonaparte impegnato con l’esercito repubblicano nella prima Campagna d’Italia, al viaggio a Torino con l’intento di «giustificare» davanti al re il suo operato, alle fasi di redazione della memoria difensiva nel convento degli Agostiniani di Casale, all’esame mai concluso di questa difesa e della relazione dell’avvocato fiscale Cappa, infine alla fuga da Casale ai primi di settembre 1797 per accettare definitivamente l’asilo politico offerto a lui ed ai fuorusciti sardi dal governo francese.

Segreta aspirazione del Lo Faso era quella di poter finalmente scoprire «il documento di maggior interesse» riguardante l’Angioy, ossia «le relazioni che presentò a sua difesa per i fatti del 1796» (47) e l’atto d’accusa formulato dal giudice istruttore. Malgrado la ricerca puntuale e rigorosa, tale documentazione non è venuta alla luce; come numerosi altri studiosi, anche il Lo Faso ha trovato la strada sbarrata all’ultimo tappa del labirinto angioiano. Quelle carte, se venissero ritrovate (la speranza è sempre ultima a morire) potrebbero contribuire in modo decisivo a diradare le ombre che ancora avvolgono la figura e gli intendimenti del capo della rivolta antifeudale in Sardegna. Il Lo Faso ipotizza che gli incartamenti relativi al processo di Angioy e dei suoi complici predisposti a Torino (com’è noto, quelli predisposti dai giudici sardi sono conservati nell’Archivio di Stato di Cagliari) «siano stati distrutti nel periodo francese o bruciati a seguito dei bombardamenti della 2^ Guerra mondiale» (48). Un’ipotesi questa da non escludere, anche se è opportuno insistere nella ricerca, nella speranza che in futuro possa ricomparire quella importante serie documentaria.

Il mancato ritrovamento di quella documentazione nulla toglie, tuttavia, all’importanza dei materiali archivistici che si pubblicano in questo volume: essi ampliano  notevolmente il quadro delle conoscenze e rivelano aspetti non noti di quelle vicende, sebbene sotto il profilo sostanziale confermino le ricostruzioni storiografiche che gli studi dell’ultimo ventennio, sopra delineati, hanno offerto. Il Lo Faso dichiara, con eccessiva modestia, che i documenti da lui raccolti «non vogliono in nessun modo costituire una ricostruzione storica di quel periodo, ma solo, eventualmente, servire a quegli studiosi che non avessero avuto la possibilità di consultarli» (49). Anche se si trattasse solo di questo, è doveroso riconoscere che il contributo offerto agli studiosi è di considerevole valore. Chi scrive è convinto che la raccolta documentaria sia tale da consentire una ricostruzione più precisa delle vicende storiche di quell’arco temporale. Dalla documentazione emerge infatti un quadro ricco e complesso, che scoraggia una volta per tutte quell’approccio storiografico alla storia della Sardegna, che vorrebbe l’isola del tutto appartata, relegata in un ruolo marginale, rispetto alle vicende della storia italiana ed europea.

 

 

5. Non è questo il luogo per intraprendere questa nuova narrazione delle vicende politiche dell’isola dal 1793 al 1798; è auspicabile che nel futuro gli studiosi, facendo tesoro del nuovo materiale che viene ora messo a disposizione, possano cimentarsi nell’opera. In questa sede, oltre a offrire un quadro della documentazione raccolta e indicare alcuni temi e problemi di rilevante novità che emergono dalla documentazione, daremo un saggio di narrazione del periodo immediatamente successivo alla fuga dell’Angioy dalla Sardegna, che utilizza in modo privilegiato i documenti che pubblichiamo.

 

 

Il corpus documentario consta di 560 documenti, conservati in gran parte nell’Archivio di Stato di Torino (530) e solo pochi (30) nell’Archivio di Stato di Cagliari. Le filze documentarie conservate dell’Archivio di Stato di Torino da cui i documenti sono stati desunti sono le seguenti:

1)      Corrispondenze con particolari provenienti dall’isola (50).

2)      Lettere degli ambasciatori presso i governi dello Stato Pontificio, della Gran Bretagna, della Spagna, delle Due Sicilie, della Repubblica di Genova e dell’addetto militare presso l’esercito francese a Milano (51).

3)      Corrispondenza con il Consolato sabaudo di Livorno, che costituisce la documentazione in assoluto più cospicua (52).

4)      Relazioni dei ministri al sovrano (53).

5)      Corrispondenza della e alla Segreteria del Sovrano (54).

6)      Corrispondenza del e al viceré di Sardegna e a magistrati sardi (55).

La documentazione dell’Archivio di Stato di Cagliari, riferita esclusivamente agli anni 1796 e 1797, proviene dal Fondo della Segreteria di Stato, 2^ Serie (56).

Di particolare rilevanza appare la documentazione relativa al 1793 in quanto offre un ampliamento delle conoscenze del periodo bellico e della mobilitazione dell’intera isola contro il tentativo di conquista francese. Ci riferiamo in particolare ai documenti che interessano città e territori lontani dall’epicentro dello sbarco francese che, com’è noto, fu concentrato soprattutto nel litorale di Cagliari e Quartu S. Elena, e che si riferiscono al distaccamento di truppe nel Golfo di Palmas (57), alla vigilanza militare sulle coste della Gallura (58), alla mancata mobilitazione della città di Sassari, ampiamente illustrata da don Giambattista Cugia al ministro degli Interni Pietro Graneri (59).

Dalla documentazione sinora nota il ruolo di Sassari nel periodo della invasione francese appare, sotto il profilo della mobilitazione della popolazione e degli approntamenti bellici, assai marginale. La documentazione raccolta dal generale Lo Faso consente ora di spiegare questa marginalità, riconducibile ad un insanabile contrasto esistente tra il governatore del Capo di Sassari Merli, ispirato dalla sinistra figura del giudice Andrea Flores, assessore civile della Reale Governazione, e tutte le componenti della società sassarese, di cui si fa portavoce il Cugia in qualità di rappresentante della nobiltà sassarese. In un circostanziato promemoria al ministro Graneri, spedito da Sassari il 23 febbraio 1793, il nobile sassarese denuncia in primo luogo la colpevole reticenza del governatore il quale, analogamente a quanto aveva deciso per Cagliari il viceré Balbiano, già dalla fine del 1792 tenne celato alla popolazione e ai tre ceti l’incombente pericolo dell’invasione dell’isola, sebbene fosse ormai di pubblica opinione la decisione assunta nel settembre di quell’anno dal Direttorio Esecutivo di conquistare l’isola in quanto territorio appartenente a Vittorio Amedeo III, entrato a far parte della Prima Coalizione contro la Francia, nonché la conquista militare degli Stati di Terraferma della Savoia e della contea di Nizza. Invece di predisporre tutte le misure necessarie per affrontare la ormai sicura invasione, denuncia il Cugia, il governatore Merli non prendeva alcun provvedimento, «anzi si procurava di dissuadere tutti, e tutti persuadere che più pericolo non vi era della minacciata invasione» (60). Quando, ai primi di gennaio 1793, giunse la notizia che la flotta nemica si trovava schierata nel golfo di Cagliari, il governatore si convinse finalmente della necessità di convocare i rappresentanti dei ceti nobiliare ecclesiastico e cittadino e in questa sede si fece a gara nell’offrire risorse per approntare la difesa; si decise di allertare le fanterie e le cavallerie miliziane dei villaggi, ma a ciò non seguì alcun altro provvedimento per definire le misure operative: «tutti aspettavano le provvidenze – commenta il Cugia – e non se ne viddero» (61). Si diffuse così la convinzione che la classe dirigente locale non volesse fare alcunché per difendere la popolazione e il territorio e ciò comportò una profonda sfiducia soprattutto nei confronti della nobiltà, che prima di tutti gli altri era preposta alla difesa. «Si dice già – scrive il Cugia, riferendo il sentimento comune dei ceti inferiori – che la prima guerra non sarà co’ francesi, che sarà colla Nobiltà, col Clero, cogli Impiegati, giacché non pensando a ciò che pensar si deve si vuole esporre il Pubblico al macello. E queste sono circostanze da disprezzare?» (62).

Per ovviare a questa convinzione dell’opinione pubblica, il Cugia ritiene che la nobiltà debba riappropriarsi delle sue prerogative di guida delle popolazioni nella difesa degli interessi comuni, con la conseguenza che anche alla nobiltà sassarese, di fronte al pericolo imminente, dovesse essere legittimamente accordata la facoltà di riunirsi per assumere le decisioni del caso «non come Stamento, ma come Corpo della nobiltà» (63). La precisazione che la riunione del ceto nobiliare doveva avvenire non in seduta stamentaria ma come assemblea cetuale tentava di aggirare l’ostacolo, già presentatosi nel mese di gennaio, di potersi riunire come legittima assemblea dello Stamento militare della nobiltà sassarese in quanto la normativa in vigore attribuiva a Cagliari e previa convocazione da parte della prima voce la riunione dello Stamento, che doveva comprendere tutta la nobiltà dell’isola. La richiesta, che era stata effettuata dal duca dell’Asinara il mese prima, era stata negata dal viceré (64). E’ anche a seguito di questo già sperimentato diniego che il Cugia propone un’altra forma di intervento della nobiltà nella gestione degli affari pubblici, considerata il pericolo imminente e «l’attuale assoluta impotenza del Sovrano di poter difendere con la sue forze militari questo suo Reame» (65). Ma al di là di questa volontà di presenza nella gestione del pericolo, colpisce soprattutto nel discorso del Cugia la chiara percezione delle implicazioni politiche e sociali cui stava irrimediabilmente portando l’ottusità dei governanti piemontesi, che per non voler associare al governo del territorio le componenti locali stava creando un grave duplice danno: allargare il fossato di incomunicabilità che la politica di stampo coloniale dei piemontesi aveva provocato con tutte le componenti della nazione sarda e aizzare contro la nobiltà e i ceti dirigenti in genere la componente ‘popolare’ della società sassarese e del Logudoro favorendo così la diffusione delle idee democratiche tra i ceti inferiori. L’eccezionalità delle circostanze avrebbe dovuto suggerire ai responsabili di governo il coinvolgimento e il concorso di tutte le componenti della società per la difesa del territorio contro l’invasione nemica. In assenza di ciò la nobiltà avrebbe dovuto, secondo il Cugia, provvedere di sua iniziativa a questo coinvolgimento, anche a costo di mettersi in contrasto con il governatore e forse anche con la Reale Governazione. A Cagliari l’intraprendenza della nobiltà, che aveva deliberato l’arruolamento a sue spese di 4.000 volontari, aveva rinsaldato il legame tra i ceti e le altre componenti sociali, suscitando un clima di esaltante di unità patriottica (66). Questo clima avrebbe reso possibile negli anni successivi un atteggiamento riformistico da parte del ceto feudale del Capo meridionale. A Sassari la mancanza di un momento di carattere patriottico e unitario favorito dalla guerra, contribuì a rafforzare l’opposizione del popolo cittadino e delle comunità rurali contro la nobiltà feudale, i cui esiti più appariscenti sarebbero stati, due anni più tardi, la ribellione antifeudale, la conquista di Sassari da parte di un esercito contadino, la fuga precipitosa della nobiltà e il governo del capoluogo da parte dei rappresentanti del radicalismo giacobino (67). Questo esito radicale della lotta politica e sociale a Sassari e nel Capo del Logudoro la lunga relazione del Cugia al ministro Graneri ha avuto il merito di avere intuito e, in certo senso, previsto.

Sempre nel quadro delle vicende del 1793, un altro documento offre elementi di novità: il Breve ragguaglio dell’ingiustissima guerra, che la sedicente Repubblica francese ha fatta all’isola, e regno di Sardegna nel 1793 redatta dal notaio cagliaritano Tommaso Marras.

Personaggio minore tra quelli che parteciparono attivamente alle vicende del triennio rivoluzionario sardo, il notaio Tommaso Marras, consigliere di città, fu un acceso fautore dei piemontesi e per tale motivo particolarmente inviso al partito patriottico. Nella primavera 1794, a seguito della cacciata dei piemontesi, egli fu imprigionato dal popolo cagliaritano insieme al censore generale Giuseppe Cossu e al contadore generale Gemiliano Deidda (68), e la sua detenzione durò per più di un anno (69).

Il Breve ragguaglio – in realtà si tratta di una lunga e minuziosa relazione -, che si contraddistingue per il tono adulatorio verso il viceré e i piemontesi e per la virulenza dell’odio religioso contro i francesi additati come «moderni increduli e miscredenti» venuti in Sardegna con l’empio proposito di «alzare l’albero fatale della libertà» (70), era destinato alla pubblicazione. Se si prescinde dall’aspetto visceralmente ideologico, limite peraltro comune ad analoghi scritti del periodo (71), il Breve ragguaglio del Marras, che deve essere integrato con una breve relazione del cavalier Luigi Porcheddu (72), è uno dei resoconti più dettagliati e ordinati della spedizione francese contro Cagliari e contro l’isola di La Maddalena. Come si evince da una lettera del Marras al ministro Graneri del 18 ottobre 1793, la relazione doveva stamparsi a Venezia, ma non vide la luce «per aver negato  il permesso l’Inquisitore, per ragioni di Stato» (73). Il Marras non fu l’unico cagliaritano che, nella speranza di trarne qualche riconoscimento da parte dei protettori piemontesi, fece pervenire all’uomo potente del momento, il ministro degli Interni conte Pietro Graneri, una relazione  sull’invasione dei francesi. Nell’agosto 1793 anche Cosimo Canelles, preposto durante l’invasione al comando del 4° battaglione di milizia volontaria, fece pervenire al ministro piemontese una relazione sul contingente a lui affidato per le operazioni belliche; essa tuttavia, oltre a non offrire  alla ricerca storiografica la ricchezza di informazioni della relazione del Marras, era già nota agli studiosi perché pubblicata dal Marini (74).

 

 

6. La novità del lavoro del generale Lo Faso non si riduce alla ricchezza di dati e di notizie che consentono una notevole possibilità di integrazione delle conoscenza sulla spedizione francese del 1793. La raccolta documentaria consente di guardare alla Sardegna da angoli visuali diversi da quelli prevalenti e tradizionali, che si rifanno quasi esclusivamente alla corrispondenza ufficiale tra il governo viceregio e i ministeri torinesi e viceversa. L’elemento forse di maggiore novità consiste proprio nella possibilità, come si è accennato sopra, di seguire le vicende sarde degli anni 1793-98 dagli angoli visuali delle Legazioni sabaude presso altri governi e di un Consolato di fondamentale importanza per la Sardegna, il Consolato di Livorno, punto di raccolta di gran parte dei trasporti da e per la Sardegna.

Abbastanza significativa, nell’economia generale delle fonti che si pubblicano, è la corrispondenza tra il ministro degli Esteri Girolamo Perret conte di Hauteville e l’ambasciatore sabaudo presso la Santa Sede Clemente Damiano di Priocca: si tratta di 36 pezze documentarie intercorse nella quasi totalità durante il triennio 1793-1795 (75).

La corrispondenza diplomatica del 1793, prevalentemente indirizzata dal ministro all’ambasciatore, verte tutta sulla spedizione francese e colpisce soprattutto l’approssimazione delle informazioni date e ricevute, spesso basate su voci prive di fondamento, raccolte dagli uomini di mare in transito da un porto all’altro del Mediterraneo o dagli altri ambasciatori delle Corti europee (76).  Solo in data 20 marzo il ministro degli Esteri può comunicare in via definitiva all’ambasciatore presso la Santa Sede che le lettere provenienti dalla Sardegna «riferiscono concordemente la ritirata della flotta francese maltrattata dal fuoco de’ Sardi e dai cattivi tempi di mare» (77). Il permanere di un piccolo contingente del corpo di spedizione francese nell’occupazione delle isole di Sant’Antioco e di San Pietro provoca un’altalena di speranze e di paure. Mentre il 3 aprile 1793 il conte di Hauteville comunica all’ambasciatore Priocca che vi è da sperare che le forze nemiche «non facciano lunga stazione in quelle acque, tostoché saranno uscite in mare le flotte di Spagna e d’Inghilterra» (78), venti giorni dopo fa sapere con grande apprensione che la permanenza delle truppe francesi nelle due isole «fa dubitare d’un nuovo attacco de’ Francesi contro quel Regno, se non ne sono per avventura impediti dalle flotte Anglo-Spagnole, sentendosi di più, che sono giunte ultimamente a San Fiorenzo cinque Fregate francesi con 1000 uomini di truppa regolata, e che è pure partita da Tolone una divisione della flotta francese, la cui direzione è ancora ignota» (79). Solo alla fine di maggio il governo piemontese poteva sentirsi sicuro della riconquista delle due isole ad opera della flotta spagnola alleata e chiedere a Pio VI, attraverso il suo ambasciatore, i riconoscimenti dovuti al valore dei Sardi, dopo che tali riconoscimenti erano stati sollecitati dall’arcivescovo di Cagliari Melano «per segnalare sempre più il loro zelo verso la Chiesa, il proprio Sovrano, contro ogni attacco dell’inimica nazione non solo con la forza delle armi, ma anche colle insidie della seduzione» (80).

La corrispondenza diplomatica con la S. Sede del 1794 si riferisce prevalentemente alla cacciata dei Piemontesi e alla vicenda occorsa al sostituto avvocato fiscale Matteo Luigi Simon. Questi aveva intrapreso nella primavera di quell’anno un viaggio in Italia per motivi di salute. Giunto a Roma, forse a causa delle sue frequantazioni con persone sospette alla Curia, venne accusato di essere sostenitore di idee gianseniste. La presunta pericolosità del Simon per l’ortodossia cattolica viene segnalata all’ambasciatore Priocca dal cardinale Segretario di Stato e l’accusa è avvalorata «massimamente in vista del contegno tenuto [da Matteo Luigi Simon] in Civitavecchia all’arrivo della notizia dell’accaduto occorso in Sardegna, ch’egli mostrò piuttosto di approvare» (81). Iniziava con la disavventura romana per Matteo Luigi Simon la lunga persecuzione, che diverrà pesante e definitiva dopo il fallimento del moto antifeudale dell’Angioy, persecuzione nella quale sarà coinvolta tutta la sua famiglia. Accusato di essere un fervente seguace dell’Angioy, egli verrà destituito dall’incarico in magistratura e confinato nel villaggio di Villanova Monteleone. Sincero riformista, Matteo Luigi Simon non fu sicuramente, come pure venne dipinto, un giacobino. Come numerosi patrioti che vissero intensamente il periodo della «sarda rivoluzione», egli auspicava, per il «rifiorimento» della Sardegna, il superamento del sistema feudale e una più convinta politica riformistica soprattuto nella direzione di un convinto riconoscimento delle prerogative autonomistiche del Regno sardo e di una energica riforma della giustizia. Come si evince anche dalla documentazione raccolta dal Lo Faso, nella quale la figura di Matteo Simon – ma il discorso è da estendere a tutta la famiglia algherese – appare abbastanza frequentemente, dopo numerose vicissitudini anche le accuse di carattere politico furono riconosciute infondate da parte del governo piemontese. Si trattò però di un’assoluzione troppo tardiva: Matteo Luigi Simon aveva ormai preso la strada dell’esilio nella Francia consolare e imperiale, dove occuperà ruoli di rilievo e di alta responsabilità nei ranghi della magistratura dell’Impero. Durante gli anni dell’esilio avrebbe affidato ai suoi scritti la sua interpretazione della «sarda rivoluzione» e le sue idee di moderato riformista e di sincero patriota (82).

Altro elemento degno di nota nella corrispondenza con l’ambasciata presso lo Stato pontificio è la conferma, da parte del ministro degli Esteri Hauteville, che l’arrivo del nuovo viceré Filippo Vivalda in Sardegna sul finire dell’estate 1794 potè avvenire solo dopo che Vittorio Amedeo III, aderendo alle precise richieste degli Stamenti e della Reale Udienza, aveva licenziato l’inviso ministro degli Interni Graneri affidando il governo degli Affari di Sardegna al conte Avogadro di Quaregna e aveva determinato di aderire gradualmente alle «cinque domande» indirizzate al sovrano con la delegazione stamentaria del 1793 (83). Anche se non è fuori luogo riflettere che la cauta apertura del sovrano alle richieste del partito patriottico sardo, che avveniva solo dopo l’insurrezione cagliaritana del 28 aprile 1794, diretta conseguenza del primo diniego di quelle istanze di riforma politica, ebbe a manifestarsi in seguito sotto il segno della strumentalità e della equivocità. Questo atteggiamento del governo piemontese darà luogo ad uno aspro scontro politico tra le diverse anime del partito patriottico sardo, culminato con i delitti politici dell’Intendente generale Pitzolo e del generale delle Armi marchese della Planargia nel luglio 1795. Durante l’estate del 1794, a seguito della cacciata di tutti i funzionari piemontesi, si era instaurato nel Regno una sorta di governo autonomo nel quale il ruolo degli Stamenti e del popolo cagliaritano furono determinanti nel governo della cosa pubblica, sino a dettare tempi e modalità di insediamento del nuovo viceré Vivalda, costretto a stazionare per mesi a Livorno prima del lasciapassare del governo dei Sardi. E’ a questa situazione che si riferisce l’esplicito riconoscimento da parte del ministro degli Esteri all’ambasciatore Priocca, di cui si diceva sopra: «Migliori sono le notizie che abbiamo di Sardegna, e vanno crescendo le speranze di veder dissipati i dissapori insorti. Per una parte ha stimato S.M. di aderire nella sostanza alle cinque domande de’ Sardi già qui proposte da’ Deputati nello scaduto anno, e per altra sentesi, che s’occupano con premura gli Stamenti a tener tranquillo il popolo, e a rallentar l’ardore da lui mostrato di prender ingerenza negli affari del Governo; cosicché le ultime lettere da Livorno ci raportano che colà era giunto avviso di Sardegna, che vi dovesse giungere un Cav.e Sardo (Cav.e Angioi) deputato espressamente per invitare il V.Re a passare nel Regno, ed accompagnarlo nel tragitto. Qualche lettera particolare di cui non conosco però l’autenticità, aggiunge che altro Deputato passerà in Torino per implorare S.M. a nome del Regno la primiera sua grazia, e protezione a favor di que’ sudditi, ed in obblio perpetuo delle seguite differenze» (84).

Assecondando la nuova stagione politica instaurata dopo la cacciata dei Piemontesi, il conte Avogadro e il nuovo viceré Vivalda si impegnarono nell’attuazione delle richieste insite nelle «cinque domande», tanto che nel febbraio 1795 era già stata predisposta e autorizzata dal sovrano la procedura per la convocazione del Parlamento, che costituiva la prima e più importante fra le «domande». Solo qualche mese dopo i maneggi  dei due nuovi alti funzionari sardi Pitzolo e Planargia, unite a motivi contingenti e alle fobie rivoluzionarie di Vittorio Amedeo III, daranno luogo ad una improvvisa virata reazionaria della politica piemontese verso la Sardegna, che ebbe inizio nel marzo 1795 con la nomina del nuovo ministro per gli Affari di Sardegna Galli della Loggia in sostituzione del conte Avogadro (85). Preoccupato della presunta piega giocobina degli avvenimenti politici sardi e più disposto ad ascoltare le analoghe preoccupazioni del Pitzolo e del Planargia, decisi ad evitare la deriva democratica del movimento patriottico sardo e a non intaccare nella sostanza il potere feudale nel quale erano personalmente integrati, il ministro Galli Della Loggia provvide in primo luogo a bloccare la convocazione del Parlamento e quindi a disattendere ancora una volta le «leggi fondamentali» del Regno con la nomina di alti funzionari prescindendo dalla regola della terna. Fu questa ennesima interferenza nel processo di riforma avviato con la vittorio sui francesi  e con la cacciata dei Piemontesi a determinare l’esito cruento della crisi politica sarda nell’estate 1795 e a creare una frattura insanabile tra l’oltranzismo feudale, che aveva la sua cittadella nella città di Sassari, e il movimento riformatore.

Gli esiti drammatici della lotta politica e il rafforzarsi delle spinte democratiche, unite al riaccendersi della lotta antifeudale nelle campagne, spinsero l’ala moderata del movimento riformatore a far quadrato, ancora una volta, intorno alla piattaforma politica delle «cinque domande». Per allontanare da sé le insistententi accuse di gicobinismo, dietro regia di un intellettuale raffinato e di un politico accorto qual era l’abate di Salvenero Gian Francesco Simon (86), venne proposta e attuata dagli Stamenti una nuova ambasciata al sovrano, affidata all’arcivescovo di Cagliari Vittorio Melano di Portula (87). Egli, attraverso la mallevadoria del pontefice Pio VI, avrebbe dovuto chiedere al sovrano ancora una volta l’approvazione integrale della piattaforma politica delle «cinque domande». Il fatto che la nuova ambasciata al sovrano fosse affidata significativamente ad un piemontese e dovesse svolgersi attraverso una richiesta di interessamento del pontefice, assumeva il preciso significato, in primo luogo, di un’adesione incondizionata alla tradizione cattolica, stornando così dall’azione politica dei riformatori l’accusa di tralignamenti giocobini, in secondo luogo costituiva una professione di lealismo monarchico e di riconoscimento del fondamento sacrale del potere, pur nell’ambito delle prerogative autonomistiche insite nella costituzione del Regno sardo.

Non era sicuramente estraneo agli intendimenti della parte moderata del  partito patriottico sardo promotore dell’iniziativa della nuova ambasciata nel settembre 1795, la speranza che l’avallo del pontefice potesse anche costituire un autorevole riconoscimento delle rivendicazioni autonomistiche della nazione sarda. Non a caso, quando l’arcivescovo giunse a Roma nel novembre 1795 e chiese udienza al pontefice, la prima preoccupazione della Corte romana fu quella di escludere ogni implicazione politica all’interessamento del papa. La diplomazia pontificia era infatti persuasa, come riferiva l’ambasciatore Priocca al ministro degli esteri Hauteville, «che la mediazione di questa Corte implorata dai Sardi non dovesse portare con sé una tal quale discussione degli affari del Regno, e renderne in certo modo arbitro il Santo Padre» (88). Onde togliere ogni equivoco alla intermediazione pontificia, la diplomazia romana dichiarava di non volere in alcun modo entrare nel merito delle richieste politiche dei Sardi; l’intervento del pontefice doveva intendersi semplicemente come «una commendatizia del Papa presso Sua Maestà» (89), ossia una generica raccomandazione di attenzione ai problemi della Sardegna.

Com’è noto, l’ambasceria dell’arcivescovo Melano, che rischiò di arenarsi nel gennaio 1796 a seguito dei clamorosi fatti di Sassari del dicembre 1795 ( 90), avrebbe ottenuto l’approvazione di Vittorio Amedeo III con il regio diploma dell’8 giugno 1796, nel momento stesso, cioè, in cui gli sviluppi della «sarda rivoluzione» avevano portato il contrasto tra l’ala radicale e l’ala riformista ad una frattura definitiva ed insanabile per l’inserimento nella lotta politica e sociale del gravissimo problema del sistema feudale. A fronte dell’accelerazione impressa al moto riformatore dalla questione feudale, quella piattaforma politica appariva ormai del tutto inadeguata rispetto alla più drammatica e indilazionabile necessità di promuovere una radicale riforma del sistema feudale. Nata in un clima di unità patriottica, la piattaforma politica delle «cinque domande» approvata quattro anni dopo la sua formulazione appariva ormai sterile e del tutto insufficiente a recepire le aspettative di riforma  della società sarda che erano maturate nel tempo. Inoltre quella piattaforma veniva sancita dal sovrano in una fase politica nella quale, dopo il generoso tentativo dell’Angioy di abbattere il sistema feudale, si era ricompattata l’alleanza tra il ceto feudale e la borghesia cittadina, timorosi entrambi di perdere i propri privilegi. Nella rinnovata alleanza tra la Corona e i ceti privilegiati fu, per così dire, una morte annunciata la rinuncia da parte degli Stamenti agli aspetti più squisitamente autonomistici insiti nel regio diploma dell’8 giugno 1796. Le posizioni di privilegio dei ceti dirigenti venivano meglio assicurate, soprattutto dopo l’arrivo della Corte sabauda a Cagliari nel 1799, in un reggimento politico assoluto anziché in una compartecipazione nell’esercizio della sovranità tra il re e il Parlamento; questo, come l’esperienza del «triennio rivoluzionario sardo» stava a dimostrare, andava fatalmente nella direzione  di una moderna riforma costituzionale e rappresentativa dello Stato, non nel senso cetuale ma in quello di una progressiva democratizzazione della società e di un allargamento della base sociale della rappresentanza politica. Non a caso, come si potrà rilevare anche dalla documentazione che pubblichiamo, Carlo Emanuele IV sarà inflessibile nel negare l’ampliamento in tal senso del vecchio ordinamento parlamentare.

Nell’immediato l’esito più appariscente dell’insuccesso della «sarda rivoluzione» fu una precoce anticipazione, rispetto al resto d’Europa, della Restaurazione, con le feroci condanne al capestro, alla galera e all’esilio dei patrioti più generosi e più sinceri (91).

 

 

7.   La parte più interessante della documentazione si riferisce, come abbiamo accennato, alle peregrinazioni dell’Angioy dopo l’insuccesso del moto antifeudale nel giugno 1796. La documentazione che si pubblica assume una notevole importanza per la ricerca storica, dal momento che la ricostruzione delle vicende biografiche di Angioy e dei fuorusciti angioiani sinora pubblicate, presente nella ormai classica biografia dell’Angioy di Dionigi Scano, in quella del Madau Diaz e in altri più recenti contributi (92), è fondata in gran parte sulle carte conservate presso l’Archivio di Stato di Cagliari e presso l’Archivio del Ministero degli Esteri di Parigi. Come si potrà rilevare in quest’opera, nell’Archivio torinese, soprattuto presso i fondi  della Segreteria di Carlo Emanuele IV e del Ministero degli Esteri, la vicenda dell’Angioy e dei fuorusicti sardi occupa un posto di assoluto rilievo.

Il luogo privilegiato dal quale il governo sabaudo spia i movimenti dell’Angioy e dei fuorusciti angioiani è il Consolato di Livorno, quella stessa legazione dalla quale, negli anni precedenti, affluiva presso il Ministero degli Esteri a Torino la parte più consistente delle notizie relative alla Sardegna (93). Il Consolato di Livorno, nei sei anni cui si riferisce la documentazione, fu retto da Paolo Baretti  fino al 10 ottobre 1795, da Pietro Rebuffo fino al maggio 1798 e successivamente dall’avvocato Spagnolini (94).

Il Consolato di Livorno funge, nel periodo della diaspora angioiana, da autentico centro di spionaggio alle dirette dipendenze del ministero degli Esteri nel quale, ai primi di giugno 1796 si era avvicendato, all’austriacante Giuseppe Francesco Girolamo Perret d’Hauteville, il sagace conte Clemente Damiano di Priocca, richiamato dall’ambasciata presso la Santa Sede (95).

Le prime confuse notizie sulla ribellione dell’Angioy vengono fatte partire alla volta di Torino il 15 giugno 1796. Si dice che a Sassari vi sia una situazione convulsa e di turbolenze e che l’Angioy ha rischiato di essere assassinato, per cui ora «esce accompagnato da settecento  suoi satelliti» (96); che il 28 maggio vi sarebbe stato «un gran massacro a Cagliari essendo stato vincitore il partito di Sua Maestà colla morte di molti insorgenti» (97). Si riferisce inoltre confusamente di un assalto contro Oristano perpetrato dagli angioiani e della convulsa fuga di alcuni suoi abitanti, del terrore che incute l’Angioy, divenuto ormai un capo di briganti. «Non si può esprimere il terrore, – riferisce il capitano di mare caprarese Michele Borgono – che mette in quel Regno il sudetto D. Angioi che pare voglia impadronirsi di quell’Isola spirando principalmente sul Capo di Sassari, aflitioni, e spaventi per le famiglie che sono disperse nelle campagne a cercarsi asilo. A giorni si attendono altri bastimenti che da colà dovevano partire, da quali si sentiranno ulteriori notizie di quel capo di Briganti» (98).

Si tratta di notizie di seconda e terza mano, amplificate e deformate. Verso la fine di giugno il governo torinese riceverà, attraverso i canali ufficiali, più circostabnziate notizie sulla rivolta dell’Angioy e solo il 6 luglio il vecchio Vittorio Amedeo III verrà informato dei movimenti di lui e dei suoi seguaci. «Il Console di Livorno Rebuffo riscontra dell’arrivo del Giudice Angioi in Caprara li 21 giugno con 13 suoi compagni, fra quali il noto Avvocato Mundula, un Canonico, ed un altro Prete e dieci altre persone di bassa condizione, e con tutti i francesi prigionieri che erano in Sassari da dove è partito. Dice che il medesimo passeggiava in Caprara colla coccarda nazionale e che aveva avuto molte conferenze coll’Agente francese, che di lì era partito per Genova per quindi portarsi a ritrovare il Commissario Salicetti, e poscia a Parigi ad implorare l’assistenza della Nazione francese a fin di mettere il buon ordine nella Sardegna, quale quando sarebbe stata tranquilla sarebbe ritornata sotto il dominio di V.M., che aveva detto di essere stato tradito da molti de’ suoi compagni, ma che sperava molto ne’ Villici poiché tutti i Villaggi erano del suo partito» (99).

In effetti l’Angioy, imbarcatosi a Porto Torres la sera del 17 giugno su un piccolo legno, dopo una sosta a Capraia, era giunto a Genova il 20 giugno; lo accompagnavano il giovane segretario Emanuele Crobu, Gioacchino Mundula col figlio Giuseppe, l’avvocato Gavino Fadda, il parroco di Semestene Francesco Muroni con il fratello Salvatore, Cosimo Auleri, Antonio Luigi Petretto con i figli Antonio Vincenzo, Francesco e Ignazio, Antonio Maria Carta, Quirico Spano. La permanenza di Angioy a Genova si protrasse fino alla prima decade di luglio e qui ebbe diversi colloqui con l’incaricato di affari del governo francese presso la Repubblica di Genova Faypoult. Fu probabilmente a seguito dei colloqui dell’Angioy con Faypoult che questi avvicinò l’ambasciatore sabaudo presso la Repubblica di Genova Nomis di Cossilla per cercare di capire quali fossero le clausole che interessavano la Sardegna nel Trattato di pace stipulato a Parigi tra Vittorio Amedeo III e la Repubblica francese. In data 29 giugno il Nomis di Cossilla faceva pervenire al ministro degli esteri Priocca un breve resoconto dell’incontro con Faypoult. Questi, nel sondare le conoscenze dell’ambasciatore piemontese, era partito assai da lontano, chiedendo se il trattato di pace avesse previsto il divieto di approdo delle navi inglesi nei porti della Sardegna. Nei disegni degli angioiani, l’eventuale presenza della flotta inglese nelle acque sarde avrebbe costituito un ostacolo invalicabile ad una nuova spedizione  francese per la conquista dell’isola. Egli osservava quindi al Cossilla – ma dietro il Faypoult è facile intravvedere i veri suggeritori – che il possedimento della Sardegna non era di alcuna utilità alla monarchia sabauda. «Passò quindi – riferisce il Cossilla – a parlarmi della Sardegna, della difficoltà che proverà tuttavia Sua Maestà ad avere in quel regno una libera comunicazione, del poco profitto che se ne riceveva, dell’utile che ne ritrarrebbe la Francia per il suo commercio col Levante, e l’Affrica» (100). Alla data del colloquio, il 29 giugno 1796, il Faypoult, già a conoscenza dell’arrivo dell’Angioy a Genova, non lo averva rivelato al Nomis di Cossilla; a questi la notizia sarà rivelata da un dispaccio del ministro degli esteri spedito da Torino il 2 luglio (101) e solo in data 5 luglio egli è in grado di comunicare al Priocca che «il signor Angioy ed altri sardi per quanto mi consta, si sono avviati a Livorno, dopo essersi abboccati con signor Faypoult, da cui apparentemente non sono stati troppo soddisfatti nelle loro mire» (102). Apparentemente! Il Cossilla era persuaso, già dal colloquio del 29 giugno, che il Faypoult faceva di tutto per far giungere al governo sabaudo la direttiva, che era quella a lui data dall’Angioy e dai suoi seguaci, che era opportuno che la Sardegna passasse alla Francia. Non essendo però ancora a conoscenza delle precise clausole del Trattato di pace, il Faypoult poteva solo suggerire quella soluzione, fortemente desiderata dagli angioiani.

Per avere maggiori ragguagli e più concrete garanzie per l’attuazione di questo disegno, era necessario prendere contatto direttamente con il comandante in capo dell’Armata d’Italia, il generale Bonaparte. Fu questo il motivo dello spostamento del drappello degli angioiani da Genova a Livorno. Avviatisi alla volta della città toscana attorno al 5 luglio, vi giungevano l’11 luglio. «Accompagnato da’ suoi satelliti, – riferiva il console Rebuffo in data 13 luglio – de’ quali ancora altri se ne attendevano, giunse avant’ieri in Livorno il Celebre Perturbatore del Regno Sardo Signor Angioi; […] non ho mancato intanto di mettere in diligenza diverse persone, per destramente indagare tutti li passi del suddetto ed esplorarne per quanto sia possibile le intenzioni (103). A credere al Rebuffo, l’Angioy, che si trattenne a Livorno tre giorni, «si presentò al Generale Francese ma non ebbe soddisfazione» (104). Non pare, tuttavia, contrariamente a quanto parrebbe desumersi dalla nota del console sabaudo, che l’Angioy abbia incontrato Napoleone a Livorno. Infatti poco dopo decise di recarsi a Milano, via Firenze, per poter finalmente parlare con il Bonaparte. «Tutti questi soggetti – precisa il Rebuffo – alla riserva del figlio del Mondula, che ritorna in Sardegna, sono passati in Firenze, per recarsi in Milano o dove potranno ritrovare il Generale Bonaparte per implorarne appresso di S.M. nostro Sovrano il perdono, sperando tutto l’interessamento di detto Generale» (105).

Mentre il governo piemontese dava mandato ai suoi agenti presso gli Stati esteri di fare ogni sforzo per procurare l’arresto dell’Angioy, iniziava la dispora di quei seguaci che l’avevano accompagnato in terraferma nella fuga dalla Sardegna. A Firenze, a detta del console livornese, si ferma l’avvocato Gavino Fadda; non pare, quindi, che il Fadda, come scrive lo Scano, abbia accompagnato l’Angioy per parlare con il Bonaparte. Poco dopo egli rientrerà in Sardegna insieme con il figlio di Gioacchino Mundula Giuseppe, Antonio Vincenzo Petretto, Antonio Maria Carta e Quirico Spano. Intercettati da Domenico Millelire, furono catturati e giudicati dal famigerato giudice Valentino. Il Fadda, il Carta e il Petretto furono giustiziati, mentre lo Spano e il giovane Mundula furono condannati a pene detentive (106). A Livorno nello stesso periodo era giunto insieme con la moglie un altro angioiano, l’avvocato Domenico Solis, già assessore provvisorio della Reale Governazione nominato da Angioy, scampato fortunosamente alla morte; andò a stabilirsi a Pisa «dove nascosto si trattiene» (107). Un altro degli esuli angioiani, «o almeno supposto tale», come scrive il Cossilla, otterrà a Genova nello stesso periodo il passaporto per rientrare in Sardegna. Il sospetto del Cossilla non era infondato. Il De Lorenzo, che fu vicino all’Angioy durante il periodo cagliaritano, si scoprirà essere un delatore passato alla parte avversa (108). Ai primi di agosto, inoltre, si presenta al console di Livorno l’abate di Salvenero Gian Francesco Simon: «dal lungo discorso con esso avuto – annota il Rebuffo – compresi esser molto aderente al Signor Angioi; e nell’indecisa determinazione in cui si trova per proseguire il suo viaggio mi fa argomentare, che piuttosto sia in traccia del medemo, e che qui voglia attendere assieme a qualche altro soggetto suo partitante di Cagliari, che da quel Regno si era fatto partire, o che qui deve giungere» (109).

Nella seconda metà di agosto giungerà nel porto toscano anche il fatello minore dei Simon, il canonico della cattedrale di Alghero Giambattista,  e Antonio Maria Petretto, fratello di Vincenzo, incaricato di riportare in Sardegna gli ordini dell’Angioy dopo l’incontro con il generale Bonaparte.

Angioy e i suoi accomnpagnatori, ripartiti da Livorno, via Firenze, Bologna e Ferrara, erano finalmente riusciti a intercettare Napoleone a Castiglione delle Stiviere, in Lombardia, presso Mantova, tenuta d’assedio dall’esercito francese dal 30 maggio. Era la fine di luglio e di lì a pochi giorni, il 5 agosto, le truppe di Napoleone avrebbero avuto una brillante vittoria sulle truppe austriache del generale Wurmser proprio sui campi di Castiglione (110). Nella cittadina lombarda l’Angioy non poté parlare direttamente con Napoleone, che incaricò di riceverlo il conterraneo Cristoforo Saliceti, che si era già interessato della Sardegna ai tempi dell’invasione del 1793. Con il Saliceti l’ex Alternos ebbe lunghi colloqui anche a Milano. Il Commissario corso dimostrò sincero interessamento per la causa sarda, ma non poté dare assicurazioni concrete di un imminente intervento francese perché ciò non era contemplato nel Trattato di pace con il Piemonte firmato a Parigi il 15 maggio. Riuscì comunque ad evitare che l’Angioy e i suoi amici fossero tratti in arresto, come insistentemente chiedeva il governo piemontese tramite il suo commissario presso l’esercito francese a Milano conte Borgese in virtù proprio del trattato di alleanza tra i due Stati.

 

 

8. La sera del 6 agosto 1796, come riferisce il console Rebuffo, da Milano Angioy era rientrato a Livorno «con quatro suoi seguaci Giachino Mundula, D. Francesco Moroni col fratello Salvatore, ed Emmanuele Crobu» (111). Del rientro di Angioy il console era stato «subito avvisato» dal capitano Barigello e da «un Religioso ex Provinciale del suo Ordine in Sardegna» (112), residente a Livorno. Al momento del suo arrivo a Livorno, nell’ultima decade di luglio, Angioy si era affidato a questo religioso, che qualche anno prima era stato provinciale dell’Ordine dei frati di San Giovanni di Dio a Cagliari e che egli sicuramante conosceva; a lui aveva consegnato «i suoi migliori e ricchi effetti» (113). Il buon religioso, «affetto qual vero suddito di Sua Maestà» (114), messo sull’avviso dal console Rebuffo, diviene suo confidente e gli rivela tutti i movimenti e i divisamenti dell’Angioy e dei suoi seguaci. Fu tramite questo canale che il console individuò con precisione la locanda dove Angioy e i suoi erano alloggiati; non solo, ma ottenuta dal governatore granducale l’autorizzazione, li aveva fatti arrestare e solo dopo che le autorità toscane constatarono che erano forniti di salvacondotto francese furono rilasciati. I fratelli Muroni in questa circostanza volevano dare ad intendere di essere veneti! Il dispaccio del console al ministro degli Esteri in data 10 agosto 1796 offre un quadro gustoso e vivace del drappello di esuli sardi a Livorno che val la pena riportare integralmente: «Il Giammaria Angioi con quatro suoi seguaci Gioachino Mondula, D. Francesco Moroni col suo fratello Salvatore, ed Emmanuele Groto [recte Crobu] giunse in questa Città la sera de’ 6 corrente, dalla nota persona religiosa ne fui subito avvisato, non meno che da questo Capitano Barigello che avevo incombenzato; mi portò subito da questo Signor Governatore di S.A.R. il Gran Duca, al quale feci finalmente istanza per il tratenimento di dette persone co’ loro effetti, che nel momento mi concesse, e diede ordine alla sua squadra di eseguirlo, come fu senza ritardo effettuato nella locanda di S.t Marco, ove erano alloggiati, ma convenne nell’atto stesso di rilasciarlo, per aver fatto vedere un salvacondotto stato registrato apresso questo Governo Toscano che lor fu spedito da questo Generale francese Vaubois d’ordine del commissario Saliceti che ne scrisse al Direttorio Esecutivo, non ostante non si credono sicuri, e sul timore, che da qui partano le truppe francesi, credo che ben presto si allontaneranno da questa Città, tanto più che sono mortificatissimi dell’arresto così seguito del Delorenzo stato spedito espressamente in Sardegna per rinvenirli, e ricondurli in quel Regno; i due fratelli Moroni poi vantano d’esser veneti e trattenutisi sei giorni in codesta Capitale»  (115).

Coll’inoltrarsi del mese di agosto arrivavano ai patrioti sardi in terraferma segnali contraddittori. Da una parte l’arresto degli sventurati compagni di viaggio dell’avvocato Gavino Fadda, in spregio all’assicurazione ricevuta dal Saliceti della operatività anche in Sardegna dell’amnistia per reati politici sancita dall’art. 8 del Trattato di Parigi, dall’altro l’arrivo a Livorno di Antonio Maria Petretto, il quale assicurava essere costantemente viva nell’isola la rivolta antifeudale, per cui l’Angioy si accingeva a rimandarlo in Sardegna per assicurare i suoi seguaci che egli aveva concrete assicurazioni dalla Francia dell’interessamento per la causa della Sardegna. «Il Signor Angioi – scriveva il console di Livorno il 25 agosto – dimani rispedisce in Sardegna il suddetto Antonio Maria Petreto, per assicurare quei suoi compagni, che dalla Nazione francese non solo ha ottenuto quanto gli ha domandato, ma la promessa ancora di qualunque somma di denaro bisognevole per effettuare a dovere la loro intrapresa, la quale verrà diretta da due buoni ufficiali francesi, ma che conviene aspettare l’arrivo del Commissario Saliceti che deve procedere a giorni, per seco lui concertare la spedizione, che si farà in tutta segretezza dalla Corsica, per esservi ora in quell’Isola, oltre un imponente partito contro la Nazione inglese, introdotto un corpo considerevole di truppe francesi per scacciare gli Inglesi, la quale però non si effettuerà se prima li Francesi non saranno padroni della Sardegna, per impedirgli l’ingresso in quel Regno, ove hanno, sebben debole, un partito, segnatamente in Cagliari» (116).

Si favoleggiava che l’Angioy avesse con sé la considerevole somma di quattromila scudi e che a Genova starebbe reclutando uomini per associarli alla sua impresa. Pare che egli sia tanto sicuro dell’imminenza del suo ritorno vittorioso in Sardegna, che a Livorno fa mostra di sé. «Sin ora – si legge nel succitato dispaccio del Rebuffo -  compariva ben poco in pubblico, ma ieri sera dopo l’arrivo dell’Espresso si fece vedere ne’ più frequentati posti di questa Città molto allegro, accompagnato da tutto il suo seguito, in cui molto si distingue Gioachino Mondula, come Capo in secondo dei quei Briganti. Le giornaliere notizie, che ricevo sull’andamento di questi scellerati Sardi mi vengono pur anco date da quel certo Salvatore Moglie nominato da Vostra Eccellanza» (117).

In realtà, almeno a credere ai riscontri ufficiali francesi indirizzati al governo piemontese, l’Angioy a Milano non aveva ricevuto particolari promesse. Tutt’altro! Il commissario francese a Milano Garrau assicurava il delegato sabaudo Borgese «che erano insussistenti i riscontri pervenuti alla prefata Segreteria intorno alle macchinazioni del Signor Angioi, cui la Repubblica Francese non ha promesso, né accorderà giammai verun soccorso in uomini, denari, o munizioni per l’eseguimento dell’ideata invasione della Sardegna, nella quale mi protestò anzi non si sarebbe mai presa dalla Repubblica Francese veruna ingerenza» (118).

Non solo, ma il Saliceti, che negli ultimi giorni d’agosto si era messo in viaggio per Livorno, al suo arrivo nella città toscana avrebbe ricevuto dal console Rebuffo l’istanza del ministro degli Esteri piemontese per procedere all’arresto dell’Angioy.

Non è improbabile, tuttavia, che il Saliceti si fosse lasciato andare, durante i colloqui milanesi, a qualche promessa di troppo relativamente alla Sardegna, anche se ciò non corrispondeva alla posizione ufficiale del governo francese. Angioy e gli angioiani, infatti, a fine agosto  erano molto fiduciosi e attendevano con impazienza l’arrivo a Livorno del commissario Saliceti. Nell’attesa mantenevano fitti rapporti con i comandanti delle truppe francesi di stanza a Livorno, i generali corsi Cervoni e Gentili.

Intanto, nella seconda metà di agosto, aveva raggiunto la comitiva degli esuli un importante personaggio: l’abate di Salvenero Gian Francesco Simon. «Il Signor Angioi, a cui ora si è aggionto l’Abbate Simon di Salvenero, attende con impazienza l’arrivo del Commissario Salicetti, che in ora non è ancora comparso, nel mentre giornalmente conferisce con questi Generali Cervoni, e Gentile di Nazione Corsa, per poter partire per la Corsica, e di là trasferirsi in Sardegna, stante li frequenti espressi, che qui li giongono da quest’ultimo Regno, da dove li fanno premura di accelerare per quanto può il suo arrivo, perché temono d’essere prevenuti dagli Inglesi» (119).

La presenza a fianco dell’Angioy di Gian Francesco Simon dovette essere particolarmente preziosa per una valutazione realistica della situazione politica complessiva in relazione alle sorti della Sardegna e dei rivoluzionari sardi. Il Simon, persona di grande intelligenza e di fine intuito politico, scevra da posizioni radicali e avveniristiche, aveva ben compreso che la situazione politica generale, dopo che il Piemonte a seguito del Trattato di Parigi, era di fatto alleato della Francia repubblicana, non consentiva al Direttorio Esecutivo alcuna concessione alle aspettative e ai desideri del movimento rivoluzionario sardo. Sotto il profilo diplomatico, esisteva una sola condizione per favorire l’intervento della Francia in Sardegna: un tentativo dell’Inghilterra, ancora belligerante con la Francia repubblicana, di impossessarsi dell’isola, producendo così uno squilibrio di basi navali nel Mediterraneo, che avrebbe imposto alla Francia un intervento bellico riequilibratore. Poiché siffatto scenario era molto improbabile, era prudente consiglio porre da parte i sogni di un pronto riscatto della sconfitta subita dalla «sarda rivoluzione» e agire in aderenza ai dettami della Realpolitik, imperniata sul Trattato di pace che sanciva l’alleanza tra la Francia e il Piemonte. In questa situazione, senza chiudere del tutto la speranza, molto remota, di un intervento militare della Francia in Sardegna in appoggio all’ancora vivo movimento antifeudale, era necessario imboccare la via della pace, della riconciliazione e della disamina serena e coraggiosa delle ragioni che avevano portato alla ribellione dell’Angioy nel mese di giugno.

Dovettero essere di questo tenore le riflessioni e le valutazioni che l’abate di Salvenero sottopose all’Angioy – sicuramente non condivise dall’altro importante membro del movimento antifeudale, il giacobino Gioacchino Mundula – che portarono al lento maturare, nell’animo dell’ex Alternos, della convinzione che era necessario procedere ad una giustificazione della sua condotta davanti al re, che del resto era la stessa richiesta che egli aveva fatto al governo viceregio da Oristano con la nota lettera dell’8 giugno, sebbene allora l’intervento della Francia fosse più auspicato che non assicurato. In Angioy questa convinzione doveva essere già matura se nel dispaccio del console Rebuffo del 31 agosto egli poteva esprimersi nei termini seguenti: «Nonostante però tutte le promesse avute d’ogni sorta d’assistenza a suo favore in Sardegna da qualche giorno si trova molto inquieto, e per quanto si spiegò colla nota persona religiosa, da cui ieri sera di notte mi portai per essere ammalata, preferirebbe di potersi a qualunque costo riconciliare con S.M. suo Sovrano, appresso di cui egli assicura di essere in grado di pienamente giustificare la sua condotta con tutte le carte autentiche di chi comanda in quel Regno, le quali lo hanno autorizzato a far commettere tante scelleratezze nella sua Patria, essendo egli non solamente stato tradito, ma assassinato di tutto il fatto suo da’ suoi Colleghi, li quali sebbene ora apparentemente dimostrino un ravvedimento, ed un vero attaccamento a S.M. macchinano continuamente contro di Essa, come ben presto si verificherà se colla sua spedizione gionto in Sardegna il suo partito supererà quello dei Realisti. Da tutti comunemente si dice che il Signor Angioi sia sempre stato il Giudice più stimato della Real Udienza per la sua integrità, e disinteressamento, dotato di tutte quelle virtù che formano un perfetto onest’uomo, ma che prevalendosi li ora riconciliati autori delle primarie insurrezioni, della sua timidità, e delle sue ricchezze, lo precipitarono nello stato in cui si trova. Perdoni se spinto da quel zelo … [mi sono permesso di] farle presente che potendosi ritrovare un mezzo per la prefata S.M. plausibile di sentire le discolpe del Signor Angioi, sarebbe nelle attuali circostanze molto prudenziale e conveniente, mentre privando l’Insorgenti che si trovano nell’interno di questo capo molto potente per li amici e parenti che ha non solo in Sardegna, ma nella Corsica il loro partito sarebbe interamente disfatto» (120).

La stessa notizia, fatta pervenire al governo sabaudo con il dispaccio del 31 agosto, viene confermata al console Rebuffo il 2 settembre da fonte sicura, l’ex provinciale dell’Ordine degli Ospedalieri con cui l’Angioy si confidava: il religioso riferiva che l’Angioy «desidererebbe a qualunque costo riconciliarsi col suo Sovrano, da cui spererebbe la grazia, se potesse avere il mezzo di presentargli una memoria colla quale potrebbe giustificare se non tutto, almeno in buona parte, la sua condotta, e nello stesso tempo illuminare S.M. delli intrighi che vi sono in Sardegna per mezzo di cui potrebbe prendere le opportune, e necessarie misure per conservare quel Regno, forse ora … mai conciliante. Egli ha molte corrispondenze con codesta Capitale, ed a quel che ho perinteso con persone distinte, delle quali non dispero sapere il nome» (121)

Questa nuova situazione vanificava in qualche modo la richiesta, che era stata continua e insistente, di ottenere l’arresto dell’Angioy, e che da ultimo il console Rebuffo aveva consegnato nelle mani del Saliceti il 4 settembre, appena giunto a Livorno (122). La risposta del commissario francese fu cortese, ma interlocutoria: riconosceva giusto che il vecchio sovrano sabaudo ricevesse  dal governo francese tutti quegli attestati di amicizia che il Trattato di alleanza aveva sancito, però era necessario che le accuse contro l’Angioy e i suoi seguaci venissero vagliate nella loro veridicità e consistenza da parte francese e solo in seguito si sarebbero adottate le misure più opportune. Intanto affidava la pratica della richiesta di arresto e di estradizione al console francese a Livorno Belleville, che gli avrebbe riferito in tempo congruo. Il console Rebuffo confermava inoltre ai ministri piemontesi che era volontà del governo francese di non secondare le aspettative rivoluzionarie degli angioiani; nel contempo gli risultava che l’Angioy decantava ancora l’appoggio francese e vantava «che il suo partito sempre più aumentava in Sardegna» (123). Lo stato di attesa e di fermento in cui si trovava la Sardegna veniva poco dopo confermato dalle informative trasmesse da Torino dal ministro Priocca all’ambasciatore a Genova Nomis di Cossilla (124).

Dal suo canto il Saliceti, nonostante le evanescenti assicurazioni formali date al console sabaudo, non manifestava nel concreto alcuna intenzione di procedere all’arresto dell’Angioy. Il 6 settembre egli, insieme al suo seguito, onorava l’Angioy  di una visita e lo assicurava «che nulla temesse, che tutto sarebbe andato bene»; il problema della conquista della Sardegna in seno al Direttorio Esecutivo francese sarebbe stato gestito dalla lobby corsa, che a breve si sarebbe fatta promotrice della riconquista della Corsica, temporaneamente caduta in potere degli Inglesi, e all’interno di questo piano avrebbe trovato attuazione anche la conquista della Sardegna. «Io credo benissimo – scriveva il console Rebuffo al ministro Priocca – tutto ciò che avrà detto il Signor Garrau ma debbo altresì persuadermi, che forse di nulla sia informato, perché maneggiato l’affare da soli soggetti di Nazione Corsa, alli quali nel tentare il recupero della Corsica potrebbe anche premere d’aver nelle mani l’Isola di Sardegna. Giacché se si deve prestar fede a qualche Politico Illuminato, venendo la Corsica recuperata, si erigerà in Repubblica dipendente e sotto la protezione della Francia, e verrà il supremo comando conferto al Salicetti e al Generale Bonaparte, e li altri impieghi più luminosi a’ Generali Gentile, Cervoni e Cosatta. Si sta ultimando il piano per la spedizione della Corsica per il cui effetto giornalmente giongono le truppe corse al servizio della Francia» (125).

Che la rivolta antipiemontese e antifeudale tra le popolazioni del Capo settentrionale fosse sempre viva e minacciosa, era unanimemente confermato da tutti i riscontri che provenivano dalla Sardegna. Il rientro in patria di alcuni dei seguaci dell’Angioy che l’avevano accompagnato nella fuga, come Cosimo Auleri e i fratelli Muroni, non solo alimentavano l’aspettativa di un imminente ritorno dell’Angioy, ma ponevano in atto imprese ardimentose, come quella del tentativo di conquistare Sassari per liberare i prigionieri rinchiusi nelle carceri di San Sebastiano o l’incursione armata contro i fautori del governo viceregio a Bonorva (126). La situazione era tale che lo stesso console Rebuffo, probabilmente indottovi da influenti personalità franco-corse presenti a Livorno, suggeriva al proprio governo che forse, nell’atteggiamento nei confronti dei fuorusciti sardi, era opportuno cambiare strategia: lasciando da parte le insistenti richieste di arresto dell’Angioy, era più conveniente assecondare il desiderio di costui di recarsi a Torino munito di salvacondotto per essere messo nelle condizioni di spiegare al sovrano le motivazioni della rivolta antifeudale. «Io non posso a meno di far presente – egli scriveva al ministro Priocca – che l’Angioi sarà assistito in tutte le sue dimande. Se il colpo riuscirà, poco importerà che si sappia chi vi abbia cooperato, in caso contrario, tutto resterà sepolto. Il suo partito sempre più aumenta nella Sardegna, massimamente che que’ Villici sono assicurati, che ritornando Angioi saranno liberati dalle tirannie e dalla schiavitù di quei feudatari. Onde permettami, che nuovamente mi prenda l’ardire di ripeterle, che il migliore, e più sicuro spediente per garantire quel Regno, e liberarlo da ulteriori vessazioni, e spargimento di sangue, sarebbe che S.M. si determinasse a far anche questo sacrificio di prontamente chiamare in cotesta Capitale con un salva condotto l’Angioi a giustificarsi, giacché egli disse alla nota persona di Religione che è in grado di farlo con carte autentiche, e di sviluppare li maneggi, che con rafinatissima machiavelica si fanno da chi ha le redini in mano di quel Regno. Con questo mezzo ogni partito, ed attentato viene dissipato, l’Angioi col denaro, che ha appresso, se non in tutto, in parte almeno risarcirà li danni fatti» (127).

 

 

9.  Molto si è congetturato, in sede storiografica, sui motivi che spinsero l’Angioy a sottoporre al sovrano una memoria giustificativa del suo operato. Dionigi Scano ha accreditato la tesi che l’iniziativa di invitare a Torino l’Angioy per sentirne le ragioni fosse frutto di un’iniziativa del nuovo sovrano Carlo Emanuele IV, che era succeduto al padre Vittorio Amedeo III il 16 ottobre 1796. Secondo il biografo dell’Angioy, il nuovo re avrebbe avuto, tra le prime sue cure, «di esaminare la condizione della Sardegna, ancora sconvolta dalle agitazioni, provocate in buona parte dalla spietata reazione del governo viceregio» (128). Sulla scorta della nuova documentazione raccolta dal generale Lo Faso – e ciò ne avvalora l’importanza per una più approfondita conoscenza della vita dell’Angioy in un periodo ancora assai oscuro – la vicenda della giustificazione dell’Angioy va letta in modo assai diverso. In primo luogo, l’iniziativa di proporre un chiarimento non partì affatto dal nuovo sovrano, ma dall’Angioy e dal suo entourage già dai primi di settembre 1796, cioè un mese e mezzo prima della morte di Vittorio Amedeo III. Carlo Emanuele IV può avere, come si vedrà, facilitato l’operazione, ma non ne fu in nessun caso né il proponente né l’artefice. La proposta nacque, con ogni verisimiglianza, da un suggerimento di Gian Francesco Simon, che nella seconda metà di agosto, xome si è detto, si trovava con Angioy a Livorno ed essa fu immediatamente accolta dai responsabili del governo francese, in primo luogo dal commissario generale della Repubblica Saliceti, che si trovavano nella difficile situazione di dover rispondere come alleati alle richieste di arresto del capo dei rivoluzionari sardi e al tempo stesso di non tradire la fiducia di chi aveva chiesto asilo politico e protezione alla Francia.

La giustificazione dell’Angioy non ebbe però mai, nelle intenzioni dei proponenti, il significato di una resa senza condizioni al governo piemontese o di un gesto di resipiscenza di chi riconosceva di avere percorso una strada sbagliata. Nell’Angioy restava ferma la convinzione della onestà del suo operato al fine di sradicare il sistema feudale dalle campagne della Sardegna, e la cosiddetta ‘giustificazione’ doveva costituire un’occasione importante per riaffermare la validità di quel moto di ribellione delle popolazioni sarde e un mezzo per giungere ad una mediazione che portasse alla soluzione del problema politico e sociale, riannodando le fila con la politica riformista a suo tempo posta in essere dal viceré e dagli Stamenti e superando le turbolenze e lo stato di guerra civile cui aveva condotto il ripiegamento su posizioni reazionarie degli Stamenti, della Reale Udienza e del viceré. Non è un caso che gli angioiani, all’atto stesso in cui decidevano di percorrere questa strada, continuavano a incitare le popolazioni a non demordere dalla lotta contro i feudatari e contro la politica repressiva del governo viceregio, agitando lo spauracchio di una nuova invasione francese. Pur essendo ormai consci della oggettiva impraticabilità di quest’ultima aspettativa, non volevano tuttavia deporre per primi le armi, mentre il governo viceregio, tramite un tribunale speciale e spedizioni punitive contro le popolazioni riottose, continuava a seminare il terrore con una feroce repressione e a consumare sui superstiti angioiani una vendetta politica inaudita. L’operazione della ‘giustificazione’ nasceva, quindi, da un ponderato calcolo politico, da portare avanti, se non da posizioni di vantaggio, quanto meno da una posizione di pari dignità delle parti, in quanto tutta l’operazione si svolgeva sotto l’ala protettiva e l’avallo della Repubblica francese, alleata dello Stato piemontese. E’ questo il quadro che si intravvede dalla missiva del console sabaudo al ministro degli esteri in data 14 settembre 1796: in esso, infatti, mentre si dà conferma che l’Angioy «sta compilando una memoria da rassegnare a Sua Maestà» (129), protetto e sostenuto finanziariamente dalla Francia, viene altresì assicurato che egli, non solo continua la sua corrispondenza con i capi della rivolta antifeudale rientrati nell’isola, ma si accinge a mandare in patria un suo emissario munito di un piano rivoluzionario e di «lettere per sollevare quei popoli» (130).

La richiesta di ‘giutificazione’ dell’ex Alternos presso il sovrano è oggetto di opposte interpretazioni. Il priore del convento dei frati di San Giovanni di Dio e il console Rebuffo parlano, infatti, di un atto di «ravvedimento», di un ricondursi del reo «nel dritto sentiere da cui ha traviato» (131), l’Angioy e gli amici francesi intendono invece tutta l’operazione solo come un chiarimento delle giuste cause che avevano determinato l’azione dell’ex Alternos. Conscio dei pericoli insiti nell’atto che si accinge a compiere e soprattutto dei travisamenti cui esso avrebbe sicuramente dato adito, Angioy appare, in queste settimane, avvolto in una tempesta di dubbi, paralizzato da un groviglio di ragioni contrapposte, vere e proprie antinomie politiche, ai suoi occhi tutte razionalmente valide. Egli non può, e non vuole, operare concretamente perché i suoi seguaci pongano fine allo stato di agitazione delle popolazioni del Logudoro, fomentato dal rientro nell’isola di Cosimo Auleri e del parroco di Semestene Muroni, nonché validamente sostenuto dal cognato Felice Mulas Rubatta, perché ciò equivarrebbe  ad un oscuramento del suo carisma e ad una implicita sconfessione del suo operato (132). Non può neppure trattenere il più valido tra i suoi collaboratori, l’avvocato Giacchino Mundula, il quale, scettico sulla validità della scelta della ‘giustificazione’ presso il sovrano, ha deciso di trasferirsi in Corsica, dove, da Bastia tenterà con ogni mezzo di tenere viva in Sardegna l’aspettativa di una nuova spedizione francese (133). Non può pretendere, considerata l’alleanza della Francia con il Piemonte, che la Repubblica francese possa disattendere il Trattato di pace, ma allo stesso tempo non può fidarsi ciecamente delle buone intenzioni del governo di Torino, che fino a pochi giorni prima aveva insistentemente richiesto il suo arresto alle autorità francesi e toscane, e che avallava imperterrito la repressione in Sardegna. Non poteva neppure disattendere il parere autorevole dei più moderati e politicamente smaliziati tra i suoi seguaci, come l’abate di Salvenero e il visconte di Flumini, con i quali si era a lungo consultato prima del loro trasferimento a Pisa (134). Inoltre nutriva il timore che il governo sabaudo, una volta che egli si fosse recato a Torino, potesse imprigionarlo, nonostante la protezione che gli veniva garantita dalla Francia (135). A convincerlo della opportunità del passo, infine, si era aggiunta la presenza a Genova di un altro autorevole personaggio, che era stato a suo tempo una delle teste pensanti della «sarda rivoluzione»: attorno alla metà di settembre sicuri riscontri segnalavano la presenza di Domenico Simon. L’ex sindaco dello Stamento militare, che si era recato a Torino in occasione delle missione stamentaria del 1793, senza fare ritorno in Sardegna, ora, postosi al seguito dell’arcivescovo Melano, che attendeva il mare propizio per potersi imbarcare alla volta di Cagliari dopo avere concluso positivamente la missione affidatagli dagli Stamenti nel settembre 1795, era determinato a rientrare in Sardegna. E’ da ritenere che questa inaspettata comparsa del maggiore dei fratelli Simon, politico accorto e di temperamenti moderati, abbia contribuito a rafforzare la decisione dell’Angioy di giocare la carta della ‘giustificazione’. Inoltre non è da escludere che, dietro la decisione di Domenico Simon di rientrare in Sardegna al seguito dell’arcivescovo Melano, vi fosse la volontà di tentare in extremis una mediazione politica presso gli antichi promotori della «sarda rivoluzione» dell’ormai lontano 1793 (136).

Dopo la decisione di Angioy di recarsi a Torino per ‘giustificare’ il suo operato, tra il 2 e il 6 settembre 1796 il console Rebuffo faceva pervenire la richiesta al ministro Priocca. Il 28 settembre, dopo un informale assenso di Torino, il Rebuffo chiese un incontro con l’Angioy, durante il quale gli comunicò le condizioni poste dal governo piemontese: indirizzare una richiesta formale  al ministro, corredata da una circostanziata memoria giustificativa. Nel corso del colloquio il console compì ogni sforzo per convincere il suo interlocutore a rescindere ogni contatto con i francesi, ma Angioy fu irremovibile. Egli comunicò al Rebuffo che lo scritto che avrebbe inoltrato al ministro piemontese sarebbe stato da lui sottoposto all’attenzione del console francese Belleville «per rapportarne il consenso, giacché avendogliene già parlato, non s’oppose di ricorre al Sovrano, ma che prima di darli corso, desiderava di vederlo» (137).

Il primo ottobre il console Rebuffo riceveva dall’ Angioy la richiesta  memoria e in quello stesso giorno la spediva  al ministro Priocca. All’atto della consegna, tuttavia, il Rebuffo ebbe l’impressione che Angioy non fosse  del tutto convinto e fermo nelle sue risoluzioni. «Compiegata trasmetto a Vostra Eccellenza la memoria, che questa mattina finalmente mi rimise in camera della nota persona Religiosa il Signor Angioi, il quale però non trovai totalmente fermo nelle sue risoluzioni. Nel consegnarmela mi disse di averla prima fatta vedere a questo Signor Console francese, per non demeritare appo della Repubblica, sotto la cui protezione egli vive; dal contenuto di essa Vostra Eccellenza comprenderà bastantemente quali siano li suoi sentimenti, che vengono agitati dal timore, e dall’amore della sua famiglia, dalla vendetta, e regolati da persone affatto opposte al suo carattere, che in fondo conserva ancora onesto, e sincero, ma converrebbe per farlo ravvedere, allontanarlo al più presto da questo Stato» (138).

Due giorni dopo, il 3 ottobre, nel corso di un colloquio con il Rebuffo, il console Belleville ribadiva di avere caldamente consigliato all’Angioy di redigere quella memoria, in virtù della quale il sovrano «avrebbe dovuto graziarlo, perché onest’uomo, e pieno di attaccamento per il Sovrano, e per lo Stato» (139). Rivelava inoltre, particolare ignoto al console sabaudo, che l’Angioy gli aveva anche consegnato «un piano di commercio da aprirsi tra la Francia e la Sardegna, che per essere meglio eseguibile e vantaggioso credette doveroso mandarne un’estratto al Ministro dell’Estero in Parigi» (140). Il piano di commercio, ovviamente, non era stato accluso alla richiesta spedita a Torino: esso doveva servire solo all’interlocutore francese. Angioy, dunque, perseverava nella sua linea di tenere, come si suol dire, i piedi su due staffe. Differentemente dai suoi più diretti interlocutori, che sia per la parte sabauda che per la parte francese erano personalità minori, forse non del tutto capaci di cogliere fino in fondo il senso dell’agire di Angioy, questi era ben persuaso di compiere atti squisitamente politici, non di ravvedimento, come amava credere il console Rebuffo; pertanto, in una situazione in movimento, aperta ad esiti i più disparati, Angioy, da saggio uomo politico, percorreva tutte le strade capaci di offrire una soluzione ai problemi, senza affidarsi esclusivamente all’una o all’altra. Entrambi i partiti sembravano offrire, ad Angioy uomo politico, dei vantaggi; per tale motivo occorreva percorrere entrambe le strade. A rafforzare in lui questa convinzione, un realistico calcolo politico che all’ingenuo poteva apparire un atteggiamento di doppiezza, attorno al 10 ottobre gli giungeva la notizia dell’avvenuta esecuzione capitale a Sassari dell’avvocato Gavino Fadda, di Giovanni Antonio Carta e di Antonio Vincenzo Petretto (141). Oltre a rafforzarlo nella convinzione della necessità di operare su entrambi i binari, le notizie provenienti dalla Sardegna lo rendevano particolarmente inquieto e talvolta dubitoso sul viaggio a Torino, per il quale attendeva con ansietà la risposta del ministro Priocca.

Il 16 ottobre, a seguito della morte di Vittorio Amedeo III, era salito al trono Carlo Emanuele IV. Tale avvicendamento non pare abbia intralciato la pratica relativa al viaggio di Angioy a Torino, anche perché la compagine governativa aveva subito poche variazioni, di cui la più significatica fu la sostituzione del conte Galli con il marchese Della Valle alla guida del dicastero degli Interni, cui era affidata la trattazione degli affari di Sardegna (142).

Sebbene il console Rebuffo sottolineasse nei suoi rapporti ai ministri torinesi una certa doppiezza nell’agire dell’Angioy, che mentre dilazionava ad arte la consegna ai ministri sabaudi del piano di commercio a suo tempo fatto pervenire ai francesi, sapeva per certo che egli «era in continue conferenze, e che ben poco si aveva da sperare  di suo ravvedimento» (143), alla fine di ottobre il ministro Priocca fece pervenire all’Angioy il salvacodotto per il viaggio a Torino. In data 2 novembre Angioy spediva al ministro piemontese una lettera di ringraziamento  e si impegnava a raggiungere la capitale subalpina non appena le sue condizioni di salute glielo avessero consentito. Le diffidenza del console Rebuffo, tuttavia, neanche ora veniva meno, soprattutto perché egli seguiva con la meticolosità del segugio gli spostamenti e le frequentazioni dell’Angioy: «temo – commenta a proposito della lettera scritta in risposta al ricevimento del salvacondotto – che sarà molto verbosa, e poco concludente, come lo fu la sua Promemoria, perché al solito avrà prima consultato da chi, dice, aver qualche dipendenza; ed in seguito coll’Abbate Simon di Salvenero, col Visconte De Flumini, e col famoso Dottor Mondula, da quali è sempre attornato» (144).

Dal 2 al 15 novembre Angioy scompare dalla circolazione, tanto che il console dubita che sia in procinto di partire per la Corsica, dove si è già recato il Mundula. Il 16 novembre Angioy, che nel frattempo ha ricevuto riscontri e assicurazioni dal ministro degli Interni marchese Della Valle, ha un lungo colloquio con il console Rebuffo, al quale comunica che è in procinto di partire per Torino. Infatti si mette in viaggio il 18 novembre in compagnia del suo segreterio Emanuele Crobu. Giunto a Genova, vi si trattiene alcuni giorni; tra l’altro nella capitale ligure egli incontra, come riferisce l’ambasciatore Nomis di Cossilla, l’arcivescovo di Cagliari monsignor Vittorio Melano, per cui è da auspicarsi «che metta in pratica i prudenti, e savi consigli che ha ricevuto da questo degno prelato» (145). La documentazione in esame non riporta altri particolari di questa tappa del viaggio dell’Angioy e non viene detto se abbia incontrato anche Domenico Simon, che era stato segnalato al seguito dell’arcivescovo in attesa di imbarco per la Sardegna. Da questo momento nella documentazione non vi è più traccia  del maggiore dei fratelli Simon ed è da ritenersi che questi sia rientrato a Torino insieme al Melano, che nel frattempo era stato incaricato dagli Stamenti di rappresentare il Regno nella cerimonia del giuramento di fedeltà al nuovo sovrano (146). Di sicuro l’Angioy incontrò a Genova l’incaricato di affari francese Faypoult, che gli consegnò lettere commendatizie per l’addetto di affari a Torino Jacob.

«Non credendosi abbastanza sicuro per la solita strada», scrive il marchese Della Valle al viceré Vivalda nel dispaccio del 7 dicembre, Angioy è giunto a Torino, passando per Mondovì, il 6 dicembre «verso notte» (147). Nello stesso dispaccio il ministro spiega le motivazioni politiche  che hanno consigliato al governo di accogliere la richiesta di giustificazione, peraltro difficile da dimostrare secondo il Della Valle, inoltrata dall’Angioy. «Si è benissimo ravvisata la grave difficoltà – scrive il ministro -  che avrebbe incontrata a dare una piena giustificazione, ma si è altresì considerato, che stando egli in Livorno, e trattando continuamente con Francesi, de quali vantava la protezione, ed eziandio stabilita qualche intelligenza relativamente al Capo Superiore di codesto Regno, avrebbero potuto succedere, od almeno fomentarsi nuovi maggiori sconcerti, e turbolenze, come già se ne avea qualche riscontro, per cui si sono prese le misure contenute nelle due lettere particolari, che ho avuto l’onore di scrivere a V.E. gli 8, e il 12 del precorso ottobre, di maniera che colla venuta di detto Signor Angioi in Torino nulla si rischiava, e per altra parte si toglieva, per dir così, un fomite di attentati nel Capo di Sassari. Si vedranno ora le memorie, e rappresentanze, che darà, come anche ciò che saprà dir in voce, essendosi destinato il suddetto Signor Avvocato Fiscale Regio Cappa per sentirlo, ed avrò poi l’onore d’informare l’Eccelleza Vostra del risultato. M’immagino, che da più d’uno de’ Sassaresi, che qui ritrovansi verrà costì partecipato l’arrivo in Torino di detto Signor Angioi, e Vostra Eccellenza sentirà come tal cosa sarà costì intesa dalle persone più assennate, e vorrei dire dagli Stamenti medesimi, quantunque Ella ritenga in se questo dettaglio, e la prego quindi d’accennarmi tutti i chiarimenti che stimerà su tale proposito» (148).

 

 

10. La permanenza di Angioy a Torino, alloggiato nell’hotel Auberge, riverito dai simpatizzanti e inviso ai partigiani della feudalità sarda, durò solo 15 giorni, dal 6 al 21 dicembre 1796. Per ordine del re venne fatto partire a Casale, dove giunse la sera del 22 dicembre, sempre in compagnia del segretario Crobu. La decisione di mandare Angioy a Casale non è stata, come si suol credere, conseguenza delle eventuali ritorsioni o attentati di cui poteva essera oggetto a Torino. A quanto riferisce la segreteria di Carlo Emanuele IV nel dipaccio al viceré del 21 dicembre 1796, già dal momento in cui l’istanza dell’Angioy era stata accolta, il governo piemontese aveva deciso, una volta realizzato l’intento fondamentale che si riproponeva con l’operazione, ossia di allontanare l’ex Alternos da Livorno dove era troppo soggetto all’influenza dei suoi seguaci e dei francesi, di relegarlo a Casale «e colà guardarlo a vista» (149). Per motivi che la documentazione non chiarisce, forse dovuti a pressioni di parte francese, Angioy era stato stato indirizzato a Torino, dove peraltro era vigilato a vista (150). Il pavido Carlo Emanuele IV, già messo sull’avviso dalla feudalità sarda residente a Torino, per evitare ogni cattiva impressione sulla cosiddetta parte sana della classe dirigente sarda e degli Stamenti, attorno al 20 dicembre «ordinò di portar li suoi ordini a chi doveva per farlo partire subito per Casale» (151). Sebbene nella documentazione non se ne faccia cenno, da altra fonte sappiamo che l’Angioy a Torino ebbe contatti con il ministro degli Interni marchese Della Valle, con il ministro degli Esteri Clemente Damiano di Priocca, con il segretario del re conte Viretti e con l’avvocato fiscale regio Cappa; per interposta persona ebbe contatti anche con l’addetto di affari francese Jacob (152).

Prima della partenza per Casale il sovrano, recependo l’istanza dell’avvocato fiscale Cappa, il 12 dicembre inoltrava al viceré Vivalda a Cagliari la richiesta del fascicolo processuale costruito contro l’Angioy (153). I responsabili del governo, dai colloqui avuti con l’Angioy, avevano chiaramente compreso che cosa egli si prefiggeva col suo viaggio a Torino e le loro aspettative non collimavano affatto con quelle dell’ex Alternos. «L’intenzione dell’Angioi – scriveva il Della Valle al viceré il 21 dicembre – non è altro salvo di far vedere, che ha osservato le istruzioni stategli date alla sua partenza da Cagliari, e che fu tradito, con caricare Vostra Eccellenza ed il Reggente Cocco. Consideri se potrà essere creduto, e non basta il male che ha fatto in Sardegna perché deve aggiungersi quello che ha tentato di fare a Livorno. E si compiaccia Vostra Eccellenza di ritenere in se quanto sopra che per ordine di S.M. ho l’onore di comunicarle» (154).

L’atteggiamento del governo di Torino nei confronti dell’Angioy durante i dieci mesi della sua permanenza in Piemonte fu attendista e dilatorio. Difficilmente, però, avrebbe potuto essere diverso. Infatti, se aveva conseguito l’obiettivo di allontanare l’Angioy dai suoi seguaci e da un luogo dal quale era in grado di seguire e indirizzare la rivolta in Sardegna, non poteva però giudicare il suo operato né positivamente né negativamente. Pronunciare un giudizio di assoluzione, o quantomeno emettere un verdetto che alleggerisse il peso delle sue respnsabilità, equivaleva a sconfessare l’operato del viceré e degli Stamenti; giudicarlo colpevole equivaleva a disattendere le aspettative implicite e gli accordi con la Francia alleata e contribuire a riaccendere in modo forse irreparabile la situazione di ribellione delle popolazioni sarde, facile esca della propaganda rivoluzionaria dei fuorusciti, in particolare di Gioacchino Mundula, che si era trasferito a Bastia in concomitanza con la partenza dell’Angioy per Torino e donde continuava a incitare alla resistenza e alla rivolta contro il governo dei piemontesi e dei feudatari che egli definiva nelle sue  missive un «governo intruso». Questo pericolo assumeva un peso ancora maggiore specialmente ora che la Francia aveva ripreso possesso della Corsica strappandola agli Inglesi (155).

Alloggiato temporaneamente con il segretario Crobu all’Albergo della Posta di Casale, in ottemperanza al desiderio del re e al fine di procurare all’Angioy la tranquillità necessaria per la stesura di un organico memoriale, già dal 27 dicembre il ministro degli interni sollecitava il governatore di Casale conte Della Torre, incaricato di una stretta sorveglianza dell’ospite, di favorire il suo trasferimento in un convento della città. Tale trasferimento avvenne il 7 gennaio 1797, quando il priore del convento degli Agostininai, «in esecuzione della Regia intenzione, ha … ricevuto nel suo  convento il Signor D. Gio. Angioi col suo Segretario Signor Emanuele Corba [recte Crobu] ai quali somministrerà ogni cosa di loro convenienza» (156). Quasi non fossero sufficienti le raccomandazioni del ministro Della Valle per una stretta vigilanza sull’Angioy, a rafforzare tale raccomandazione si aggiungeva ora con una nota personale l’ex ministro degli Interni conte Pietro Graneri, sicuramente indottovi dai parenti ed amici dei feudatari sardi in Torino, dalla cui cerchia proveniva la contessa Graneri (157).

Da Casale l’Angioy, impegnato a redigere i suoi memoriali, intratteneva una fitta corrispondenza con Ludovico Baille a Torino, con certo «cittadino Castellini» a Genova, con Andrea De Lorenzo a Cagliari e con Gioacchino Mundula a Bastia (158). L’attivismo dei fuorusciti angioiani riparati in Corsica, le cui file si andavano notevolmente ingrossando costituiva, come testimonia la documentazione, la maggior preoccupazione del governo di Torino durante la prima metà del 1797. A seguito degli allarmistici dispacci del viceré, il ministro degli Esteri Priocca sollecitava dalla Francia alleata « per ottenere l’arresto, o almeno l’allontanamento dalla Corsica di Dn Gio Maria Angioi, e del Dr Gioachino Mundula, e di altri rivoluzionari loro seguaci, che si suppongono ivi ricoverati, e che continuino da colà a turbare la pubblica quiete e tranquillità del Regno eziandio colla minaccia d’un prossimo loro sbarco nel medesimo con una quantità di Corsi» (159). Poiché numerose voci incontrollate davano presente a Bastia, insieme al Mundula, lo stesso Angioy, il marchese Della Valle doveva rassicurare il reggente Gavino Cocco che l’ex Alternos « è venuto in Piemonte con passaporto al fine di giustificarsi al quale effetto sta in Casale lavorando la rappresentanza ovvero memoria da presentarsi onde deve cessare il maggior timore che si era concepito per la voce che si fosse recato in Bastia per reclutare tutta la feccia di que’ nullatenenti facinorosi, e perché tal voce erasi anche più volte sparsa in Torino, e si aveano molti riscontri da Livorno ch’egli trattasse co’ Francesi si è per ciò stimato di aderire alla di lui istanze di venire in Piemonte perché in tal guisa non avrebbero più potuto da di lui aderenti millantarsi soccorsi ed ajuti stranieri ma avrebbero anzi concepito un timore di venire affatto abbandonati, e scoperti nelle loro ree machinazioni» (160). Quanto al Mundula, la sua azione di propaganda a Bastia è intensa e continua; secondo quanto raccontano passeggeri provenienti dalla Sardegna  che transitano da Bastia per raggiungere Livorno, «si è inteso che il Mondula sempre si vanta di andar a liberare la Patria dall’attuale intruso Governo, giacché in mancanza dell’Angioi, si è dovuto egli erigere Capo della spedizione, che quanto prima si dovrà fare per quel Regno» (161).

L’istruzione della pratica dell’Angioy, intanto, subisce dilazioni continue e immotivate. Solo l’11 aprile viene acquisito dal governo l’incartamento del processo Angioy proveniente da Cagliari e l’indomani viene formalmente consegnato all’avvocato fiscale Cappa (162). Questi ritardi, giudicati strumentali e densi di pericoli per la sua incolumità, inducono alcuni seguaci dell’Angioy a predisporre un piano per favorire la sua fuga da Casale sin dal mese di febbraio 1797 (163). Il canale attraverso cui l’Angioy continua la sua corrispondenza con la Sardegna e con il Mundula, è quello «d’un certo Sorba Sassarese, chirurgo della Nazione francese a Livorno» (164), che fa capo, a Torino, al citato Ludovico Baille, segretario particolare dell’ambasciatore della Corte di Spagna, e a Cagliari al console toscano Francesco Baille, zio di Ludovico (165). Tra le lettere che pervengono all’Angioy, vi sono quelle «di certo Rubato, cugino dell’Angioy» (166), che è da identificarsi con il nobile di Bono don Felice Mulas Rubatta, attivissimo nella propaganda e nella lotta antifeudale, che alla fine dell’estate sarà l’artefice della fuga di Angioy da Casale (167).

L’attività incessante del tribunale speciale istituito a Sassari contro gli angioiani, capeggiato dal giudice Giuseppe Valentino e le apprensioni per l’incolumità dell’Angioy, provocano alla fine di marzo 1797, dietro sollecitazione degli esuli sardi, una nota ufficiale dell’incaricato di affari francese Jacob al ministro degli Esteri Priocca (168). La nota denuncia tre atti del governo viceregio che la Francia giudica contrari al Trattato di pace con il Piemonte. Tali atti sono:

1°) il pregone viceregio del 20 giugno 1796, che stabilisce una taglia sul capo di Angioy, Gioacchino Mundula e l’avvocato Gavino Fadda, accusati di insurrezione contro i poteri dello Stato per atti compiuti nel corso della guerra tra la Francia e il Piemonte;

2°) le esecuzioni capitali, eseguite tra la fine di settembre e i primi di ottobre 1796, del citato avvocato Fadda e degli altri due patrioti Antonio Vincenzo Petretto e Antonio Maria Carta, e la condanna a pesanti pene detentive per i medesimi reati di Giuseppe Mundula e di Quirico Spano, arbitrariamente arrestati dal governo viceregio su un bastimento battente bandiera genovese;

3°) il pregone viceregio del 16 settembre 1797 con il quale, disattendendo un provvedimento regio del 5 luglio 1796, che riconosceva inclusi nell’amnistia per reati politici i fratelli Muroni di Bonorva, costoro venivano dichiarati non compresi nel provvedimento di clemenza, ribadendo la taglia sulla testa di essi come su quella dell’Angioy e di altri capi dell’insurrezione angioiana.

Pur non addebitando la responsabilità di quanto denunciato al governo del re, ma esclusivamente al viceré Vivalda, premesso che la Francia non avrebbe avuto alcunché da obiettare per delitti politici commessi dopo la firma del Trattato di pace, poiché il governo francese  «a tout lieu a penser qu’ils n’ont été condamnés ou proscrits que pour leurs opinions politiques manifestées avant le traité» (169), chiedeva al governo alleato:

1°) la revoca dei provvedimenti contestati;

1°) la sostituzione del viceré Vivalda con un altro viceré.

Era evidente che il passo ufficiale dello Jacob presso il governo piemontese nasceva  dalla necessità di arrestare la politica forcaiola del governo viceregio e della Delegazione sassarese affidata al feroce giudice Valentino contro i seguaci dell’Angioy, cercando di salvare il salvabile dopo le esecuzioni capitali e le numerosissime carcerazioni di quanti avevano aderito alla ribellione contro i feudatari. Si trattava, a ben vedere, di un intervento troppo tardivo. Era fin troppo facile per il governo di Carlo Emanuele IV rispondere che l’attività rivoluzionaria per cui venivano condannati e imprigionati gli angioiani era andata ben oltre il periodo della firma del Trattato di Parigi. Le imprese di Cosimo Auleri e dei fratelli Muroni nell’autunno del 1796 stavano a dimostrarlo. Proprio prete Muroni, che si era dato alla macchia già dall’estate del 1796 al suo rientro in Sardegna e si era messo a capo di una quadriglia armata di 150 uomini che battevano le campagne del Logudoro, negli stessi giorni in cui veniva recapitata la nota diplomatica dello Jacob veniva catturato nelle campagne di Sindia (170). Di tutte le richieste dell’addetto francese al governo sardo pareva potesse accogliersi solo la richiesta di sostituzione del viceré, che rispondeva peraltro al desiderio più volte espresso dall’interessato. Tale sostituzione, tuttavia, non era al momento praticabile «non avendo il Vivalda ancora maturato un triennio di incarico» (171). Nella sostanza, il Piemonte restava sulle sue posizioni e non lasciava intravvedere alcuna apertura in merito. E’ dal tenore di questo atteggiamento del governo di Torino  che è facile arguire, come si è già rilevato, la impossibilità che la pratica relativa all’Angioy potesse avere un esito positivo anche in presenza dei condizionamenti politici e delle note ufficiali della Repubblica francese. Angioy, dal canto suo, dopo l’arrivo da Cagliari degli incartamenti che lo riguardavano, nella seconda metà di aprile faceva pervenire al ministro degli Interni «tre pieghi relativi alla [sua] memoria» (172), che venivano subito consegnati all’avvocato fiscale Cappa, con l’assicurazione che «verrà il tutto preso in considerazione per rendersele in seguito tutta quella giustizia che le sarà dovuta» (173).

Intanto a Casale era insorta qualche lamentela da parte del padre superiore degli Agostiniani circa la corresponsione da parte dell’Angioy di una adeguata pigione; in realtà la presenza dell’Angioy e del suo segretario nel convento era ormai divenuta indesiderata e pertanto se ne chiedeva «la rimozione» (174). Il giudice istruttore Cappa era però dell’avviso che il trasferimento dell’Angioy ad altra residenza  era inopportuna «perché non si è addotta veruna specifica causa di far il cambiamento, che ora neppure converrebbe, essendosi già dall’Angioi mandata la memoria per sua giustificazione, che si sta da esso esaminando» (175). Del resto dal ministro degli Interni veniva assicurato «non essersi avuto dal Governatore di Casale alcun riscontro contrario alla buona condotta dell’Angioi» (176).

Tra la fine di aprile e la prima metà di maggio erano pervenute dalla Sardegna sinistre notizie sulla sorte degli angioiani in Sardegna: la cattura del parroco di Semestene Francesco Muroni e di suo fratello Salvatore, contro i quali si era iniziato a costruire il processo; l’esecuzione capitale a Sassari di «cinque soggetti per delitto d’insurrezione» (177), ossia il giovane medico Gaspare Sini e i patrioti Giacomo Devilla, Luigi Serra, Giovanni Devilla, Giovanni Antonio Merella (178); le traversie dell’abate di Salvenero Gian Francesco Simon, del fratello Matteo Luigi e dell’ex vicario generale della diocesi di Sassari Salvatore Roig, tutti fatti oggetto di provvedimenti di confino. I fuorusciti, dal canto loro, sparpagliati in diverse località della Toscana e della Corsica, il 4 giugno 1797 si erano raccolti attorno a Gioacchino Mundula e si erano presentati a Livorno al console Belleville per implorare «la protezione della Repubblica francese affine venga da essa sistemato un nuovo Governo nella Sardegna, o altrimenti, che sia il suo partito dichiarato innocente, assolto da ogni impostura fattagli, rimesse le loro persone nelle proprietà, e dritti, ed impieghi, che cuoprivano, indennizzati de’ danni sofferti, a riparazione delle sentenze pronunciate, in odio de suoi partitanti pretesi complici d’imputatigli delitti» (179). Facevano parte del drappello di esuli, oltre al noto avvocato giacobino sassarese, i dottori Giovanni Maria Sotgia Mundula e Domenico Solis, Antonio Luigi Petretto, padre del giustiziato Antonio Vincenzo, insieme a due figli, il cognato del Solis Antonio Martinetti, Cosimo Auleri, un ex frate minore osservante cognato del giustiziato dottor Sini, Giuseppe Luigi Livia con due figli, Gavino Tealdi e Giovanni Sorba (180). Dopo l’incontro con il Belleville, il grosso del gruppo si era fermato a Livorno, con l’intenzione di raggiungere  a Milano il generale Bonaparte muniti di lettere di raccomandazione del Bellevile (181); e tale incontro effettivamente avvenne, ma il generale Bonaparte, riferisce l’addetto piemontese Borgese in data 4 luglio, « a norma delle assicurazioni datemi non solo si è rifiutato alla loro domanda, ma li ha prevenuti che essendo la Repubblica Francese alleata alla Corte di Torino si sarebbe astenuta dal prendere la menoma ingerenza in tali affari, e li consigliò finalmente di desistere dai loro progetti e di rispettare il governo stabilito» (182). Gioacchino Mundula invece, in compagnia di  Giovanni Sorba, era partito il 5 giugno alla volta di Parigi, dove avrebbe continuato a sollecitare l’aiuto del governo francese in favore della causa della Sardegna e dove sarebbe morto di lì a un anno (183); anche l’Angioy avrebbe alla fine cercato asilo e protezione a Parigi. Secondo quanto riferisce il vice-console di Livorno Ghio nel suo rapporto del 18 giugno 1797, il Mundula nel suo viaggio avrebbe dovuto far tappa a Casale per incontrare l’Angioy: di tale visita però la documentazione non offre sicuro riscontro (184).

A seguito di queste notizie, il governo torinese  diede disposizioni più rigide per un controllo più stretto della corrispondenza e delle persone in arrivo o in partenza da e per la Sardegna, in particolare a Casale, dove era confinato l’Angioy e compì passi ufficiali presso le autorità francesi per ottenere assicurazioni che la Francia non avrebbe più dato appoggio né sovvenzioni ai fuorusciti sardi. Il 26 giugno 1797 il conte Borgese, commissario piemontese presso l’Armata d’Italia a Milano, indirizzava da Mombello a Napoleone Bonaparte una nota nella quale chiedeva che non si aderisse più alle richieste dei rivoluzionari sardi, in ottemperanza alle clausole del trattato di alleanza tra i due governi (185). Il giorno successivo Napoleone dava anmpie assicurazioni al ministro degli Esteri Priocca nei termini seguenti: «mi ha il prefato Signor Generale in Capo assicurato, che non avrebbe preso veruna ingerenza nelle loro domande, ed ancor meno prestato in modo alcuno la mano a verun progetto rivoluzionario, che per avventura volessero nuovamente mettere in campo, e che venendo le loro rappresentanze limitate a chiedere l’interposizione del Governo Francese per ottenere il permesso di rientrare in quel Regno, non avrebbe dato loro risposta veruna senza preventivamente sentire li miei eccitamenti» (186). E il successivo 4 luglio, dopo che era effettivamente avvenuto l’abboccamento della delegazione dei patrioti sardi con Napoleone, il Borgese poteva confermare, in via definitiva, che le richieste del governo piemontese potevano ritenersi in tutto accolte. «Alcuni de’ noti Sardi si sono poi effettivamente presentati al Signor Generale Bonaparte per ottenere la protezione del Governo Francese nell’esecuzione de’ piani rivoluzionarj che stanno meditando sopra quell’Isola, ma il prefato Generale a norma delle assicurazioni datemi non solo si è rifiutato alla loro domanda, ma li ha prevenuti che essendo la Repubblica Francese alleata alla Corte di Torino si sarebbe astenuta dal prendere la menoma ingerenza in tali affari, e li consigliò finalmente di desistere dai loro progetti e di rispettare il governo stabilito» (187).

Analoghe assicurazioni aveva dato a Livorno il console Belleville al console Rebuffo nel corso di un lungo colloquio chiarificatore (188). Ogni speranza sembrava ormai tramontata per gli esuli sardi. Alcuni di essi, rientrati a Livorno, erano «mortificati, partiti per la Corsica, per non aver voluto portarsi a servire nelle truppe lombarde per godere di quella libertà, ed eguaglianza che cercavano» (189); era stato questo il suggerimento che aveva dato loro il console Belleville, il quale aveva anche ribadito al console Rebuffo «che non li avrebbe mai più in alcun modo provvisti di soccorsi» (190). Dei fuorusciti cui si fa riferimento, gli avvocati Solis e Sotgia Mundula si fermeranno a Genova, alloggiati nell’albergo «Scudo di Francia» insieme ad altri 11 esuli (191); Gavino Tealdi fu il solo che raccolse il suggeriento del console Belleville e andò ad arruolarsi nell’Armata d’Italia (192); nel frattempo si aggiungeva al drappello un altro esule angioano, che chiedeva invano di poter essere ricevuto ai piedi del sovrano per giustificarsi: il macomerese Domenico Pinna, ex giudice della Reale Governazione, molto caro all’Angioy (193). Le missive del solerte console Rebuffo della fine di luglio e dell’agosto 1797 offrono un’immagine davvero patetica dei fuorusciti sardi, condannati a una vita errabonda e come abbandonati a se stessi.

«Rapporto alli Sardi fuor’usciti – egli scriveva il 28 luglio – si sono essi dispersi quà e là, gli uni però mal contenti si sono ritirati nella Corsica, gli altri si sono adetti al Servizio della Repubblica Cisalpina, ve ne hanno pure degli erranti sine fide, ma che qui non si lasciano vedere sul timore che hanno, ch’io possa assicurarli in queste prigioni, o farli tradurre in Sardegna» (194).

E in data 3 agosto, il sacerdote Giuseppe Ghio, sostituto del console, comunicava a Torino: «Ho inteso per buon canale che 17 di que Sardi i quali gonfi di buone speranze da qualche tempo errano per l’Italia, sono giunti non è guari ad Ajaccio coperti di miseria e stracciati come ladri, ed estremamente male soddisfatti del Generale in capite Bonaparte per non averli voluto prestare quella protezione, che imploravano, avendo loro fatto sentire di non avere da che fare colla Sardegna, né co’ Sardi, bensì era disponibilissimo di conceder loro una divisa da soldato, se volevano godere in quella carriera la sospirata libertà» (195).

 

 

11. Era evidente che la svolta della primavera 1797 nei rapporti tra il governo piemontese e le autorità e i rappresentanti francesi metteva in serio pericolo la vita dell’Angioy, confinato a Casale, e toglieva ogni speranza circa l’esito della sua ‘giustificazione’. Di conseguenza gli esuli sardi, oltre a rendere edotto l’Angioy degli sviluppi della situazione per corrispopndenza e con rare e circospette visite, prepararono un piano di fuga da Casale. Tutto ciò nonostante che il Mundula, giunto a Parigi, mandasse segnali positivi sulla sorte dei fuorusciti sardi: « Non guari – scriveva il console livornese il 25 agosto – giunse a Pisa certo Domenico Pinna Giudice di Sassari che disse di aver lasciato in Genova il Dottor Soggia Mondula, Solis, e Petretto con due suoi figli, soggiungendo che li riscontri avuti da Parigi dal Dottor Gioachino Mondula erano molto lusinghieri per il partito de fuor’usciti dalla Sardegna» (196). Dopo aver consegnato le sue memorie ai ministri piemontesi, l’Angioy aveva sollecitato più volte  la conclusione dell’esame della sua pratica, ma nessuna concreta assicurazione egli ricevette in proposito: in data 5 settembre 1797 la relazione dell’avvocato fiscale Cappa non risultava ancora redatta (197).

Di organizzare la fuga si era fatto carico il cognato dell’Angioy, don Felice Mulas Rubatta (198). Sbarcato a Livorno attorno al 20 giugno insieme con il suo giovane segretario Salvatore Frassu, egli predispose in grande segretezza il piano, sebbene qualche sentore il governatore di Casale sembra avere avuto, soprattutto a seguito della visita ad Angioy di un misterioso personaggio che aveva fatto tappa a Casale il 13 e il 14 luglio (199). Rientrava sicuramente nel piano di fuga dell’Angioy la richiesta di passaporto inoltrata dal segretario Emanuele Crobu per due volte nel breve volgere di dieci giorni, il 2 e l’11 luglio, quasi in coincidenza con la visita del misterioso personaggio. La motivazione addotta dal Crobu per giustificare la richiesta era che intendeva profittare di una vantaggiosa offerta di lavoro che gli era stata fatta, «per entrare in una banca avendo bel carattere, ed essendo anche esperto di conteggio» (200). Negatogli in prima battuta per le perplessità che la richiesta aveva suscitato nel giudice Cappa, il passaporto fu spedito al Crobu dal marchese Della Valle il 15 luglio. Partito poco dopo alla volta di Genova, egli scriveva in data 30 agosto da Milano ad un suo conoscente di Casale, «a cui dice che è al servizio della repubblica Cisalpina con 200 lire al mese di stipendio fisso senza viveri, e sta può dirsi ottimamente. Quell’impiego gliel’ha procurato un suo amico e protettore che da Genova lo portò con lui a Milano» (201). Si trattava di tutta una messinscena architettata per non destare sospetti e per far sì che il Crobu, che era l’unica persona a conoscenza delle abitudini dell’Angioy e dei luoghi, potesse contribuire concretamente al piano di fuga. Egli, infatti, non era andato a Milano, come aveva voluto far credere tramite una lettera regolarmente intercettata dall’ufficio postale di Casale, ma si era recato a Genova per unirsi a Felice Mulas Rubatta e a Salvatore Frassu al fine di perfezionare il piano della fuga.

La fuga dell’Angioy da Casale avvenne la mattina del mercoledì 6 settembre 1797. Le modalità di essa sinora note e riportate dai biografi e dagli storici, sono quelle, alquanto romanzate, riferite circa sessant’anni dopo da uno dei protagonisti, il canonico Salvatore Frassu di Bono, in una lettera a Giorgio Asproni dell’11 maggio 1855, pubblicata da Giovanni Antonio Mura nel 1925 (202). La mattina del 6 settembre, racconta il Frassu, Angioy uscì dal convento degli Agostiniani dicendo che si sarebbe recato nell’orto di un amico per mangiare fichi; in un posto convenuto si trovava su una vettura il cognato Felice Mulas Rubatta travestito da ufficiale francese e munito di passaporto ugualmente francese. Angioy montò sulla vettura, «si galoppò a uffo, ed in poche ore furono in terra libera [a Genova], ed ebbe dal Faypoult cordiale accoglienza» (203). Non è chiaro se alla fuga, insieme al Rubatta, abbia partecipato anche il Frassu, autore della lettera, allora appena ventenne.

La documentazione raccolta dal generale Lo Faso consente ora di delineare assai meglio  le circostanze attraverso cui l’Angioy «si è scaltramente assentato» (204), come si esprime il governatore di Casale Della Torre nel rapporto indirizzato al segretario del re conte Cerruti, in un goffo tentativo di giustificare la mancata vigilanza e la beffa dell’accaduto (205). In un rapporto successivo del 17 settembre egli narrava con dovizia di particolari le modalità della fuga.

Dopo la partenza del Crobu il padre priore del convento aveva nutrito seri sospetti su un imminente allontanamento da Casale anche dell’Angioy, ma la sua preoccupazione era dovuta soprattutto al timore che, essendo l’ospite da molto tempo moroso nel pagamento della pigione – l’Angioy era debitore al convento di 250 lire – potesse partendo non onorare il debito. Il priore non si curò di svelare i suoi sospetti al governatore, anche perché precedentemente, quando si era rivolto ai ministri torinesi, era stato espressamente invitato a soprassedere. Del resto, si giustificava il governatore, avendo l’Angioy, per determinazione dei ministri del re, ampia libertà di movimenti nella città e nei dintorni, era facile un’evasione in qualunque momento. Nei giorni che precedettero la fuga non era capitato a Casale alcun sardo che potesse destare sospetti. Solo il 5 settembre era giunto a Casale un sedicente ufficiale francese, che prese alloggio nell’albergo della Posta. Essendone stato avvisato, il governatore  ingiungeva all’avventore di presentarsi da lui alle tre del pomeriggio, come di fatto avvenne. Durante l’incontro il governatore verificava che l’ufficiale non era francese, ma corso; diceva di essere un ufficiale di Sanità addetto agli ospedali ed esibiva un passaporto, sottoscritto dal ministro francese a Genova Faypoult, nel quale «era qualificato col nome di Lega di Bastuta in Corsica, ed ufficiale di Sanità al servizio della Francia» (206). Durante la mattina il sedicente ufficiale francese si era presentato attorno alle dieci al convento degli Agostiniani, aveva chiesto del padre maestro Levis e gli aveva consegnato una lettera di Emanuele Crobu, alla quale era acclusa una lettera per l’Angioy, con cui il sedicente ufficiale ebbe un colloquio. Dopo questo incontro, nel corso della giornata l’Angioy fece le cose consuete: si presentò dopo pranzo presso la sede del governatore, che però non poté ossequiare perché impegnato, fece «il suo solito passeggio col Demichelis», si trattenne nella casa di questi sino a sera, quindi si ritirò, com’era solito, nel convento. «L’indomani mattina- racconta il governatore -  il Lega partì solo in vettura di Posta per Alessandria; si trovò l’Angioi in qualche distanza fuori della Posta, e fece fermare il Postiglione, che in principio ebbe qualche difficoltà, ma sgridato dal Lega lo lasciò porre nella vettura, e fece attenzione che l’Angioi mise il pennacchio sul capello di divisa francese. Siccome il Bollettone di Posta non era che per il solo Lega, se non ha osato riffiutargli assolutamente di porsi in sedia, doveva almeno consegnarlo alla Posta di Alessandria, ove dal Governo poteva essere trattenuto l’Angioi; ma l’inosservanza delle attenzioni che si dovrebbero fare ad ogni Posta favorisce le evasioni, e questa poteva non riuscire» (207). Per non destare sospetti, l’Angioy era partito «co’ soliti abiti che aveva in corpo come se andasse a passeggio; ha lasciato nella camera il suo cofano con qualche vestimenta e lingeria e sua spada» (208). Nella camera del convento Angioy aveva lasciato anche diverse carte, che il governatore aveva giudicato insignificanti. Tra queste, la lettera del Crobu, falsamente datata da Milano, in cui il Crobu diceva di essersi impiegato nella città lombarda, identica alla lettera che il governatore aveva segnalato nel precedente rapporto del 10 settembre.

Erano trascorsi oltre due mesi dall’arrivo a Livorno di Salvatore Frassu e di don Felice Mulas Rubatta, sicuramente da identificare con il sedicente ufficiale francese di Sanità Lega, con il quale l’Angioy fuggì da Casale, non in una carrozza appositamente presa a nolo, ma semplicemente nella vettura di posta diretta ad Alessandria, e di là a Genova. Un piano di fuga, dunque tanto semplice quanto rischioso, ma allo stesso tempo beffardo, realizzato da uomini ardimentosi e amanti del rischio.

 

 

12. Giunto a Genova l’Angioy, cui stava particolarmente a cuore la propria dignità e onorabilità, scriveva immediatamente al marchese Della Valle per spiegargli il motivo della sua fuga, o quantomeno quella versione che egli voleva fosse accreditata presso il sovrano e i ministri piemontesi, e per sollecitare ancora una volta e insistentemente la conclusione dell’istruttoria che lo riguardava. Com’è risaputo, e come la documentaziuone che si pubblica conferma, nel corso del 1797 l’avvocato fiscale Cappa consegnò finalmente la relazione sull’Angioy, che fu esaminata da una speciale commissione  nominata da Carlo Emanuele IV ma che non risulta sia giunta mai a definizione. Il governo piemontese, ormai alle prese con gli enormi problemi che avrebbero avuto come esito, alla fine del 1798, l’annessione del Piemonte alla Repubblica francese e l’esilio della famiglia reale in Sardegna, non aveva alcun interesse a pronunciarsi su una vicenda che appariva ormai lontana nell’evoluzione degli eventi. Anche la documentazione relativa al 1798 è comunque altrettanto ricca per la storia della Sardegna di fine Settecento, sia sotto il profilo generale, sia sotto quello, avvincente e ancora da approfondire, delle peripezie dei numerosi patrioti sardi ormai definitivamente condannati all’esilio.

Abbiamo voluto, in questa introduzione, presentare un tentativo di approfondimento alla luce della nuova documentazione, soprattuto in relazione all’invasione francese del 1793 e alle vicende della prima fase dell’esilio dell’Angioy. I risultati ci sembrano di rilevante novità per la ricostruzione di questo appassionante momento della storia della Sardegna. Sono però numerosi gli episodi che questa imponente raccolta documentaria è in grado di illuminare e di completare. A condizione, ovviamente, che la rivisitazione delle vicende proceda con gli strumenti propri della critica storica, che esige in primo luogo una buona conoscenza della storiografia e una paziente e accurata collazione della più recente documentazione con i risultati già acquisiti della ricerca.

A conclusione, va testimoniata al generale Lo Faso la gratitudine degli storici e dei semplici curiosi per l’imponente e meticolosa raccolta documentaria, nella quale quotidianità con cui si succedono gli eventi narrati dalle fonti si accompagana con il piacere di una lettura, per così dire, in presa diretta  delle vicende storiche della Sardegna degli anni 1793-1798.

 

 

 

 

NOTE

(1) Cfr. La Sardegna e la Rivoluzione francese. Atti del convegno su «G.M. Angioy e i suoi tempi», Bono 15-17 dicembre 1988, a cura di M. Pinna, Sassari 1990; Francia e Italia negli anni della Rivoluzione. Dallo sbarco francese a Quartu all’insurrezione cagliaritana del 28 aprile 1794. Atti del convegno internazionale di studi, Quartu Sant’Elena – Cagliari, 28-30 aprile 1994, a cura di L. Carta e G. Murgia, Roma-Bari 1995; La rivoluzione sulle Bocche. Francesco Cilocco e Francesco Sanna Corda «giacobini» in Gallura (1802), a cura di M. Brigaglia e L. Carta, Cagliari 2003. Tra le relazioni lette in occasione del convegno organizzato dall’Università di Sassari il 26-27 aprile 1996 su Patriottismo e costituzionalismo nella «sarda rivoluzione». L’alternos Giovanni Maria Angioy e i moti antifeudali, quella di A. Mattone e P. Sanna, ampliata e corredata di note, è stata in seguito pubblicata sotto il titolo Costituzionalismo e patriottismo nella «sarda rivoluzione», in Universalismo e nazionalità nell’esperienza del giacobinismo italiano, a cura di L. Lotti e R. Villari, Roma-Bari 2002, pp. 191-244, ora anche in A. Mattone – P. Sanna, Settecento sardo e cultura europea. Lumi, società, istituzioni nella crisi del’Antico Regime, Milano 2007, pp. 197-240. Di particolare interesse la relazione, tuttora inedita, di M. Brigaglia, Per un profilo biografico di Angioy, letta nell’Aula Magna dell’Università di Sassari il 26 aprile 1996. Ringrazio il prof. Brigaglia per avermi offerto la possibilità di leggere il dattiloscritto.

 

(2) Oltre ai saggi contenuti nei tre volumi citati nella nota precedente, ricordiamo in ordine cronologico i saggi più significativi apparsi negli ultimi anni, ai quali rimandiamo per una più completa informazione bibliografica: L. Del Piano, La Sardegna e la Rivoluzione francese, in «Annali della Facoltà di Economia e Commercio di Cagliari», V (1991), estratto; I. Birocchi, La carta autonomistica della Sardegna tra antico e moderno. Le «leggi fondamentali» nel triennio rivoluzionario (1793-96), Torino 1992; L. Carta, Il triennio rivoluzionario sardo in due manoscritti inediti della Biblioteca Reale di Torino (codice 672 bis e codice 628), in «Archivio sardo del movimento operaio contadino e autonomistico» (di seguito citato ASMOCA), N. 41/43 (1993), pp. 133-205; 1793: i franco-corsi sbarcano in Sardegna, a cura di F. Francioni, Cagliari 1993; A. Mattone, P. Sanna, I Simon: una famiglia di intellettuali tra riformismo e restaurazione, in All’ombra dell’aquila imperiale. Trasformazioni e continuità istituzionali nei territori sabaudi in età napoleonica (1802-1814). Atti del convegno, Torino 15-18 ottobre 1990, Ministero per i Beni Culturali e Ambientali. Ufficio Centrale per i Beni Archivistici, Roma 1994, pp. 762-863; Storia de’ torbidi occorsi nel Regno di Sardegna dall’anno 1792 in poi. Opera anonima del secolo XVIII, a cura di L. Carta, Cagliari 1994; A. Mattone – P. Sanna, Giovanni Maria Angioy e un progetto sulla storia del «diritto patrio» del Regno di Sardegna (1802), in Studi e ricerche in onore di Girolamo Sotgiu, II, Cagliari 1994, pp. 231-308, ora anche in A. Mattone – P. Sanna, Settecento sardo e cultura europea, cit., pp. 241-297; M. Luigi Simon, La Sardegna antica e moderna, a cura di C. Sole e V. Porceddu, Cagliari 1995; L. Carta, Cagliari nel 1794-95: la bufera rivoluzionaria, saggio introduttivo al volume Pagine di storia cagliaritana 1794-1795, Camera di Commercio Industria Artigianato e Agricoltura di Cagliari, Cagliari 1995; V. Del Piano, Giacobini, moderati e reazionari in Sardegna. Saggio di un dizionario biografico 1793-1812, Cagliari 1996; L. Marrocu, Procurad’’e moderare. Racconto popolare della Rivoluzione sarda 1793-1796, Cagliari 1996; F. Francioni, Per una storia segreta della Sardegna tra Settecento e Ottocento, Cagliari 1996; T. Orrù – M. Ferrai Cocco Ortu, Dalla guerra all’autogoverno. La Sardegna nel 1793-94: dalla difesa armata contro i francesi alla cacciata dei piemontesi, Cagliari 1996; A. Mattone-P. Sanna, La «rivoluzione delle idee»: la riforma delle due Università sarde e la circolazione della cultura europea (1764-1790), in «Rivista Storica Italiana» (di seguito citata RSI), CX (1998), pp. 137-138, ora anche in A. Mattone – P. Sanna, Settecento sardo e cultura europea, cit., pp. 13-106; A. Mattone – P. Sanna, La «crisi politica» del Regno di Sardegna dalla rivoluzione patriottica ai moti antifeudali, in Le insorgenze popolari nell’Italia rivoluzionaria e napoleonica, a cura di A. M. Rao, Roma 1999, pp. 37-70, ora anche in A. Mattone – P. Sanna, Settecento sardo e cultura europea, cit., pp. 141-172; L’attività degli Stamenti nella «sarda rivoluzione» (1793-1799), vol. 24° della collana «Acta Curiarum Regni Sardiniae», tomi I-IV, a cura di L. Carta, Cagliari 2000; F. Francioni, Vespro Sardo. Dagli esordi della dominazione piemontese all’insurrezione del 28 aprile 1794, Cagliari 2001; L. Carta, La  «sarda rivoluzione». Studi e ricerche sulla crisi politica in Sardegna tra Settecento e Ottocento, Cagliari 2001;  F. I. Mannu, Su patriota sardu a sos feudatarios, a cura di L. Carta, Cagliari 2002. Nel recentissimo volume di A. Mattone – P. Sanna, Settecento sardo e cultura europea, sopra citato, si segnalano altri tre importanti contributi scritti a due mani dagli stessi autori: Francesco Cetti e la storia naturale della Sardegna, ivi, pp. 107-140 (già apparso in «Studi Storici», 43 (002, pp. 967-1002); Corpi parlamentari e antidispotismo nella «sarda rivoluzione». Il “Discorso parenetico” di Gian Francesco Simon agli Stamenti (ottobre 1805), ivi, pp. 173-198 (già apparso in Il Settecento di Furio Diaz, a cura di C. Mangio e M. Verga, Pisa 2006, pp. 169-193); Istruire nelle verità patrie. Il Prospetto dell’isola di Sardegna di Matteo Luigi Simon, ivi, pp. 299-364 (già pubblicato in Dal mondo antico all’età contemporanea. Studi in onore di Manlio Brigaglia offerti dal Dipartimento di Storia dell’Università di Sassari, Roma 2001, pp. 513-598). Per un inquadramento generale del periodo cfr. G. SOTGIU, Storia della Sardegna sabauda, Roma-Bari 1984; C. SOLE, La Sardegna sabauda nel Settecento, Sassari 1984.

 

(3) Cfr. G. Manno, Storia moderna della Sardegna da 1773 al 1799, Torino 1842; per la ricostruzione delle fonti del Manno si rimanda alla Prefazione di A. Mattone alla recente riedizione dell’opera: cfr. G. Manno, Storia moderna, a cura di A. Mattone, revisione bibliografica di T. Olivari, Nuoro 1998; di particolare interesse anche l’introduzione alla ristampa anastatica curata da G. Serri:  cfr. G. manno,  Storia moderna, a cura di G. Serri, Cagliari 1972.

 

(4) Cfr. F. Sulis, Dei moti politici dell’isola di Sardegna dal 1793 al 1821. Narrazioni storiche, Torino 1857; la narrazione del Sulis si ferma al 1796.

 

(5)  A. Mattone – P. Sanna, La «crisi politica» del Regno di Sardegna dalla rivoluzione patriottica ai moti antifeudali, in Le insorgenze popolari nell’Italia rivoluzionaria e napoleonica, cit., p. 37.

(6) Ivi, p. 39.

 

(7) F. Francioni, Vespro sardo, cit., p. 7.

 

(8) Ivi, p. 386

 

(9) Cfr. L’attività degli Stamenti nella “sarda rivoluzione”, cit.

 

(10) G. Manno, Storia moderna,  cit., p. 182.

 

(11) Ivi, p. 186.

 

(12) F. Sulis, Degli Stamenti sardi. Lezione data nel dì 22 febbraio 1854 nella Regia Università di Sassari, Sassari 1854, p. 5.

 

(13)  Id., Dei moti politici, cit., p. 4.

 

(14) C. Sole, Politica, economia e società in Sardegna nell’età moderna, Cagliari 1978, p. 131.

 

(15) Ivi, p. 52.

 

(16) Cfr. C. Sole, Lo Stamento militare del Parlamento sardo nel gennaio 1793, in Sardegna, Mediterraneo e Atlantico tra Medioevo ed Età moderna. Studi in onore di Alberto Boscolo, a cura di L. D’Arienzo, vol. I, La Sardegna, Roma 1993, p. 554 passim. La compilazione di Vittorio Angius cui Sole fa riferimento è l’ormai rara appendice al  vol. XVIII quater, Sardegna, del Dizionario geografico- storico- statistico- commerciale degli Stati di Sua Maestà il re di Sardegna, Torino 1833-1856, di G. Casalis. L’appendice è un volume di 212 pagine senza frontespizio né data e senza indicazioni editoriali, che l’erudito cagliaritano pubblicò a proprie spese nel 1859, dopo che il successore del Casalis nella direzione del Dizionario Paolo Camosso e l’editore Marzorati rifiutarono di accogliere la continuazione della storia dei  Parlamenti sardi contenuta nel vol. XVIII quater, che si ferma infatti al 1648. L’appendice dell’Angius, che è stampata con gli stessi tipi del Dizionario e ne riprende la numerazione da p. 796 (il vol. XVIII quater termina con la p. 795) fino a p. 1007, narra la storia parlamentare del regno di Sardegna dal 1648 fino alle riunioni stamentarie del 1793-1796. Relativamente al periodo sabaudo, dopo aver dedicato pochi cenni alla Interruzione de’ Parlamenti sardi dal 1700 al 1793 (pp. 911-914), l’Autore offre un ampio transunto delle sessioni stamentarie dal gennaio 1793 all’ottobre 1796 (pp. 914-1004), mentre dedica poche pagine all’attività degli Stamenti dal 1796 al 1847. Significativamente egli intitola l’ultimo capitolo Abdicazione dell’antica costituzione del regno di Sardegna (pp. 1005-1007): con la «fusione perfetta» e con l’adozione della nuova costituzione dello Stato sabaudo, secondo la sua opinione, fu «illegalmente soppresso l’antico Statuto della Sardegna». Fino alla pubblicazione degli atti dello Stamento militare del 1793 curata da Sole e fino alla recente pubblicazione degli atti stamentari del 1793-1799, l’appendice dell’Angius ha costituito l’unica fonte cui gli studiosi potevano riferirsi per una narrazione completa e sufficientemente analitica dell’attività degli Stamenti sino alla fine del Settecento. Si vedano in proposito le osservazioni di A. Mattone, Una progetto di edizione degli atti dei Parlamenti sardi, in «Quaderni sardi di storia», n. 4 (luglio 1983-giugno 1984), pp. 212-213; un’analitica indicazione delle sedute stamentarie del 1793-1796 presenti nell’appendice dell’Angius è stata redatta da L. Carta, Le sedute stamentarie nel triennio rivoluzionario (1793-96): problemi di ricognizione documentaria e di edizione, tav. 4, in ASMOCA, n. 47/49 (1996), pp. 281-300. Sull’Angius si veda la recente riedizione realizzata dall’editore ILISSO delle ‘voci’ sulla Sardegna scritte dall’erudito cagliaritano per il Dizionario di Goffredo Casalis: V. ANGIUS, Città e villaggi della Sardegna dell’Ottocento, a cura di L. Carta, Nuoro 2006.

 

(17) C. Sole, Lo Stamento militare del Parlamento sardo nel gennaio 1793, cit., p. 555.

 

(18) Ivi, p. 556.

 

(19) Nel secondo dopoguerra, quando fu ripreso il secolare progetto di pubblicazione degli atti dei Parlamenti del regno di Sardegna, che ha dato luogo alla edizione critica di tre Parlamenti (cfr. A. Boscolo, I Parlamenti di Alfonso il Magnanimo, Milano 1953, ora ristampato come volume 4° della collana «Acta Curiarum Regni Sardiniae» con aggiornamenti, apparati e note a cura di Olivetta Schena; A. Era, Il Parlamento sardo del 1481-1485, Milano 1955; G. Sorgia, Il Parlamento del viceré Fernandez de Heredia (1553-1554), Milano 1963), la Deputazione di Storia Patria per la Sardegna aveva affidato l’incarico di raccogliere gli «atti stamentari del 1793» a Pietro Leo. Cfr. F. Loddo Canepa, La Deputazione di Storia Patria e la Raccolta degli atti parlamentari sardi, in Liber Memorialis Antonio Era, Bruxelles 1963, pp. 193-207; la citazione è a p. 197. Sui vari tentativi compiuti, a partire dal secolo scorso, di pubblicare gli atti dei Parlamenti sardi, cfr. A. Mattone, Problemi di storia del Parlamento sardo, in Assemblee di Stati e istituzioni rappresentative nella storia del pensiero politico moderno (XV-XX secolo). Atti del convegno internazionale tenuto a Perugia da 16 al 18 settembre 1982, I, Rimini 1984, pp. 165-172; Id., Un progetto di edizione degli atti dei Parlamenti sardi, cit., pp. 281-300; G. Olla Repetto, La collana «Acta Curiarum Regni Sardiniae», in ASMOCA, n. 47/49 (1996), pp. 75-83.

 

(20) Cfr. G. Sotgiu, Alcune conseguenze politiche dell’attacco francese alla Sardegna nel 1792-93, in «Annali delle Facoltà di Lettere Filosofia e Magistero dell’Università di Cagliari», vol. XXIII (1970); Id., La insurrezione di Cagliari del 1794, in «Studi Sardi»,  vol. XXI (1971); le indicazioni di pagina relative a questi due lavori di Sotgiu si riferiscono agli estratti. Oltre che nei due saggi citati, Sotgiu si è occupato a più riprese del problema del riformismo sabaudo e delle vicende di fine Settecento in Sardegna: si veda, in particolare, la nitida sintesi contenuta in G. Sotgiu, Storia della Sardegna sabauda, Roma-Bari 1984; Id.,  Note per uno studio degli anni della Rivoluzione Sarda del 1793-1796, in ASMOCA, n. 29/31 (1990), pp. 11-44; Id., La Sardegna della prima metà dell’Ottocento: i germi della contemporaneità, in ASMOCA, n. 32/34 (s. d. ma 1991), pp. 46-47, ora anche in  Intellettuali e società in Sardegna tra Restaurazione e Unità d’Italia, a cura di G. Sotgiu, A. Accardo, L. Carta,  vol. I , Oristano 1991, pp. 23-42; G. Sotgiu, La Sardegna tra Rivoluzione e Restaurazione, in ASMOCA, n. 35/37 (1991), pp. 11-27.

 

(21) Cfr. G. Sotgiu, La insurrezione di Cagliari, cit., p. 49 passim.

 

(22) Cfr. Id., Storia della Sardegna sabauda, cit., pp. 89-131. Si veda, in proposito, il recente profilo di A. Accardo, Il filo rosso dell’autonomia. Alcune note introduttive allo studio dell’opera storiografica di Girolamo Sotgiu, in ASMOCA, n. 50 (1998), pp. 20-28.

 

(23) Cfr. F. Venturi, Settecento riformatore, vol. I, Da Muratori a Beccaria (1730-1764), Torino 1969; vol. II, La chiesa e la repubblica dentro i loro limiti (1758-1774), Torino 1976; vol. III, La prima crisi dell’Antico Regime (1768-1776), Torino 1979; vol. IV,  La caduta dell’Antico Regime (1776-1789), tomo I,  I grandi stati dell’Occidente, Torino 1984, tomo II,  Il patriottismo repubblicano e gli imperi dell’Est, Torino 1984;  vol. V,  L’Italia dei lumi (1764-1790), tomo I, La rivoluzione di Corsica. Le grandi carestie degli anni sessanta. La Lombardia delle riforme, Torino 1987, tomo II, La Repubblica di Venezia (1761-1797), Torino 1990. Su Franco Venturi  (1914-1994) e sulla sua opera si vedano i recenti saggi di E. Tortarolo, La rivolta e le riforme. Appunti per una biografia intellettuale di Franco Venturi (1914-1994),  in «Studi settecenteschi», 15 (1995), pp. 9-42; A. Mattone, Franco Venturi e la Sardegna. Dall’insegnamento cagliaritano agli studi sul riformismo settecentesco, in ASMOCA, n. 47/49 (1996), pp. 303-355; il volume collettaneo edito dalla Fondazione Luigi Einaudi di Torino, Il coraggio della ragione. Franco Venturi intellettuale e storico cosmopolita, a cura di L. Guerci e G. Ricuperati, Torino 1998, con contributi  dei due curatori e di  Giuseppe Giarrizzo, Roberto Vivarelli, Edoardo Tortarolo, Furio Diaz, Bronislaw Baczko, Daniel Roche, Giuseppe Galasso, Ettore Cinnella, Abbott Gleason, Valentina A. Tvardavskaja, Pier Giorgio Zunino e testimonianze di Norberto Bobbio, Alessandro Galante Garrone, Giorgio Vaccarino, bibliografia a cura di Paola Bianchi e Leonardo Casalino. 

 

(24) Cfr.L. Bulferetti, Il riformismo settecentesco in Sardegna, Cagliari 1966, 2 voll.; C. Sole, La Sardegna sabauda nel Settecento, Sassari 1984; L. Scaraffia, La Sardegna sabauda, in J. Day, B. Anatra, L. Scaraffia, La Sardegna medioevale e moderna, vol. X della Storia d’Italia diretta da G. Galasso, Torino 1984.

 

(25) G. Ricuperati, I volti della pubblica felicità. Storiografia e politica nel Piemonte settecentesco,  Torino 1989, pp. 166-167.

 

(26) Cfr. F. Venturi,  Gian Battista Vasco all’Università di Cagliari, in «Archivio Storico Sardo» (di seguito citato ASS), XXV (1957), fasc. 1-2, pp. 16-41; Id., Il conte Bogino, il dottor Cossu e i Monti frumentari. Episodio di storia sardo-piemontese del secolo XVIII, in  RSI, LXXVI (1964), pp. 470-506; ma si veda anche Id., Giuseppe Cossu, in Illuministi italiani, VII, Riformatori delle antiche repubbliche, dei ducati, dello Stato pontificio e delle isole, a cura di G. Giarrizzo, G. Torcellan, F. Venturi, Milano-Napoli 1965, pp. 849-859; L. Berlinguer, Domenico Alberto Azuni giurista e politico (1749-1827). Un contributo bio-bibliografico, Milano 1966; E. Verzella, L’età di Vittorio Amedeo III in Sardegna: il caso dell’Università di Sassari, in «Atti della Fondazione L. Einaudi», XXIV (1990), pp. 235-272; Id., L’Università di Sassari nell’età delle riforme (1763-1773), Sassari 1992; M. LEPORI, Dalla Spagna ai Savoia. Ceti e corona nella Sardegna del Settecento, Roma 2003.

 

(27) A. Mattone-P. Sanna, La «rivoluzione delle idee»: la riforma delle due Università sarde e la circolazione della cultura europea (1764-1790), cit., pp. 137-138. Alla luce di questo importante saggio di Mattone e Sanna andrebbero confrontate e rivisitate le numerose interpretazioni restrittive sul riformismo boginiano in Sardegna, a partire dai contributi di L. Bulferetti, Premessa a Il riformismo settecentesco in Sardegna a cura di L. Bulferetti, Cagliari 1966; A. Boscolo – L. Bulferetti- L. Del Piano, Profilo storico-economico della Sardegna dal riformismo settecentesco al Piano di rinascita, Padova 1962, ora ristampato con aggiornamenti bibliografici e con una Parte II  relativa ai tempi più recenti di Gianfranco Sabattini presso l’editore Franco Angeli: A. Boscolo – L. Bulferetti – L. Del Piano – G. Sabattini, Profilo storico-economico della Sardegna dal riformismo settecentesco ai Piani di rinascita, Milano 1991. In sintonia con questa interpretazione Stefano Pira ha scritto in un recente contributo che l’obiettivo della riforma delle Università voluta dal Bogino «era quello di creare nuovi quadri burocratici e tecnici non di formare una classe dirigente sarda autonoma» (S. Pira, Sardi, viceré e ministri: dal Bogino al 28 aprile 1794, in Studi e ricerche in onore di Giampaolo Pisu, Cagliari 1996, p. 113). Al contrario fu proprio la «rivoluzione delle idee» innescata dalla riforma del Bogino a favorire la crescita di una «classe dirigente sarda autonoma», cioè di quella intellettualità che proprio dalla cultura rinnovata trasse alimento per l’acquisizione di una matura coscienza dell’identità e di un rinnovato e solido ‘patriottismo’ che costituì il terreno di coltura della rivoluzione sarda di fine Settecento. L’osservazione non va riferita solamente al riformismo sabaudo,  ma al riformismo settecentesco in generale. Si veda, in proposito, l’acuta introduzione di Antonio De Francesco all’edizione critica di V. Cuoco, Saggio storico della rivoluzione di Napoli, edizione critica di A. De Francesco, Napoli 1998; cfr. anche B. Croce, La rivoluzione napoletana del 1799, a cura di C. Cassani, con una nota di Fulvio Tessitore, Napoli 1998.

 

(28) G. Sotgiu, La insurrezione di Cagliari, cit., pp. 83-84.

 

(29) I. Birocchi, La carta autonomistica della Sardegna tra antico e moderno,  cit., p. 103.

 

(30) Ibidem. L’espressione è di C. Sole, Gli Stamenti e la crisi rivoluzionaria sarda della fine del XVIII secolo, in Liber memorialis Antonio Era,  Bruxelles 1963,  p. 187.

 

(31) I. Birocchi,  La carta autonomistica, cit., p. 95.

 

(32) Ivi, p. 103.

 

(33) Cfr. A. Mattone – P. Sanna, Il «partito patriottico» al potere. Dalla sollevazione antipiemontese ai moti antifeudali delle campagne del Logudoro (1794-1796), relazione tenuta nell’aula magna dell’Università di Sassari il 26 aprile 1996  in occasione del convegno Patriottismo e costituzionalismo nella «sarda rivoluzione» sopra citato, pp. 5-6 del dattiloscritto.

 

(34) Il discorso è stato pubblicato nell’annuario dell’Ateneo turritano: cfr. A. Era, Estrema reviviscenza di un secolare istituto (Gli Stamenti nell’ultimo decennio del secolo XVIII), in Universita’ degli Studi di Sassari, Annuario per gli anni accademici dal 1943-44 al 1946-47, Sassari 1947, p. 16; sulla reviviscenza dell’istituto parlamentare alla fine del Settecento cfr. anche C. Sole, Gli Stamenti e la crisi rivoluzionaria sarda della fine del Settecento, cit.; F. Francioni, Un’anomalia istituzionale: il Parlamento sardo nel triennio rivoluzionario (1793-96), in ASMOCA, n. 29/31 (1990), pp. 149-178. Circa l’attività degli Stamenti nel Settecento e la mancata convocazione del Parlamento cfr. G. Olla repetto, Il primo donativo concesso dagli Stamenti sardi ai Savoia, in Liber Memorialis Antonio Era, cit., pp. 101-111; M. A. Benedetto, Nota sulla mancata convocazione del Parlamento sardo nel secolo XVIII, ivi, pp. 1134-168; G. Todde, Proteste degli Stamenti sardi contro l’attività del governo piemontese nella seconda metà del secolo XVIII, ivi, pp. 170-177.

 

(35) G. Zirolia, Sugli Stamenti di Sardegna, Milano 1892; Id., Stamenti sardi, in « Archivio giuridico», 1912; A. Marongiu, I Parlamenti di Sardegna nella storia e nel diritto pubblico, Roma 1932; il volume è stato poi ripubblicato dall’Autore, con notevoli integrazioni e arricchimenti contenutistici e bibliografici, col titolo: I Parlamenti sardi. Studio storico- istituzionale e comparativo, Milano 1979.

 

(36) A. Era, Estrema reviviscenza di un secolare istituto, cit., p. 16.

 

(37) Ivi, p. 24.

 

(38) Ibidem.

 

(39) Cfr. V. Del Piano, Giacobini, moderati e reazionari in Sardegna. Saggio di un dizionario biografico 1793-1812, cit.

 

(40) Cfr. G. Cucca, Macomer: documenti cronache e storia di una comunità. Settecento sabaudo, Cagliari 2000.

 

(41) Una pregevole drammatizzazione è quella di G. Putzolu, Alternos. Dramma in tre atti, Cagliari, 2002, che rievoca l’episodio della resistenza del villaggio di Macomer alla marcia di Angioy e dei suoi seguaci verso Cagliari nel giugno 1796. L’edizione critica dell’inno antifeudale è contenuta nel volume: F. I. Mannu, Su patriota sardu a sos feudatarios, a cura di L. Carta, cit.

 

(42) Cfr. A. Mattone – P. Sanna, Settecento sardo e cultura europea. Lumi, società, istituzioni nella crisi dell’Antico Regime, Milano 2007.

 

(43) Cfr., oltre ai saggi già citati, A. Mattone – P. Sanna, Istruire nelle verità patrie. Il Prospetto dell’isola di Sardegna di Matteo Luigi Simon, in Dal mondo antico all’età contemporanea. Studi in onore di Manlio Brigaglia offerti dal Dipartimento di Storia dell’Università di Sassari, Roma 2001, pp. 513-598; M. Pes, La rivolta tradita. La congiura di Palabanda e i Savoia in Sardegna. Introduzione di G. Serri, Cagliari 1994; V. Sulis, Autobiografia, a cura di G. Marci. Introduzione e note storiche di L. Ortu, Cagliari 1994.

 

(44) Vedi infra, A. Lo Faso, Premessa, p.

 

(45) Cfr. P. Marini, La spedizione francese per la conquista della Sardegna nel 1793, in ASS, vol. XVIII, fasc. 2, Cagliari 1931. Le relazioni degli otto battaglioni dei volontari che difesero il litorale di Cagliari si riferiscono al 1°, 2°, 4°, 6°, 7° e 8°, comandati rispettivamente dai colonnelli Emanuele Ripoll marchese Neoneli, Marchese di San Saverio, Cosimo Canelles, Barone Otger, Emanuele Ghiani e Pasquale Atzori. Le stesse relazioni sono ora pubblicate in L’attività degli Stamenti nella «sarda rivoluzione», cit., tomo I, docc. 61/1, 54/2, 57/1, 60/1, 59/2, 57/2.

 

(46) La documentazione che si pubblica è raccolta per anno; dopo una Premessa generale, il capitolo dedicato a ciascun anno è introdotto da una breve sintesi sui principali avvenimenti di Terraferma di carattere politico e militare.

 

(47) Vedi infra, A. Lo Faso, Premessa, p.   .

 

(48) Ibidem.

(49) Ibidem.

 

(50) Questo tipo di documentazione è desunto da: Archivio di Stato di Torino (di seguito indicato AST), Sardegna, Corrispondenza proveniente dall’isola, Lettere di particolari, mazzo 1; AST, Sardegna, Corrispondenza coi particolari sardi, mazzi 12, 25 e 26; AST, Lettere di particolari, Lettera T, mazzo 18.

 

(51) Le filze documentarie da cui proviene questa tipologia sono le seguenti: AST, Lettere Ministri, Roma, voll. 305 e 306; AST, Lettere Ministri, Gran Bretagna, mazzo 95; AST, Lettere Ministri, Due Sicilie, mazzi 38 e 39; AST, Lettere Ministri, Spagna, mazzo 96; AST, Lettere Ministri, Genova, mazzo 34; AST, Milanese, Lettere diverse, mazzo 21 e mazzo non inventariato; AST, Lettere Ministri, Milano, mazzo 57; Lettere Ministri, Francia, mazzo 238.

 

(52) Cfr. AST, Consolati nazionali, Livorno, mazzi 75 e 76.

 

(53) Cfr. AST, Sardegna, Relazioni a S. M., mazzo 12.

 

(54) Cfr. AST, Segreteria di S. M., Lettere di Particolari, mazzi 124 e 125; AST, Segreteria di Gabinetto, mazzi 118 e 125.

 

(55) Cfr. AST, Segreteria di Sardegna, II elenco, mazzo 69; AST, Sardegna, Lettere del viceré, mazzo 5; AST, Sardegna, Corrispondenza col viceré, mazzo 26; AST, Sardegna, Lettere al viceré, mazzo A/27.

 

(56) Cfr. ASC, Segreteria di Stato, 2^ serie, voll. 1685 e 1686.

 

(57) AST, Sardegna, Corrispondenza proveniente dall’isola, Lettere di particolari ed altri, mazzo 1, Palmas, 4 gennaio 1793, Dal cav. De Rochette al Vicerè e da questo inviata al conte Graneri (infra, p.   ); AST, Sardegna, Corrispondenza proveniente dall’isola,  Lettere di particolari ed altri, mazzo1, Dal accantonamento di Palmas, 5 gennaio 1793, Dal cav. De Rochette al Viceré e da questo inviata al conte Graneri (infra, p.   ). Sulle operazioni belliche nel golfo di Palmas cfr. G. M. Arrius, Relazione della campagna di Palmas 1792-93, edita da Tommaso Colgiani, in ASS, III, Cagliari 1907, pp. 206-246; T. Cogliani, Nuovo documento storico per la Sardegna, in «Bollettino bibliografico sardo», V, 1907, pp. 81-84 (si tratta della relazione del comandante De Nobili, che integra il racconto della campagna di Palmas descritta dall’Arrius).

 

(58) AST, Sardegna,  Corrispondenza proveniente dall’isola, Lettere di particolari ed altre, mazzo 1, Tempio, 7 marzo 1793, Dal cav. Giacomo Manca di Tiesi al Viceré (infra, p.   ).

 

(59) AST, Sardegna, Corrispondenza proveniente dall’isola, Lettere di particolari ed altre, mazzo 1, Sassari, 23 febbraio 1793, Da Don Gio. Batta Cugia al conte Graneri, Promemoria (infra, pp.        ).

 

(60) Infra, p.    .

 

(61) Infra, p.    .

 

(62) Infra, p.    .

 

(63) Infra, p.    .

(64) Su questo aspetto cfr. L’attività degli Stamenti nella «sarda rivoluzione», cit., tomo I, pp. 73-74 e docc. 10/3, 10/4, 10/5.

 

(65) AST, Sardegna, Corrispondenza proveniente dall’isola, Lettere di particolari ed altre, mazzo 1, Sassari, 23 febbraio 1793, Da Don Gio. Batta Cugia al conte Graneri, Promemoria, (infra, pp.        ).

 

(66) Cfr. L’attività degli Stamenti nella «sarda rivoluzione», cit., tomo I, pp. 42-119.

 

(67) Ivi, tomo I, pp. 207-228 e tomo III e tomo IV per la parte documentaria.

 

(68) La figura di Giuseppe Cossu (1739-1811), il celebre censore generale dei Monti di soccorso, autore di numerose opere di divulgazione agraria ispirate dalla politica di riforme del ministro Gian Lorenzo Bogino, è stato spesso all’attenzione degli studiosi. Su di lui cfr. P. Tola, Dizionario biografico, Torino 1837, vol. I, ad vocem; F. Venturi, Il conte Bogino, il dottor Cossu e i Monti frumentari, cit.; Illuministi italiani. Riformatori delle antiche Repubbliche, dei ducati, dello Stato pontificio e delle isole, a cura di G. Giarrizzo, G. Torcellan e F. Venturi, Milano-Napoli 1965, tomo VII, pp. 847-887. Si veda inoltre la recente edizione  della più celebre tra le sue opere: G. Cossu, La coltivazione de’ gelsi e propagazione de’ filugelli in Sardegna, a cura di G. Marci, Cagliari 2002. Su Gemiliano Deidda (1721-1810), matematico, che progettò la riforma del sistema monetario della Sardegna introdotto da Carlo Emanuele III nel 1768,  dal 1772 contadore generale, cfr. P. Tola, Dizionario biografico, cit., vol. I, ad vocem.

 

(69) Sulle vicissitudini del notaio Tommaso Marras cfr. L’attività degli Stamenti nella «sarda rivoluzione», cit., tomo I, p. 255; tomo II, p. 1150; tomo III, pp. 1160-61, 1636, 1638-39.

 

(70) AST, Sardegna, Corrispondenza proveniente dall’isola, Lettere di particolari ed altre, mazzo 1, Cagliari, 22 marzo 1793, Da Gio. Tommaso Marras al conte Graneri, Breve ragguaglio dell’ingiustissima guerra, che la sedicente Repubblica francese ha fatta all’isola, e regno di Sardegna nel 1793 redatta dal notaio cagliaritano Tommaso Marras (infra, pp.      ).

 

(71) Si veda, ad esempio, M. Pugioni, Memorie storiche della spedizione della gran flotta francese contro l’isola di Sardegna, dell’invasione della città capitale e delle isole intermedie, Bologna 1793.

 

(72) AST, Sardegna, Corrispondenza proveniente dall’isola, Lettere di particolari ed altre, mazzo1, Cagliari, 19 aprile 1793, Da Gio. Tommaso Marras al conte Graneri, Copia della lettera del cavagliere dn Luigi Porcheddu di Senorbj del dettaglio, e successi della sua compagnia di volontarj, cioe’ dal dì che i francesi si portarono a terra, sino al giorno, che se ne ritornarono a bordo (infra, p.   ).

(73) Gio. Tommaso Marras, Breve ragguaglio, cit. (infra, pp.      ).

 

(74) Cfr. Relazione del colonello Canelles, letta e scritta il 21 agosto 1793, in P. Martini, La spedizione francese, cit., pp. 195-291.

 

(75) Francesco Gerolamo Perrot d’Hauteville, nato nel 1731, intendente generale della gabelle, divenne ministro degli Esteri nel 1789, incarico nel quale nel giugno 1796 fu sostituito da Clemente Damiano di Priocca (1749-1813), già ambasciatore presso la Santa Sede. Cfr. G. Ricuperati, Il Settecento, in aa. vv. Il Piemonte sabaudo. Stato e territori in età moderna, Torino, 1994, passim; G. Romagnani, Prospero Balbo intellettuale e uomo di Stato (1762-1837), vol. I, Il tramonto dell’Antico Regime in Piemonte (1762-1800), Torino 1998, passim.

 

(76) AST, Lettere Ministri, Roma, mazzo 305, Roma, 3 marzo 1793, Dal cav. di Priocca al conte di Hauteville (infra, p.   )

 

(77) AST, Lettere Ministri, Roma, mazzo 305, Torino, 20 marzo 1793, Dal conte di Hauteville al Cav. di Priocca (infra, p.

 

(78) AST, Lettere Ministri, Roma, mazzo, 305, Torino, 3 aprile 1793, Dal conte di Hauteville al cav. di Priocca (infra, p.   )

 

(79) Ibidem.

 

(80) AST,  Lettere Ministri, Roma, mazzo 305, Torino, 22 maggio 1793, Dal conte di Hauteville al cav. di Priocca (infra, p.    ).

 

(81) AST, Lettere Ministri, Roma, mazzo 305, Roma, 7 giugno1794, Dal Cav. Damiano di Priocca al conte di Hauteville (infra, p.   ).

 

(82) Per gli aspetti biografici della vicenda di Matteo Luigi Simon (1761-1816), cfr. A. Mattone – P. Sanna, I Simon: una famiglia di intellettuali tra riformismo e restaurazione, cit. Tra le opere di M. L. Simon ricordiamo: Astemio Lugtimnio (pseudonimo di M. L. Simon), La crisi politica dell’isola di Sardegna, ossia Risposta imparziale a un oltremontano, s. l., 1800, ripubblicata da Rafael Catardi, Matteo Luigi Simon e la crisi politica dell’isola di Sardegna (1793-96), Alghero 1964. Si veda inoltre la recente edizione di un manuale geografico-storico lasciato inedito dall’autore: M. L. Simon, La Sardegna antica e moderna, a cura di Carlino Sole e Virgilio Porceddu, Cagliari 1995 (da un inedito manoscritto francese del 1816 tradotto da Carlino Sole).

(83) Su questi aspetti cfr. L. Carta, La «sarda rivoluzione». Studi e ricerche sulla crisi politica della Sardegna tra Settecento e Ottocento, Cagliari 2001, pp. 7-159.

 

(84) AST, Lettere Ministri, Roma, mazzo 305, Torino, 6 agosto 1794, Dal conte di Hauteville al Cav. di Priocca (infra, p.   ). I corsivi sono miei.

 

(85) Il conte Filippo Avogadro di Quaregna, padre dello scienziato Amedeo, presidente del Senato di Piemonte dal 1787, era succeduto quale responsabile degli Affari di Sardegna, al conte Pietro Graneri nel giugno 1794 (cfr. E. Genta, Senato e senatori di Piemonte nel sec. XVIII, Torino 1983, pp. 147-48). Il conte Pier Gaetano Galli Della Loggia, presidente in seconda del Senato di Piemonte, era subentrato al Quaregna nel febbraio 1795. Il conte Galli nel 1798, dopo l’abdicazione di Carlo Emanuele IV, «avrebbe aderito al governo provvisorio e poi al regime napoleonico, diventando conte dell’Impero e alto magistrato (G. Ricuperati, Il Settecento, in aa. vv., Il piemonte sabaudo, cit., p. 872).

 

(86) Su Gian Francesco Simon (1762-1819), terzo dei figli di Bartolomeo, abate di San Michele di Salvenero e preside del Collegio dei Nobili a Cagliari negli anni della «sarda rivoluzione», cfr. A. Mattone, P. Sanna, I Simon: una famiglia di intellettuali tra riformismo e restaurazione, cit. Tra i suoi lavori a stampa ricordiamo l’interessante Lettera sugli illustri coltivatori di giurisprudenza in Sardegna, Cagliari 1801.

 

(87) Vittorio Melano di Portula, frate domenicano, già professore di Teologia dogmatica all’Università di Cagliari, arcivescovo di Cagliari fino al 1797,  fu trasferito a Novara, dove morì nel 1813. Sull’ambasciata a Roma e a Torino nel 1795-96, cfr. L. Carta, L’attività degli Stamenti nella «sarda rivoluzione», cit., tomo I, pp. 218-21; tomo III, docc. 485-489 e 489/2.

 

(88) AST, Lettere Ministri, Roma, vol. 306, Roma, 24 ottobre 1795, Dal Cav.di Priocca al conte di Hauteville (infra, p.   ).

 

(89) Ibidem.

 

(90) Cfr. L. Carta, L’attività degli Stamenti nella «sarda rivoluzione», cit., tomo I, pp.231-33; tomo IV, docc. 517, 566, 579.

 

(91) Sulle persecuzioni contro gli angioiani e sulla loro diaspora si vedano soprattutto S. Pola, I moti delle campagne della Sardegna, cit.; L. Del Piano, Giacobini e massoni in Sardegna tra Settecento e Ottocento, Sassari 1982.

 

(92) Cfr. D. Scano, La vita e  tempi di Giommaria Angioy, cit.; G. Madau-Diaz, Un capo carismatico: Giovanni Maria Angioy, Cagliari 1979.

 

(93) Dei 530 documenti desunti dall’Archivio di Stato di Torino, 192 provengono dalla filza relativa al Consolato di Livorno.

 

(94) AST,  Consolati nazionali, Livorno, mazzo 76,  Livorno, 14 ottobre 1795, Dal Console di Sardegna, Pietro Rebuffo, al conte di Hauteville (infra, p.    ).

 

(95) Vedi nota 75.

 

(96) AST, Consolati nazionali, Livorno, mazzo 76, Livorno, 15 giugno 1796, Dal Console di Sardegna al conte di Hauteville (infra, p.    ).

 

(97) AST, Consolati nazionali, Livorno, mazzo 76, Livorno, 18 giugno 1796, Dal Console di Sardegna al cav. di Priocca (infra, p.    ).

 

(98) Ibidem (infra, p.    ). Il corsivo è mio.

 

(99) AST, Sardegna, Relazioni a S. M., Torino, 6 luglio 1796,  mazzo 12 (infra, p.    ).

 

(100) AST, Lettere Ministri, Genova, mazzo 3, Genova, 29 giugno 1796, Da Nomis di Cossilla, ambasciatore di Sardegna presso la Repubblica di Genova, al cav. di Priocca (infra, p.    ).

 

(101) AST, Lettere Ministri, Genova, mazzo 33, Torino, 2 luglio 1796, Dal cav. di Priocca a Nomis di Cossilla (infra, p.   ).

 

(102) AST, Lettere ministri, Genova, mazzo 34, Genova, 5 luglio 1796, Da Nomis di Cossilla al cav. di Priocca (infra, p.   ).

 

(103) AST, Consolati nazionali, Livorno, mazzo 76 (in un pacco a parte, indicato come proveniente dalla Segreteria degli affari di Sardegna), Livorno, 13 luglio 1796, Dal Console di Sardegna al cav. di Priocca (infra, p.   ). Il corsivo è mio.

 

(104) AST, Consolati nazionali, Livorno, mazzo 76, Livorno, 15 luglio 1796, Dal Console di Sardegna al cav. di Priocca (infra, p.   ).

 

(105) Ibidem.

 

(106)  Cfr. D. Scano, op. cit., pp. 137-39. Su tutti i personaggi citati si vedano le voci biografiche in V. Del Piano, Giacobini moderati e reazionari, cit.

 

(107) AST, Consolati nazionali, Livorno, mazzo76, Livorno, 20 luglio 1796, Dal Console di Sardegna al cav. di Priocca (infra, p.   ).

 

(108) AST, Lettere ministri, Genova, mazzo 34, Genova, 23 luglio 1796, Da Nomis di Cossilla al cav. di Priocca (infra, p.   ). Sul De Lorenzo cfr. V. Del Piano, Gacobini moderati e reazionari, cit., ad vocem.

 

(109) AST, Consolati nazionali, Livorno, mazzo 76, Livorno, 3 agosto 1796, Dal Console di Sardegna al cav. di Priocca (infra, p.   ).

 

(110) Cfr. A. Soboul, La Rivoluzione francese, trad. it. di Carlo Pischedda, Bari 1971, vol. 2°, p. 504.

 

(111) AST, Consolati nazionali, Livorno, mazzo 76, Livorno, 10 agosto 1796, Dal Console di Sardegna al cav. di Priocca (infra, p.   ).

 

(112) Ibidem; AST, Consolati nazionali, Livorno, mazzo 76, Livorno, 3 agosto 1796, Dal Console di Sardegna al cav. di Priocca (infra, p.   ).

 

(113) AST, Consolati nazionali, Livorno, mazzo 76, Livorno, 27 luglio 1796, Dal Console di Sardegna al cav. di Priocca (infra, p.   ).

 

(114) AST, Consolati nazionali, Livorno, mazzo 76, Livorno, 3 agosto 1796, Dal Console di Sardegna al cav. di Priocca (infra, p.   ).

 

(115) Ibidem.

 

(116) AST, Consolati nazionali, Livorno, mazzo 76, Livorno, 25 agosto 1796, Dal Console di Sardegna al cav. di Priocca (infra, p.   ).

 

(117) Ibidem.

 

(118) AST, Paesi, Milanese, Lettere diverse, mazzo 2 non inventariato, Milano, 31 agosto 1796, Dal cav. Borgese al cav. Rebuffo Console di Sardegna a Livorno (infra, p.   ).

 

(119) AST, Consolati nazionali, Livorno, mazzo 76, Livorno, 31 agosto 1796, Dal Console di Sardegna al cav. di Priocca (infra p.   ).

 

(120) Ibidem.

 

(121) AST, Consolati nazionali, Livorno, mazzo 76, Livorno, 2 settembre 1796, Dal Console di Sardegna al cav. di Priocca (infra, p.   ).

 

(122) AST, Consolati nazionali, Livorno, mazzo 1, Livorno, 5 settembre 1796, Dal Console di Sardegna al cav. Borgese (infra, p.   ).

 

(123) Ibidem.

(124) AST, Lettere Ministri, Genova, mazzo 33, Torino, 7 settembre 1796, Dal cav. di Priocca a Nomis di Cossilla Ambasciatore di Sardegna presso la Rep. di Genova (infra, p.   ).

(125) AST, Consolati nazionali, Livorno, mazzo 76, Livorno, 7 settembre 1796, Dal Console di Sardegna al cav. di Priocca (infra, p.   ).

 

(126) Come si desume da una relazione al viceré Vivalda del giudice Giuseppe Valentino e degli altri magistrati incaricati della repressione degli angioiani, probabil,ente redatta nel settembre 1798, conservato in ASC, Segreteria di Stato, 2^ serie, vol. 1696, fasc. 1796, la fallita incursione contro Sassari della squadriglia guidata da Cosimo Auleri avvenne il 17 settembre 1796; l’attacco dei fratelli Muroni contro Bonorva avvenne invece la sera del 7 e la mattina dell’8 ottobre 1796. Cfr. L. Del Piano, Giacobini e massoni, cit., Sassari, 1982, p. 141; si veda anche G. Sotgiu, Storia della Sardegna sabauda, cit., p. 217.

 

(127) AST, Consolati nazionali, Livorno, mazzo 76, Livorno, 7 settembre 1796 – Dal Console di Sardegna al cav. di Priocca (infra, p.   ).

 

(128) D. Scano, op. cit., p. 140. Una documentazione di grande interesse per valutare l’atteggiamento di Carlo Emauele IV nei confronti della Sardegna è costituita dalle lettere della moglie Maria Clotilde di Francia al confessore, l’ex gesuita originario di Osilo Giovanni Battista Senes: cfr. C. Manunta Bruno, Una regina e il confessore. Lettere inedite di Maria Clotilde di Francia regina di Sardegna all’ex gesuita G. B. Senes (1799-1802), Firenze 1935.

 

(129) AST, Consolati nazionali, Livorno, mazzo 76, Livorno, 14 settembre 1796, Dal Console di Sardegna al cav. di Priocca (infra, p.   ).

 

(130) Ibidem.

 

(131) AST, Consolati nazionali, Livorno, mazzo 76, Livorno, 21 settembre 1796, Dal Console di Sardegna al cav. di Priocca (infra, p.   ).

 

(132) Felice Mulas Rubatta, che fu l’artefice della fuga da Casale dell’Angioy, ne aveva sposato la sorella Maria Grazia Giovanna. Particolarmente attivo, insieme al fratello Andrea, nella propaganda e nella lotta antifeudale, stretto collaboratore dell’Angioy durante il periodo del governo a Sassari, fu tra gli animatori della resistenza del villaggio natale di Bono all’assedio e al saccheggio perpetrato contro quel villaggio dal corpo di spedizione al comando  dei delegati viceregi Ignazio Musso, Nicolò Guiso ed Efisio Luigi Pintor Sirigu. Dopo il rientro in Sarddgna fu a lungo invischiato nei contrasti interni alla comunità di Bono, per cui subì anche il confino. Il Manno nella Storia moderna scrive erroneamente che fu assassinato a Bono il 9 febbraio 1798; in realtà ad essere assassinato fu il fratello Andrea. Cfr. L. Del Piano, Giacobini e massoni, cit., p. 130.

 

(133) L’avvocato sassarese Gioacchino Mundula, il più noto giacobino della «sarda rivoluzione» e valido collaboratore dell’Angioy, che seguì nell’esilio, nel novembre 1796 da Livorno si recò in Corsica, ad Ajaccio, per tenere viva, tramite  i fuorusciti, la speranza  d’una imminente spedizione francese per liberare la Sardegna. Tramontata questa speranza, si trasferì in Francia per sollecitare il Direttorio. Non si conosce con esattezza la data della morte, che avvenne a Parigi. Nella documentazione che pubblichiamo la notizia della morte viene data in un dispaccio del marchese Della Valle all’avvocato fiscale Cappa del 22 luglio 1798 (vedi oltre, nota 183).

 

(134) AST, Consolati nazionali, Livorno, mazzo 76, Livorno, 3 agosto 1796, Dal Console di Sardegna al cav. di

Priocca (infra, p.   ); AST, Consolati nazionali, Livorno, mazzo 76, Livorno, 2 novembre 1796, Dal Console di Sardegna al cav. di Priocca (infra, p.   ).

 

(135) AST, Consolati nazionali, Livorno, mazzo 76, Livorno, 21 settembre 1796, Dal Console di Sardegna al cav. di Priocca (infra, p.   ).

 

(136) Cfr. AST, Lettere Ministri, Genova, mazzo 33, Torino, 17 settembre 1796, Dal cav. di Priocca a Nomis di Cossilla (infra, p.   ); AST, Lettere ministri, Genova, mazzo 34, Genova, 24 settembre 1796, Da Nomis di Cossilla al cav. di Priocca (infra, p   ).; AST, Lettere ministri, Genova, mazzo 34, Genova, 1 ottobre 1796, Da Nomis di Cossilla al cav. di Priocca (infra, p.   ); AST, Lettere ministri, Genova, mazzo 34, Genova, 4 ottobre 1796, Da Nomis di Cossilla ambasciatore al cav. di Priocca (infra, p.   ); AST, Lettere Ministri, Genova, mazzo 34, Genova, 8 ottobre 1796, Da Nomis di Cossilla al cav. di Priocca (infra, p.   ).

 

(137) AST, Consolati nazionali, Livorno, mazzo 76, Livorno, 28 settembre 1796, Dal Console di Sardegna al cav. di Priocca (infra, p.   ).

 

(138) . AST, Consolati nazionali, Livorno, mazzo 76, Livorno, 1° ottobre 1796, Dal Console di Sardegna al cav. di Priocca (infra, p.   ).

(139) AST, Consolati nazionali, Livorno, mazzo 76, Livorno, 5 ottobre 1796, Dal Console di Sardegna al cav. di Priocca (infra, p.   ).

 

(140) Ibidem.

 

(141) AST, Sardegna, Relazioni a S.M., mazzo 12, Torino, 6 dicembre 1796, Relazione a S.M. fatta la sera del 6 Xbre (infra, p.   ).

 

(142) Il marchese Giuseppe Della Valle di Clavesana, primo presidente della Camera dei Conti, era succeduto al conte Galli Della Loggia nell’incarico di responsabile degli Affari di Sardegna nel settembre 1796, con l’avvento al trono di Carlo Emanuele IV.

 

(143) AST, Consolati nazionali, Livorno, mazzo 76, Livorno, 26 ottobre 1796, Dal Console di Sardegna al cav. di Priocca (infra, p.   ).

 

(144) AST, Consolati nazionali, Livorno, mazzo 76, Livorno, 2 novembre 1796, Dal Console di Sardegna al cav. di Priocca (infra, p.   ).

 

(145) AST, Lettere ministri, Genova, mazzo 34, Genova, 3 dicembre 1796, Da Nomis di Cossilla al cav. di Priocca (infra, p.   )

 

(146) Sull’incarico dato dagli Stamenti all’arcivescovo Melano di rappresentare la Sardegna nella cerimonia del giuramento di fedeltà al nuovo sovrano, cfr. L’attività degli Stamenti nella «sarda rivoluzione», cit., tomo IV, docc. 706, 707, 715, 717, 718 722, 723, 725, 730, 733, 735, 736.

 

(147) AST, Sardegna, Corrispondenza col Viceré, mazzo 26, Torino, 7 dicembre 1796, Dal marchese Della Valle al Viceré (infra, p.   ).

 

(148) Ibidem.

 

(149) AST, Segreteria di S.M., lettere di particolari, mazzo 125, Torino, 21 dicembre 1796, Dalla Segreteria di S.M. al Viceré (infra p.   ).

 

(150) Ibidem.

 

(151) Ibidem.

 

(152) Cfr. D. Scano, op. cit., pp. 141-42.

 

(153) AST, Sardegna, Relazioni a S. M., mazzo12, Torino, 14 dicembre 1796, Relazione a S.M. (infra, p.    ).

 

(154) AST, Segreteria di S.M., lettere di particolari, mazzo 125, Torino, 21 dicembre 1796, Dalla Segreteria di S. M. al Viceré (infra, p.    ).

 

(155) Ceduta alla Francia dalla Repubblica di Genova con il Trattato di Versailles nel 1768, la Corsica, a seguito della ribellione di Pasquale Paoli, nella primavera del 1794 fu occupata dagli inglesi, che la governarono per due anni; dovettero evacuarla a seguito delle vittorie del Bonaparte nella prima Campagna d’Italia della primavera 1796.

 

(156) AST, Lettere di particolari, lettera T, mazzo 18, Casale, 8 gennaio 1797, Dal conte della Torre Governatore di Casale al Segretario agli Interni (infra, p.    ).

 

(157) Il conte Pietro Graneri, che fu giudice della Reale Udienza a Cagliari dal 1760 al 1768, aveva sposato Anna Maria Manca Brea (1739-1808), la vedova del duca di San Pietro Bernardo Genovès Cervellon.

 

(158) AST, Lettere di particolari, lettera T, mazzo 18, Casale, 17 gennaio 1797, Dal conte della Torre Governatore di Casale al Segretario agli Interni (infra, p.   ); AST, Consolati nazionali, Livorno, mazzo 76, Livorno, 8 febbraio 1797, Dal Console di Sardegna al cav. di Priocca (infra, p.    ).

 

(159) AST, Lettere di particolari, lettera T, mazzo 18, Casale, 17 gennaio 1797, Dal conte della Torre Governatore di Casale al Segretario agli Interni (infra, p.    ).

 

(160) AST, Sardegna, Corrispondenza coi particolari Sardi, mazzo 26, Torino, 18 gennaio 1797, Dal marchese Della Valle al Reggente Dn Gavino Cocco (infra, p.    ).

 

(161) AST, Consolati nazionali, Livorno, mazzo 76, Livorno, 20 gennaio 1797, Dal Console di Sardegna al cav. di Priocca (infra, p.    ).

 

(162) AST, Sardegna, Relazioni a S.M., mazzo 12, Torino,11 aprile 1797, Relazione a S.M., (infra, p.   ); AST, Corrispondenza col Viceré, mazzo 26, Torino, 12 aprile 1796, Dal marchese della Valle al Viceré (infra, p.   ).

 

(163) AST, Consolati nazionali, Livorno, mazzo 76, Livorno, 20 gennaio 1797, Dal Console di Sardegna al cav. di Priocca (infra, p.    ).

 

!164) Ibidem.

 

(165) Ibidem.

 

(166) Ibidem. In realtà don Felice Mulas Rubatta era congnato dell’Angioy.

 

(167) Vedi nota 132.

 

(168) AST, Lettere Ministri, Francia, mazzo 238, Torino, 25 marzo 1797, Dall’Incaricato di Francia, M.r Jacobs, al cav. di Priocca (infra, p.    ).

 

(169) Ibidem.

 

(170) ASC, Segreteria di Stato, serie 2^, vol. 1686, Sassari, 27 marzo 1797, Dal cav. Cugia al Viceré (infra, p.    ).

 

(171) AST, Sardegna, Corrispondenza coi particolari Sardi, mazzo 26 , Torino, 12 aprile 1797, Dal marchese Della Valle al Reggente Gavino Cocco (infra, p.    ).

 

(172) AST, Sardegna, Corrispondenza coi particolari Sardi, mazzo 26, Torino, 19 aprile 1797, Dal marchese Della Valle a Dn Gio Maria Angioi (infra, p.    ).

 

(173) Ibidem.

 

(174) AST, Sardegna, Relazioni a S.M., mazzo 12, Torino, 25 aprile 1797, Relazione a S.M. (infra, p.    ).

 

(175) Ibidem.

 

(176) Ibidem.

 

(177) AST, Sardegna, Relazioni a S.M., mazzo 12, Torino, 9 maggio 1797, Relazione a S.M. fatta li 9 maggio 1797 dei tre Dispacci del Viceré 17, e 31 marzo, e 14 aprile (infra, p.    ).

 

(178) Per le biografie di questi personaggi cfr. V. Del Piano, Giacobini moderati e reazionari, cit., alle rispettive voci.

 

(179) AST, Consolati nazionali, Livorno, mazzo 76, Livorno, 7 giugno 1797, Dal Console di Sardegna al cav. di Priocca (infra, p.    ).

 

(180) Ibidem.

 

(181) AST, Consolati nazionali, Livorno, mazzo 76, Livorno, 18 giugno 1797, Dal Console di Sardegna al cav. di Priocca (infra, p.    ).

 

(182) Ibidem.

 

(183) AST, Sardegna, Lettere coi particolari Sardi, mazzo 12, Torino, 22 luglio 1798, Dal marchese Della Valle al Presidente Cappa (infra, p.   ).

 

(184) AST, Consolati nazionali, Livorno, mazzo 76, Livorno, 18 giugno 1797, Dal sacerdote D. Giuseppe Ghio, segretario del Console a Livorno, al cav. di Priocca (infra, p.    ).

 

(185) AST, Paesi, Milanese, lettere diverse, mazzo 2 non inventariato., Mombello, 27 giugno 1797, Dal Cav. Borgese al cav. di Priocca (infra, p.    ).

 

(186) AST, Paesi, Milanese, lettere diverse, mazzo 2 non inventariato, Milano, 4 luglio 1797, Dal cav. Borgese al cav. di Priocca (infra, p.    ).

 

(187) Cfr. AST, Consolati nazionali, Livorno, mazzo 76, Livorno, 30 giugno 1797, Dal Console di Sardegna al cav. di Priocca (infra, p.    ).

 

(188) AST, Consolati nazionali, Livorno, mazzo 76, Livorno, 5 luglio 1797, Dal Console di Sardegna al cav. di Priocca (infra, p.    ).

 

(189) AST, Consolati nazionali, Livorno, mazzo 76, Livorno, 5 luglio 1797, Dal Console di Sardegna al cav. di Priocca (infra, p.    ).

 

(190) Ibidem.

 

(191) Cfr. V. Del Piano, Giacobini moderati e reazionari, cit., p. 506, ad vocem Sotgia Mundula Giammaria.

 

(192) AST, Consolati nazionali, Livorno, mazzo 76, Livorno, 5 luglio 1797, Dal Console di Sardegna al cav. di Priocca (infra, p.    ).

 

(193) Su Domenico Pinna, magistrato della Reale Governazione, che partecipò alla marcia di Angioy verso Cagliari, fratello dell’oppositore macomerese Salvatore, che ritorna spesso nella documentazione che si pubblica nel tentativo non coronato da successo di farsi ricevere dal sovrano per giustificarsi e dopo il suo rientro in Sardegna a lungo confinato a Carloforte, cfr. V. Del Piano, Giacobini, moderati e reazionari, cit., ad vocem; G. Cucca, Macomer, documenti cronache e storia di una comunità. Settecento sabaudo, Cagliari 2000, passim; Idem, Macomer, documenti cronache e storia di una comunità. Ottocento. Da Calo Emanuele IV a Carlo Felice (1800-1831), Nuoro 2007; S. Pittalis, Un documento inedito su Giomaria Angioy, in ASS, vol. XI, 1916, pp. 174-79.

 

(194) AST, Consolati nazionali, Livorno, mazzo 76, Livorno, 28 luglio 1797, Dal Console di Sardegna al cav. di Priocca (infra, p.    ).

 

(195) AST, Consolati nazionali, Livorno, mazzo 76, Livorno, 25 agosto 1797, Dal Console di Sardegna al cav. di Priocca (infra, p.    ).

 

(196) AST, Consolati nazionali, Livorno, mazzo 76, Livorno, 25 agosto 1797, Dal Console di Sardegna al cav. di Priocca (infra, p.    ).

 

(197) AST, Sardegna, Relazioni a S.M., mazzo 12., Torino, 5 settembre 1797, Relazione a S.M. (infra, p.    ).

 

(198) Vedi nota 132.

 

(199) AST, Lettere di particolari, lettera T, mazzo 18, Casale, 16 luglio 1797, Dal conte della Torre Governatore di Casale al Segretario agli Interni (infra, p.    ).

 

(200) AST, Sardegna, Corrispondenza coi particolari Sardi, mazzo 26, Torino, 14 luglio 1797, Dal marchese Della Valle alla Segreteria di Stato estera (infra, p.    ).

 

(201) AST, Lettere di particolari, lettera T, mazzo 18, Casale, 10 settembre 1797, Dal conte della Torre Governatore di Casale al conte Cerruti (infra, p.    ).

 

(202) Cfr. G. A. Mura, Un interessante documento inedito su Giomaria Angioy, in «Il Nuraghe», anno III, n. 33, ottobre-novembre 1925; D. Scano, op. cit., pp. 143-44; G. Madau Diaz, Un capo carismatico: Giovanni Maria Angioy, Cagliari 1979, p. 433.

 

(203) D. Scano, op. cit., p. 143.

 

(204) AST, Lettere di particolari, lettera T, mazzo 18, Casale, 10 settembre 1797, Dal conte della Torre Governatore di Casale al conte Cerruti (infra, p.    ).

 

(205) Ibidem.

 

(206) AST, Lettere di particolari, lettera T, mazzo 18, Casale, 17 settembre 1797, Dal conte della Torre Governatore di Casale al conte Cerruti (infra, p.    ).

 

(207) Ibidem.

 

(208) AST, Lettere di particolari, lettera T, mazzo 18., Casale, 10 settembre 1797, Dal conte della Torre Governatore di Casale al conte Cerruti (infra, p.    ).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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